|
§
Una commedia leccese del primo Settecento
|
Il restauro della "Rassa a bute" |
|
Mario
Marti
|
Quando
si dice la fortuna! Questa commedia leccese, che era rimasta celata
in un manoscritto (al n. 3) della nostra Biblioteca Provinciale per
più di due secoli, in pochissimo tempo, in circa cinque anni
(1984-1989), ha avuto l'onore di ben tre edizioni: l'una dovuta alle
fatiche di laurea di Tommasina Longo (la relativa tesi è reperibile
presso l'archivio di Facoltà, sess. autunn. 1982-3); l'altra
agli interessi storico-teatrali locali di Gino Santoro (Capone Editore,
1989); la terza al sottoscritto (Congedo Editore, 1989), con reduplicazione
del solo testo, traduzione e brevi note illustrative, nel terzo fascicolo
del "Giornale Storico della Letteratura Italiana", vol. CLXVI,
1989, pp. 392-432. E tutti questi lavori, a loro volta, sono stati preceduti
da una prima edizione a stampa, nata dalla giovanile entusiastica curiosità
di Oronzo Parlangèli e apparsa sulla "Zagaglia", a
puntate, nel 1959-1960. Non inganni l'altezza della data, di questa
data, nei riguardi dello studioso, che a quell'epoca aveva già
raggiunto risultati eccellenti nella sua disciplina, dei Parlangèli
cioè; in effetti la sua trascrizione risaliva a circa dieci anni
prima, quand'egli raccolse e pubblicò nell'Ottocento poetico
dialettale salentino di Ribelle Roberti (Galatina, primavera del 1954,
data apposta alla fine della Prefazione) i vari componimenti in esso
appunto contenuti (pp. 227 sgg.). Rivela la stessa acerbità filologica
di resa e di trascrizione, e la stessa maniera d'interessi culturali.
Si può dire insomma, con oggettiva e schietta verità,
che Parlangèli ebbe il grande merito di aver recuperato per primo
sia La Rassa a bute sia alcuni degli altri testi contenuti nell'Ottocento
robertiano; ma - dedicatosi poi appassionatamente ad altri argomenti
che certamente gli erano più cari, e anche, sotto certi aspetti,
più produttivi - non ebbe occasione per restaurare ciò
che egli per primo aveva recuperato e messo a disposizione degli studiosi
e del pubblico.
Io, che non sono un dialettologo, ma uno storico e un critico della letteratura italiana, mi son trovato a studiare e interpretare storicamente testi dialettali solo in quanto essi sono salentini; e questo settore della mia attività scientifica rientra nel mio programma, generale e di vecchia data, di coinvolgere il Salento, regione antropologicamente e culturalmente ben identificabile e certamente autentica, nella trama complessa dei rapporti fra regione e nazione, rapporti dialettici in una visuale policentrica della cultura (e della letteratura). Ho intitolato un mio libro Dalla regione per la nazione (Napoli, 1987). E quando mi accorsi, per esempio, che la versificazione di Niccu Furcedda era sistematicamente modulata con la tecnica dei gliommeri, il che contribuiva direttamente anche alla più corretta restituzione del testo, ritenni opportuno segnalare quest'elemento sulle pagine del "Giornale Storico" di Torino (CLXIII, 1986, pp. 587-592), piuttosto che su qualche foglio o rivista locale. E perciò sullo stesso "Giornale Storico" ho chiesto e ottenuto che venisse stampato il testo con la traduzione (e poche pagine illustrative) della Rassa a bute; e mi sono sobbarcato alla impostazione e conduzione di una "Biblioteca Salentina di Cultura", insieme con alcuni amici e colleghi, generosamente sostenuta da un'apposita "Fondazione" istituita dal e presso il Credito Popolare Salentino. Così son tornati a circolare