1. Un libro
sull'invidia
In un libro scritto nel 1966, Der Neid und die Gesellschaft (1), il
sociologo tedesco HeImut Schoeck fa il punto sulla presenza e sulla
funzione dell'invidia nella società in chiave storicista e
antimarxista. Ma non è questo che ci interessa, anche perché
l'opera appare, a mio parere, decisamente datata: però essa
è utile intanto perché raccoglie una discreta bibliografia
sull'argomento (anche se molto incompleta), e poi perché pone
correttamente il problema partendo dalla definizione dei termini:
Schoeck afferma che l'invidia è un sentimento aggressivo ma
allo stesso tempo impotente, un desiderio astioso di rovina, per cui
"la felicità e i pregi degli altri sono percepiti con
dispiacere" (2). Accortamente, inoltre, egli distingue l'invidia
dalla gelosia perché il geloso si trova in condizioni di inferiorità
nei confronti di un concorrente, ma non gli è inferiore rispetto
al valore che ha l'oggetto del contendere. Tornerà ancora su
questi concetti, validi nella misura in cui si riferiscono a una situazione
sociale determinata, e non come definizione generale di un fenomeno
che invece ha caratteristiche mutevoli.
Veniamo alla letteratura sull'invidia. Schoeck cita proverbi, psichiatri,
cita gli antropologi (Murdock, Linton, Kardiner, Mead), psicanalisti
(Freud, ma, stranamente, dimenticando
l'invidia del pene, Klein), sociologi, storici; un posto di rilievo
spetta a Scheler, Simmel, Toynbee; tra i filosofi e gli scrittori
vengono ancora ricordati Bacone, Kant, Kierkegaard, Nietzsche, Melville,
Sue, Olesa, Orwell; e inoltre vengono esaminate le proposte di società
egualitarie.
Particolare rilievo viene dato alla trattazione dell'invidia nelle
società esotiche (primitive, scrive il nostro) e al legame
che in esse esiste, secondo i lavori di Kluckhon e di Evans-Pritchard,
tra invidia e magia. Non voglio certo riportare qui la bibliografia
completa utilizzata da Schoeck, e quindi tralascio di continuare l'elenco;
conviene, tuttavia, fermarsi brevemente su di esso per notarvi delle
importanti assenze, di autori addirittura fondamentali per una comprensione
più articolata del fenomeno; per esempio, tra gli etnologi,
non vengono considerati i padri dell'antropologia che, se non altro,
hanno avuto il merito di sistematizzare la disciplina e almeno per
questo andavano ricordati.
Piuttosto sono molto interessanti alcune osservazioni dell'autore:
"Chi introduce innovazioni originali (l'inventore, lo scopritore)
può essere portato dall'entusiasmo, dalla soddisfazione della
scoperta o dalla curiosità a trascurare il freno dei controlli
sociali che agiscono nel suo ambiente. In genere, però, per
poter influenzare una cultura, ogni innovazione richiede l'apporto
di numerosi individui disposti ad accoglierla"(3). L'invidia
agisce quindi come un freno conformista alle innovazioni culturali
ed è più forte nelle piccole comunità rurali.
Qualcosa del genere avevano già scritto Bogatyrëv e Jakobson
in Die Folklore als eine besondere Form des Schaffens (1929): "L'esistenza
di un prodotto folclorico comincia soltanto dopo che esso sia stato
assunto da una determinata comunità e di esso esiste solo ciò
che questa comunità ha accettato e fatto proprio. [ ...] Nello
studio del folklore si deve sempre tener presente come principio basilare
la censura preventiva della comunità"(4). Schoeck individua
anche con ragione due elementi caratteristici della religione antica
(e della tradizionale) e di quella dualistica: l'invidia dei morti
e l'origine demoniaca di essa; ma poi si ferma con maggiore attenzione
sul problema dei rapporti tra i Greci antichi e il loro destino, e
dell'invidia che gli uomini possono generare negli dei. Tutti probabilmente
conoscono gli esempi più ricorrenti che vengono proposti per
mostrare l'esistenza dell'invidia negli dei verso gli esseri umani:
la morte di Agamennone, l'episodio dell'anello di Policrate, quello
di Creso, la vicenda di Serse. Ne riprenderà solo uno tra questi.