nella letteratura e nella cultura italiana (nazionale) il De Pacienza di Nardò, il manduriano Donno, il gallipolino Castiglione, il parabitese Lenio, il mesagnese Materdona, il surbese Ampolo, per non parlare dei più noti Vanini (è pronto il volume con le sue opere, a cura di Papuli e Raimondi), Palmieri, Moschettini ecc.. Con questa "Fondazione" il Credito Popolare Salentino si è creato un merito non da poco, che rimarrà nel tempo; così come rimarrò questa magnifica rivista "Sudpuglia", voluta e sostenuta dalla omonima Banca salentina. Saggia attività degli istituti bancari, sulla quale ebbi già modo di richiamare l'ammirata attenzione ("Terra d'Otranto", III, 1, 1986). Ora, per la mia "Biblioteca" sono in preparazione due volumi di letteratura dialettale, il primo dei quali per le mie cure; ed è per questo che si spiega, da una parte, il mio sempre crescente interesse alla letteratura dialettale salentina (e a opere come La Rassa a bute), e dall'altra il taglio specifico delle mie indagini in questo campo, taglio non puramente linguistico, ma filologico e storico-letterario o storico-culturale. Un mio studio sul Viaggiu de Leuche comparirà a Padova in una prossima miscellanea per Folena. E dunque della "emarginazione" non ci si lamenta quasi per gusto, e neanche, infine, ce la si piange addosso; ma la si combatte con le armi più congrue: quelle del respiro, della visuale, della solidità e novità dell'indagine. della ricerca. E giacché sono scivolato, quasi senza volerlo e saperlo, a parlare di questi argomenti così importanti, io mi permetterei di suggerire a tutti coloro che si ritroveranno a lavorare in questo campo così allettante, di trattenere un po' il respiro, o la penna, o la parola, prima di formulare ancora una volta il luogo comune del ritardo, o dell'arretratezza, o della atavica sordità e del silenzio, della cultura e della letteratura italiana come si manifestavano qui nel Salento tra la fine del Quattrocento (e prima ancora) e la fine del Settecento, o almeno la metà. la Rassa a bute non è "il relitto" sopravvissuto al naufragio, o il segno indecifrabile e misterioso di un "tempo perduto", come va, con una certa suggestione, osservando Gino Santoro (si veda l'introduzione alla sua cit. edizione, che si intitola appunto: Viaggio intorno a un relitto teatrale); ma è una componente significativa del teatro dialettale salentino, nel quadro della coeva produzione, anche dialettale, che non è né impalpabile di quantità, né insignificante di qualità; tutto da ristudiare sulla linea della analoga produzione in lingua, che è ben tracciata e tracciabile nella panoramica nazionale: da Secondo Tarentino a Bonaventura Morone; da Cataldantonio Mannarino a Daniele Geofilo Piccigallo; da Ottavio Argentino a Scipione Sambiasi, e ad altri ancora. In varietà di generi e di interessi. Solo che questi testi bisogna recuperarli, ed eventualmente restaurarli; e insomma bisogna studiarli bene. Un campo finora trascurato; e lo indichiamo a chi intenda occuparsi di storia del teatro qui nel Salento. Ma torniamo alla nostra Rassa a bute, per esemplificare e illustrare alcuni casi di restauro particolarmente significativi, rispetto alle condizioni del manoscritto; e non potremo sottrarci, in questo lavoro, alla necessità del confronto con l'edizione della Longo (che citeremo con la sigla Ln) e con quella di Santoro (che citeremo con la sigla Sn). L'analisi del Prologo, che sulla scena è detto dal Cancelliere, pare assai adatta alla bisogna, e investe anche la spina dorsale della pièce, com'è nelle sue finalità di "genere", onde ne prefigura l'argomento e la sostanza. E cominciamo col riprodurre. con scrupolosa fedeltà, il codice; che dice così:
Aria I II Avverto subito:
1) la numerazione dei versi non compare, ovviamente, nel manoscritto,
e qui èposta per comodità di riscontro; 2) Ai vv. 9,
18, 19, 22, la grafia -dd- presenta un taglietto nell'alto di ciascuna
asticciuola, a indicare il suono cacuminale; 3) Al v. 17 l'autru è
scritto da mano posteriore immediatamente sotto un buchetto dovuto
a tarlo. E' chiaro che un testo siffatto non può essere stampato
e divulgato così come si presenta, salvo che non si vogliano
raggiungere conclusioni di stretto carattere linguistico (grafia,
punteggiatura, dialetto leccese, sintassi dialettale, ecc., in pieno
Settecento) con un'edizione diplomatica per documento. E non è
certo il nostro caso. Nel quale invece le prevalenti finalità
storico-culturali (e letterarie) impongono anche ai fini della divulgazione
corretta un'edizione prudentemente ammodernata, ma che rispetti scrupolosamente,
in modi moderni, i suoni, le forme, i moduli linguistici antichi,
in un'esegesi quanto più possibile fedele e corretta. Ora:
che cosa vogliono esattamente significare i vv. 1-7? La chiave per
aprirli sta nel costrutto Se vutiti / Deenati, accostamento coordinato
tra due indicativi, tipico del dialetto salentino (si voglia o non
si voglia sentire l'ellissi della congiunzione cu; e cioè:
Se vuliti (cu) deenati), e che significa: "se volete indovinare"
(e non dunque "se volete, indovinate", come intendono Ln
e Sn). Il costrutto perciò introduce un'ipotesi di secondo
grado, la protasi del quale sta in Se vuliti deenati ("Se volete,
indovinare"), e l'apodosi sta in Ognunu pensa; dove pensa non
è indicativo presente (come intendono ancora Ln e Sn), bensì
congiuntivo presente: "Ognuno pensi". Per. Sio Ndrea
te preu cu m'haggi pe scusatu Ndrea Minecu
beddu miu, cussi, e cussibi Gli è venuto
in mente di ipotizzare il matrimonio fra il suo amico Titta, giovane
e potente pur d'ambizione, e la cognata ormai catteata, divenuta vedova.
Avverto, prima di tutto, che le parole quidda e beddu hanno il taglietto
per indicare il suono cacuminale; e che al v. 4 e al v. 9 l'integrazione,
assai facile e indiscutibile, è dovuta al lavoretto di un tarlo.
Anche altri ritocchi sono di normale amministrazione, come "Sio'"
per Sio, "aggi" per haggi, "Cristu" per Christu
ecc., e tutta la relativa punteggiatura. Ma proprio riflettendo sulla
punteggiatura salta insopprimibile agli occhi della mente la incongruità
logica (e sintattica) dei due Ma, sottolineati al v. 4 e al v. 10
del pezzo riprodotto. Non hanno nulla di asseverativo, assolutamente
nulla di avversativo, nessuna spinta all'apertura di una distinzione.
Eppoi, il verso detto da Andrea (Minecu ... ) che cosa vorrà
mai dire con quel finale cussi, e cussibi? Ora, tutte le parole che
i due personaggi (Perulli e Andrea) si scambiano, sono, o debbono
sembrare. meste e addolorate, perché si riferiscono alla fresca
morte del cognato di Andrea; il quale, per altro, si mostra afflitto
(Ieu restu pe nu schau 'ncatenatu ... ) e meditabondo sulla mortale
sorte dell'uomo: Mìnecu, beddu miu, cussì è!";
e aggiunge "cussì bi", che può essere interpretato:
"Così vivi!" (seconda persona con valore sentenzioso
generale). Oppure: "Così è, così!",
considerato che, per esempio, nella luneide più d'una volta
compare cussibi col chiarissimo significato di "così".