Creso, re di Sardi, ricchissimo e potente, ebbe come ospite alla sua
reggia Solone, il legislatore ateniese che era ben noto per la sua
saggezza ( a noi interessa poco l'impossibilità cronologica
dell'incontro). Creso, comunque, chiede a Solone, dopo avergli fatto
notare tutta la sua magnificenza, se non lo reputi l'uomo più
felice della terra; il saggio ateniese gli propone due esempi di gente
comune vissuta e morta virtuosamente e poi spiega: "O Creso,
tu fai domande sulle vicende umane a me che so che la divinità
è invidiosa

e perturbatrice.
Nel corso del tempo molte cose si hanno da vedere che non si vorrebbe,
e molte anche da soffrire. A 70 anni infatti io pongo il limite della
vita per un uomo. Questi 70 anni danno 25.200 giorni, senza contare
il mese intercalare; se poi vorrai che un anno ogni due si allunghi
di un mese, affinché le stagioni vengano a presentarsi al momento
giusto, nel corso di 70 anni i mesi intercalari saranno 35, e i giorni
di questi mesi 1.050. Ora, di tutti questi giorni compresi in 70 anni,
che sono 26.250, un giorno non porta assolutamente niente di simile
all'altro. Stando dunque così le cose, o Creso, l'uomo è
in balia degli eventi. A me certo pare che tu sia assai ricco e re
di molte genti; ma quel che tu m'hai chiesto io non te lo posso dire,
prima di aver saputo se hai finito felicemente la vita. Infatti chi
è molto ricco non è in nulla più felice di chi
vive alla giornata, se non lo accompagni la ventura di finir bene
mentre è in piena felicità" (5).
Come sempre, nelle vicende della storia degli uomini, conviene distinguere
attentamente prima di omologare e generalizzare. Così, l'invidia
degli dei greci non è propriamente tale, come nota lo stesso
Schoeck, perché le varie fortune e le sfortune degli uomini
vengono drasticamente equiparate dal destino; così anche una
vita dura e breve ma gloriosa equivale, anche se per Achille è
preferibile, a una vita serena e oscura ma lunga. Edipo, il figlio
della sorte, simbolizza perfettamente il rapporto tra i Greci antichi
e la loro vita.
Anche il Dio del Vecchio Testamento, se talvolta può apparire
invidioso agli occhi dei suoi stessi profeti, alla fine in effetti
si rivela giusto e terribile punitore del peccato della superbia in
cui incorre chi si ritiene superiore ai suoi simili per via delle
imprese compiute, o delle fortune accumulate, mentre egli non è
altro che strumento privilegiato di Dio. Il concetto di misura, di
peso della quantità di bene e di male ricevuta e compiuta dagli
uomini nella loro vita viene simbolicamente rappresentato nella iconografia
cristiana da san Michele, l'angelo portatore di bilancia.
Conviene, a questo punto, riferire le conclusioni del nostro autore
per dare concretezza al suo pensiero. "Potremmo formulare - egli
dice - la seguente teoria generale sulla funzione dell'invidia nello
sviluppo storico dei gruppi umani. Una convivenza, soprattutto un
lavoro di gruppo, che presenti una certa complessità richiede
alcuni controlli sociali sufficientemente funzionanti; il che comporta
che vengono emanate direttive, ordini e proibizioni da rispettarsi
anche quando la persona che li emana è assente. Liberi da controlli,
i membri del gruppo devono- quindi sorvegliare sospettosamente a vicenda
le eventuali trasgressioni a questo mossi dalla consapevolezza dell'invidia:
nessuno può essere sicuro che l'altro non lo denunci"
(6). Da questa teoria generale derivano corollari banali come il seguente
sulla giustificazione dei tabù dell'incesto: "Durante
l'assenza del padre, nessuno dei Figli può permettersi libertà
nei confronti delle donne della famiglia, dovendo calcolare la possibilità
che, per gelosia, almeno uno dei fratelli lo denunci" (7). Abbiamo
trovato il motore del mondo.
In effetti l'invidia va intesa in una maniera un po' meno solenne,
né in una funzione fondativa. A tal fine prenderà in
considerazione alcuni autori e alcune opere che descrivono l'invidia
secondo una fenomenologia fortemente esplicativa e certamente meno
orientata ideologicamente anche se moralmente ben definita. Si tratta
di opere trascurate dal nostro libro, più volte citato, - che
è servito più che altro come una sorta di guida del
pellegrino - anche se di altissima notorietà.
2. Sugli assenti
Tra gli antichi latini il motivo dell'invidia è ricorrente,
con delle sfumature che converrà sottolineare. Prendiamo intanto
un caso esemplare. Nella famosissima prima ecloga di Virgilio, mentre
Titiro suona tranquillamente il suo flauto Melibeo è costretto
a lasciare la sua terra in seguito a una espropriazione a favore dei
veterani. la condizione privilegiata di Titiro potrebbe generare qualche
malinteso, e allora Melibeo si affretta a spiegare: "Non equidem
invideo, miror magis" (8), tradotto comunemente con "non
t'invidio, certamente, piuttosto sono stupito"; ciò che
nel linguaggio corrente italiano è privo di senso. Secondo
il nostro modo di parlare è lecito usare espressioni come "ti
invidio" o "persona invidiabile", o altre analoghe.
Melibeo, invece, sottolinea "non invideo", e, poiché
il verbo va inteso nel suo senso forte e pregnante, la traduzione
che mi pare che più fedelmente riporti la situazione psicologica
del pastore dovrebbe essere: "Non è certo invidia la mia,
piuttosto stupore"; in questo modo si dà conto della buona
fede di Melibeo.
L'invidia è in questo caso una sorta di forza che può
essere scatenata da un moto dell'animo; così anche viene considerata
da Cicerone e Orazio, e tuttavia anche nel senso più generico
di odio. In essi, inoltre, ricorre il riferimento all'occhio malo
(9). Mi sembra che, diversamente che tra gli antichi Greci, l'invidia
abbia allentato i suoi rapporti con le entità cosmiche come
il destino o la misura. L'invidia riceve la sua sistemazione nella
tavola dei peccati capitali nel corso del Medioevo; essi vengono fissati
nel numero di sette (tra i cristiani occidentali) a partire da san
Gregorio Magno; la tradizione riceve poi la consacrazione definitiva
da san Tommaso (10).
L'invidia è solo un peccato veniale, ma, poiché è
origine di altri peccati, è anche capitale; inoltre è
un vizio, in quanto atto abituale, reiterato, prolungato. Secondo
san Tommaso il vizio nasce dal desiderio disordinato dei beni o dal
rifiuto disordinato di essi; appunto l'invidia consiste nel rifuggire
dal bene altrui.
Dante attribuisce l'invidia precipuamente ai Fiorentini, la considera
diabolica, tanto che spinta da essa la lupa uscì dall'Inferno
(11), ma, in linea con il pensiero di san Tommaso (e, d'altro canto,
la definizione dell'Aquinate di accidia, invidia, ira viene riportata
oserei dire pari pari nel canto XVII del Purgatorio), non punisce
gli invidiosi nell'inferno; li colloca invece nel secondo girone del
Purgatorio. Essi sono coperti "di vil ciliccio" (12), setoloso,
freddo e pungente, siedono poggiati alla roccia e si sorreggono l'un
l'altro, e sono ciechi, "ché a tutti un fil di ferro i
cigli fora / e cusce" (13). E' facile il giochino del contrappasso:
il cilicio, di setole di cavallo, avvilisce i penitenti e fa soffrir
loro la freddezza mostrata in vita, essi sono costretti alla solidarietà
e a sostenersi a vicenda, e soprattutto vengono puniti nell'organo
principe dell'invidia, l'occhio, usato in vita malevolmente a portar
danno. Nel Convivio Dante considera l'invidia una delle passioni connaturali
o consuetudinarie altrimenti definite vizi. l'invidia "fa la
persona di meno valore ch'ella non è. ( .. ) Onde quando questi
cotali veggiono la persona famosa, incontanente sono invidi, perocché
veggiono assai pari membra e pari potenza; e temono, per la eccellenzia
di quello cotale, meno essere pregiati: e questi non solamente passionati
mai giudicano, ma, diffamando. agli altri fanno mal giudicare"
(14). Dal che si ricava prima di tutto un riferimento autobiografico
e poi che spesso al malocchio segue la malalingua.