Nella mia edizione ho preferito la prima soluzione: "Menico mio
caro, / così è, così vivi" (ricavando un
settenario dialefico tronco) perché è difficilior, senza
escludere del tutto però la seconda; anzi. E queste considerazioni
m'hanno indotto, persuasivamente, a intendere i due Ma, poco fa indicati,
non come congiunzioni, ma come interiezioni: "Mah!... Cristu
me cuncea ... "; "Mah!... Sapiti, signuri ecc."; e
si introduce precisamente a questo punto la principale, determinante
"svolta" (buta, vuta, uta) dell'azione rappresentata nella
commedia: la proposta di matrimonio. Per. Sio' Ndrea,
te preu cu m'aggi e scusatu, 'Ndrea Mìnecu,
beddu miu... Né sarà sfuggito al lettore che in tal modo, cioè ricavando il terzo verso (allu vìsetu) nei confronti del manoscritto che allunga il secondo (se no su statu allu visetu), è stata messa in luce la rima scusatu-statu, che unisce i primi due. Ma un altro caso straordinariamente interessante per il restauratore si presenta alla Scena Il del Il Atto, vv. 39 sgg. Andrea è furioso per la resistenza opposta da Don Carlo (fuori scena) alla sua proposta di matrimonio; il Sindaco e Titta cercano di frenarlo. Quale rimedio scegliere? Ecco, a questo punto, il manoscritto: Titta Quale remediu, è quiddu ci facimu Ndr. Cu rumpimu Il primo di questi versi è leggibilissimo con un punto interrogativo finale: "Quale rimedio èquello che facciamo?"; insomma: "Qual rimedio dobbiamo prendere?". Andrea risponde con parole non del tutto comprensibili; certo èche parla di rompere qualche cosa. E che vuoi dire: Lu passa qua ecc.? Il verso, pur mostrandosi così misterioso nel suo significato, non può però essere ritoccato arbitrariamente, perché è un perfetto endecasillabo. E allora? E allora basta inserire dopo Lu alcuni puntini di sospensione, per rilevare un'allusione tanto evidente, quanto salace, a che cosa dovrebbe essere rotto, dall'infuriatissimo Andrea. Ne consegue una facile, doverosa integrazione al verso precedente; e tutto si chiarisce: Cu [li] rumpimu E lu "struppiatu",
naturalmente, è Don Carlo. Bisogna onestamente ammettere che
Ln si rende ben conto della situazione filologica, tant'è vero
che inserisce al loro posto i puntini della comica reticenza; ma tralascia
di integrare, com'è invece necessario, il verso precedente.
Al contrario, il passo resta chiuso a Sn, il quale attribuisce, oltre
tutto, a rumpimu il senso di "rinunciare, fallire"; e traduce:
"Mandare tutto all'aria, / Il passa qua, mi fa lo storpio / e
questo io non lo posso digerire ecc ... " (così, proprio
fedelmente, anche la punteggiatura). Sarà una traduzione atta
alla "recitazione teatrale"; a me pare. francamente, che
non stia in piedi sintatticamente e che non renda affatto il testo.
E non sono rari, nella resa effettuata da Sn, i casi come questi,
coloriti di esiti singolari. Come in I, 1 (vv. 35-36), dove l'Anonimo
(per bocca del Maestro di Piazza) scrive: "De farse non è
cosa, ci aggiu dittu ... ", cioè "Non è cosa
da farse, non è cosa da scherzo, se io ho detto ... ",
ed Sn, invece: "Non è cosa da farsi, come ho detto ...
". Oppure in I, 2 (135-6), quando Lebetta dice, della vedova,
che le sue chiesuredde (col taglio della cacuminale) su tutte tarantiedde
(idem), cioè "sono tutte tarantelle", vivaci ed esplosive
come chi balla la tarantella, ed Sn, invece: "Si trovano tutti
nel tarantino" (e così anche Ln, perché né
l'una né l'altro intervengono sull'incredibile lezione del
manoscritto, dove c'era da recuperare una rima). E subito dopo, al
verso seguente, Carluccio dice: "Éde lu meghiu ca pighia
na fata", cioè: "Ma il meglio è che si piglia
una fata"., sposando la vedova, s'intende; ma Sn: "Il migliore
merita di sposare una fata". O come ancora in III, 1 (vv. 11-12),
quando il giovane Titta si pavoneggia, e mostrando le sue belle maniche
ricamate, dice: "E vieti Diu, no spicca / sta maneca ci portu
raccamata?", cioè: "E Dio non voglia [il contrario,
naturalmente], non fa spicco / questa manica che porto ricamata?";
laddove Sin traduce: "E il Padre eterno non ha vietato mai /
Questa manica che indosso ricamata". O come quando in II, 7 (v.
201), entra in scena il Maestro di Piazza gretandu, dice il manoscritto,
cioè "gridando": "Pane, pane!"; il gretandu,
dunque, funge da didascalia sull'atteggiamento dell'attore; ma Sn
non se ne avvede, e traduce: "Pane, pane - stanno gridando -",
equivocando sulla chiosa e riducendo un modo infinito in modo finito,
per aggirare la derivante difficoltà sintattica. E così
numerose altre volte, per non parlare dei refusi e delle sviste, dei
salti di righi o dell'omissione del nome del personaggi, che sono
cose che capitano anche nelle migliori famiglie. Neanche la mia edizione
ne è immune. |
![]() Tutti i diritti riservati © 2000 |