E veniamo ora a una rappresentazione pittorica, famosissima, dell'invidia.
Filippo Il all'Escorial appese nella sua stanza da letto una tavola
di Hieronymus Bosch (1450?-1516), ora al museo del Prado a Madrid,
che rappresenta i sette peccati capitali e i quattro novissimi. La
struttura del dipinto è molto originale: al centro c'è
Cristo circondato da sette scomparti che formano un cerchio; ai quattro
angoli della tavola in altrettanti tondi la rappresentazione di morte,
risurrezione, inferno e paradiso. le varie scene sono particolarmente
vivaci, ricche di movimento, tranne quella dell'invidia, caratterizzata
da una certa qual fissità che tuttavia è solo apparente;
in effetti i personaggi della scena, tranne uno, sono colti in un
momento come di sospensione, di pausa.
Affacciato a una finestra, un uomo getta delle ossa a due cani, ma
resta fermo con un osso in mano a osservare un tizio con un falchetto
che passa lì vicino, vestito di un abito chiaro dalle maniche
amplissime e corto al di sopra della caviglia a lasciar vedere dei
sandali piuttosto singolari; una sacca legata alla vita è evidentemente
gonfia di prede e trappole; si tratta quindi di un cacciatore, certamente
una persona di condizione agiata, probabilmente un nobile; costui
è fermo, col viso rivolto indietro, nell'atto di richiamare
i cani che invece sono in attesa che l'uomo alla finestra getti loro
anche l'ultimo osso.
L'uomo delle ossa con l'indice della mano destra mostra il falconiere
a una donna che gli è accanto: costei lo osserva attentamente
di soppiatto, nell'atteggiamento di chi sta spiando. Dalla finestra
vicina una donna conversa con un uomo che è in strada: ma anch'egli
è visibilmente distratto dal cacciatore. Insomma, ben tre paia
d'occhi fermano la scena e sezionano il passante: è l'atto
dell'invidia. Poco distante un uomo in brache curvo sotto un grosso
sacco è l'unico a muoversi portandosi via il suo peso, senza
che nessuno si interessi a lui; è certamente il più
povero dei personaggi; egli non ha motivo di essere invidiato, e infatti
passa inosservato. Il destino degli invidiosi è raffigurato
crudemente nel tondo dell'inferno: a loro tocca di essere sbranati
dai cani diabolici per l'eternità.
Il dipinto sottolinea fortemente, quindi, il legame tra lo sguardo
e l'invidia, e il pittore ha saputo egregiamente fermare il movimento
e sottolineare l'azione degli occhi che intenzionalmente si fermano
sul malcapitato. Il mondo di Bosch, questa sorta di stultifera navis,
procede, paradossalmente, in tutta serenità verso la dannazione
eterna. C'è una sottile malizia in questa condanna del pittore,
fermo sulla sponda a guardare passare, senza invidia, ovviamente,
la nave dei folli. "Cave, cave, dominus videt", egli avvisa,
a ogni buon conto, con una scritta al centro della tavola.
3. Metamorfosi
dell'invidia
In una società come quella contemporanea sembrerebbero allontanarsi
la paura e la necessità del ricorso all'invidia; tutto ciò,
logicamente, procede per gradi e dà vita ad atteggiamenti tutto
sommato strani che da un lato ricordano i vecchi gesti rituali propiziatori
e apotropaici e dall'altro sono inscritti in un universo che si predica
più o meno indifferente a quei gesti. Così la gestualità
fallica non ha certo perduto forza espressiva, ed è tutt'altro
che inconsueto vedere, durante la Quaresima, i pupazzi protettori
appesi per le strade. Ma certo non si può dire che l'invidia
abbia conservato la sua pericolosità. Non si è mai,
mi sembra, sufficientemente espliciti nel raccontare fino a quali
livelli la trasformazione della società occidentale, e in particolar
modo delle comunità rurali, che si è avuta negli ultimi
decenni, ha implicato un diverso rapporto con il mondo. Non si tratta
solo della evidente trasformazione della vita economica e sociale,
della scomparsa di precipue abitudini di vita, ma proprio dei modi
di agire nel quotidiano, del comunicare, del sedersi, del dormire,
del sognare, e inoltre della latenza di credenze spesso esplicative
e giustificative degli eventi; si tratta dei rapporti con il mondo
esterno al soggetto e delle mediazioni che relazionano questo a quello.
Non si può mai sapere con certezza ciò che può
entrare e uscire dalle finestre, e questo a maggior ragione nel mondo
antico, tradizionale, rurale; la stessa sensibilità è
problematica
tanto più all'interno di un mondo frequentato con regolarità
anche da entità non umane e retto da forze controllabili solo
ritualmente. E allora gli occhi vedono i morti e i fuochi fatui, il
diavolo e i santi, ma soprattutto sono lo strumento privilegiato dell'azione
dell'invidia; essi possono diventare vitrei e opachi, e, di conseguenza,
spaventosi.
Le orecchie sono forse l'unico organo di senso a non causare danni
ad altri, ma sono anche quelli che hanno delle percezioni continue
e in gran parte involontarie; sono principalmente delle vie d'ingresso,
e non solo di voci (umane e sovrumane) ma anche di spiriti o della
morte. La conceptio per aurem, per esempio, risolse durante il Medioevo
il problema della concezione virginale della Madonna, secondo una
tradizione accolta e tramandata da alcuni vangeli apocrifi, che trova
luogo anche negli scritti dei Padri. Maria fu quindi fecondata dal
Verbo, o dallo Spirito Santo, come puntualizza san Tommaso, attraverso
un orecchio (15). L'orecchio ascolta inoltre la parola magica che
consente l'esorcismo poiché permette ad essa di raggiungere
lo spirito possessore per costringerlo ad abbandonare la vittima.
Il naso è organo vitale poiché attraverso di esso entrano
gli spiriti; ovviamente, ne escono pure, sicché il naso è
uno dei luoghi privilegiati per l'uscita dell'anima dal corpo; Bronzini,
per esempio, sottolinea il mihi anima in naso esse del terrorizzato
Nicerote che racconta nel Satyricon di Petronio la sua esperienza
della visione della trasformazione in lupo di un soldato suo compagno
di viaggio (16).
L'affinamento del naso è uno degli elementi, in mancanza di
meglio, suggeriti da Galeno, che consentono di riconoscere l'approssimarsi
della morte. D'altro canto, i consigli medici durante la ripresa fisica
nel corso di una convalescenza o addirittura per la cura di una malattia
prevedono spesso il cambiare aria e di andarsi a cercare preferibilmente
quella pura di campagna. A ragione i protagonisti di, La montagna
incantata di Thomas Mann possono essere ritenuti la malattia e l'aria.
Nei primissimi anni del XVIII secolo il medico Giorgio Baglivi scriveva:
"Ipse consulo. ut aeger meus asthmaticus arva colat, & fere
tota die sequatur bubulcum terram arantem & ambulet super sulcos,
sive viam illam ab aratro recens factam, & continuo respiret atque
hauriat aerem a recens ruptis glebis exalantem, qui quoniam plenus
est nitro aliisque salibus a centrali calore telluris cohobatis ac
exaltatis, pulmonum relaxatas roborat telas, eisdem impactas visciditates
resolvit, ac per vias naturae magis amicas educit" (17). Si consideri
inoltre la pericolosità dello starnuto, il quale stesso richiede
la convenienza di augurare salute a chi lo abbia effettuato.
La bocca, poi, è organo essenziale della parola, ma anche luogo
elettivo dell'ingresso nel corpo e della fuoriuscita da esso degli
elementi vitali e dannosi, dell'aria e del cibo, dell'anima e della
malattia. la parola non solo consente la comunicazione verbale, ma
ha delle effettive possibilità operative, una valenza magica
sia in senso positivo che apotropaico. Qui il discorso sulla parola
sacra, creatrice, purificatrice, segreta potrebbe essere lungo; conviene
tornare solo un attimo alla maldicenza, cui aveva accennato poco sopra
Dante, per ribadire il legame che spesso esiste, ed è ben stretto,
di essa con l'invidia. Scriveva Pierre Bayle nel 1682 nei suoi pensieri
sulla cometa: "Coloro [...] che spargono maldicenze, gioiscono
di poter diminuire, così facendo. il buon nome del prossimo
di cui sono gelosi e di porsi quanto più in alto possono, oltre
a diventare molto simpatici alle donne. [..] Piacciono alle donne
perché in genere esse sono estremamente vane e invidiose, al
punto che per intrattenerle in modo gradito in una conversazione non
basta saper mentire tessendo le loro lodi, ma saper mentire parlando
male delle altre donne, soprattutto di quelle che sono rivali per
beltà, per spirito, per importanza o per rango" (18).
Non è certo da dimostrare la continuità della tradizione
del pettegolezzo. Elenco solo per accenni una serie di funzioni reali
e simboliche a cui la bocca è legata: la nutrizione (con gli
eccessi della crapula berniana e rabelaisiana e dei digiuni di tipo
monastico penitenziale) che è strettamente legata alla sessualità
(non penso tanto ai cibi afrodisiaci quanto alla mirabile concezione,
del tipo di quella mariana sopra considerata, di Prezzemolina (19);
la bocca è la porta d'ingresso nelle cerimonie d'iniziazione,
nello stomaco del pesce di Giona, del pescecane di Pinocchio, del
lupo di Cappuccetto Rosso; due fauci spalancate rappresentano l'entrata
nell'inferno; la bocca trituratrice e cannibalesca di lucifero è
la metafora della più crudele delle sorti secondo gli occidentali.
Infine il tatto: i rischi del contatto, la paura di toccarsi il corpo
per indicare il luogo in cui qualcuno ha un male, il rischio delle
ferite, del morso della tarantola, delle trasformazioni zoomorfe.
Ciò che è intatto è perfetto. Intangibile è
il sacro e l'immensamente laido, di cui si potrà fare esperienza
dopo la morte (20).
L'invidia può procurare ogni danno; in una società di
tipo tradizionale essa non è un sentimento aggressivo ma impotente;
una tale definizione, citata all'inizio di questo lavoro, può
valere per una società avanzata, come vedremo ancora. Tuttavia,
in una realtà naturale e sociale fortemente carica di una tensione
che deriva da una povertà tecnologica e culturale essa mostra
il suo carattere operativo e distruttivo. l'invidia non necessariamente
ha bisogno di un invidioso cosciente, agisce spesso da sola, sprigionata
a volte anche da un movimento involontario degli occhi che si posano
casualmente su un oggetto, o su un bambino, oppure anche da un complimento
particolarmente enfatico, da una intenzione istantanea, da un pensiero;
non per questo i suoi poteri sono meno distruttivi, anzi, poiché
l'invidia è un atto, un'operazione, una pratica, se volontaria,
peccaminosa e viziosa, ma soprattutto, fuori dagli schemi del catechismo,
dannosa.
La letteratura demologica sull'invidia è nutritissima, ed ha
ormai una valenza storiografica importantissima, perché descrive
un mondo che ormai non esiste più, o che esiste solo a un livello
profondo di strutture mentali che tuttora resistono, seppur in maniera
frammentaria, nei paesi tra le persone più anziane e le meno
acculturate, o in alcune abitudini religiose, o, più generalmente,
rituali, di solito alquanto modificate quasi sempre per finalità
di tipo turistico-mangiatorio.
Nel mondo tradizionale bisogna sottolineare l'esistenza del paradosso
dell'invidia, che implica di nascondere e tenere per sé, al
riparo, tutto ciò che potrebbe essere oggetto di ammirazione
o di semplice curiosità, e della necessità, particolarmente
in alcune occasioni, di ostentare la propria ricchezza o determinati
oggetti (come il corredo matrimoniale, i doni ricevuti, i soldi spesi
per l'acquisto all'asta del diritto di portare i santi nelle processioni)
per motivi che generalmente vengono definiti di prestigio sociale.
I testi demologici che trattano dell'invidia sono in pratica tutti
quelli che più o meno seriamente si occupano di tradizioni
popolari; di essi, ovviamente, il più noto e il più
importante, ormai un classico, resta Sud e magia (1959) di E. De Martino;
molto importante è anche Dono e malocchio (21) di C. Gallini;
curioso è il libro di L.Marugj, Capricci sulla jettatura (1788);
indispensabile, per il discorso sull'invidia dei morti. La grande
festa (22) di V. Lanternari; per quanto riguarda il rischio dell'invidia
degli oggetti e della vendetta di essi verso gli uomini ricordo l'opera
di A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico
(23), e soprattutto la meravigliosa opera di l. Chiabrera, El Monte
(1954) anche se si riferisce a una realtà molto diversa da
quella europea, cioè a quella afrocubana (24). Tra le fiabe
basterà ricordare le celeberrime Cenerentola e Biancaneve in
cui l'invidia opera dei danni quasi estremi; ma un'operazione di spigolatura
bibliografica rischierebbe di essere lunghissima e, forse, monotona.
L'invidia, quindi, danneggia, distrugge; aveva nel passato una grande
forza magica, riuscire a controllarla significava automaticamente
acquisire un temibilissimo potere, che, tuttavia, poteva essere usato
anche, tramite le parole e i gesti magici, a difesa della vittima.
Ad essere più precisi, se ci sono state le streghe abilitate
a produrre l'invidia,
più numerose sono state quelle additate come tali dall'invidia
della gente. E' anche vero che l'invidia funzionava con maggiore facilità
tra esponenti di una stessa classe sociale o di ceti molto vicini.
Il re non riusciva, e ci si arrabbiava pure, a farsi invidiare da
Bertoldo, per il quale, notoriamente, chi cade da più alto
rischia di farsi più male. Pericolosissima era l'invidia dei
morti, perché senza rimedio; soprattutto per questo essi andavano
ricordati e blanditi. I morti invidiano ai vivi proprio la vitalità,
gli affetti e l'esistenza terrena. Anche ai santi veniva attribuita
l'invidia; ma più precisamente essi mandano malattie e danno
per vendicarsi di una dimenticanza o di offerte sparagnine o di atti
religiosi poco convinti; sono anche gelosi uno dell'altro quando si
vedono negare il culto a vantaggio di un santo riconosciuto più
potente; anche per questo possono punire i fedeli, a meno che non
abbiano sfacciatamente torto essendosi impegnati poco nella soluzione
di un problema.
I segni magici dipinti sui trulli, i cornetti e le figurine attaccati
all'ingresso degli apiari, le icone e le edicole alle porte delle
case e ai confini dei campi, i santini e le fotografie dei morti tenuti
in casa, riassumono una generale esigenza di rassicurazione contro
i pericoli del fascino.
Si tratta di segni che, ancor oggi presenti, anche se più rari,
hanno tuttavia un significato più blando, sono un tentativo
di difesa di tipo tradizionale da pericoli di cui, però, non
si cerca più, generalmente, una giustificazione di tipo magico.
E l'invidia in tutto questo non c'entra più niente; essa in
pochi anni ha perduto la sua funzione e il suo potere, si è
trasformata in sentimento, ha perso le sue abilità operative.
Se analizziamo bene la cosa, ci accorgiamo che l'invidia difficilmente
agiva direttamente sulla vittima, causandone. per esempio, la morte
immediata, ma, più crudelmente, su qualcosa che le apparteneva:
una qualità, gli animali, il seno gonfio di latte, la casa,
i campi, la sessualità, la salute di un figlio; adesso invece
è più comune che un sentimento aggressivo cada immediatamente
sul diretto interessato, senza peraltro scatenare forze superiori,
e in questo caso si tratta di odio. Già i latini parlavano
di invidia anche nel senso di odio, operando una sorta di traslazione
del significato. Ebbene, non solo questa traslazione ormai è
rimasta, ma. a voler essere precisi, il significato è ancora
più ampio: in genere con il termine invidia si intende la gelosia,
in quanto questa coincide con il volere qualcosa che un altro ha,
senza desiderare tout court che quello la perda; quando invece si
verifica che qualcuno operi a svantaggio di un altro si ritiene che
sia un criminale; se poi è addirittura capace di crearsi dei
fastidi (magari pagando qualche moderno fattucchiere) pur di danneggiare
la sua vittima è semplicemente uno stupido (25).
Oggi, come accennavo sopra, esprimere la propria ammirazione per qualcuno
è considerato un atto di civiltà, ed è consentito
farlo con parole come "ti invidio"; e se si vuol mostrare
la propria civile paura che qualcosa possa non andare per il verso
giusto (la vecchia paura dell'invidia) si parla di scaramanzia.
In ogni caso mi sembra che il nostro mondo occidentale, per quanto
conservi e rinnovi numerose forme di ricorso a misure di carattere
magico-religioso, abbia perduto la paura dell'invidia che, se pure
indica il dispiacere per la felicità o i pregi altrui, tuttavia
è impotente, come recita la definizione da cui è partito
questo lavoro.
Di tutto questo è segno evidente la tranquillità del
consumo; la diffusione dei beni ha certamente contribuito a modificare
in gran parte l'atteggiamento nei confronti della spesa vistosa non
più confinata, come nel mondo rurale tradizionale, ai momenti
dell'ostentazione rituale (26).
NOTE
1) H. Schoeck, Der Neid und die Gesellschaft, trad. it. L'invidia
e la società, Rusconi, Milano, 1974.
2) lbidem, p. 22.
3) Ibidem, p. 115.
4) P. Bogatyrëv, R. Jakobson, Die Folklore als eine besondere
Form des Schoffens, trad. it. in G. B. Bronzini, Cultura popolare.
Dialettica e contestualità, Dedalo, Bari, 1980, pp. 83 e 85.
5) Erodoto, Storie, I, 32, trad. it. Rizzoli, Milano, 1984. I calcoli
astronomici di Erodoto non sono precisi, e tuttavia il fatto ci interessa
poco, considerati i nostri fini, e anche quelli del discorso di Solone.
6) H. Schoeck, op. cit., p. 329.
7) Ibidem.
8) Virgilio, Bucoliche, I, 11.
9) Cfr. G. B. Bronzini, Cultura contadina e idea meridionalistica,
Dedalo, Bari, 1982, p. 152.
10) Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae, 1-2, q. 84.
11) D. Alighieri, Inf., I, 111.
12) Id., Purg., XIII, 58.
13) lbidem, 70-71. I commentatori di questo brano fanno solitamente
riferimento al modo di allevare gli uccelli da preda diffuso nel Medioevo
e citano un famoso passo del trattato De arte venandi cum avibus di
Federico II, in cui viene descritta l'accigliatura, la cucitura delle
palpebre, del rapace. Questa pena, questa sorta di educazione coatta
dello sguardo, quindi, avverrebbe secondo i metodi della tradizione
venatoria. Nel dipinto di Bosch, di cui parlerà oltre, - non
è un caso, mi sembra - un falco portato in mano da un signore
ha la testa incappucciata: finché non guarda non colpisce;
invece altri personaggi del dipinto pare che colpiscano, eccome, con
occhiate mirate, l'avventurato falconiere.
14) Id., Convivio, I, 4.
15) Cfr. A. M. Di Nola, Vangeli apocrifi, Lato Side, Roma, 1979.
16) G. B. Bronzini, Analisi antropologica di un racconto letterario
classico, in Modi del raccontare, a cura di G. Ferroni, Sellerio,
Palermo, 1987, p. 25.
17) "Io stesso consiglio al mio paziente asmatico di abitare
in campagna, e che quasi ogni giorno segua il contadino mentre ara:
e passeggi sui solchi, o sulla via fatta da poco dall'aratro, e respiri
e attinga in continuazione l'aria che esala dalle zolle rotte da poco
tempo, aria che, poiché è ricca di salnitro e di altri
sali prodotti dal calore proveniente dal centro della terra, rassoda
i tessuti rilassati dei polmoni, scioglie il muco incollato ad essi
e lo fa espellere per vie naturali". Georgii Baglivi, Opera omnia
medico-practiva et anatomica, apud Jo. Adam Stein et Gabriel Nic.
Raspe, Norimbergae, 1751, p. 387.
18) P. Bayle, Lettre..., trad. it. Pensieri sulla cometa, Laterza,
Roma-Bari, 1979, p. 314.
19) E' la Petrosinella di Basile, contenuta anche nella raccolta a
cui qui mi riferisco, di I. Calvino, Fiabe italiane, Einaudi, Torino,
1956.
20) Cfr. P. Camporesi, La casa dell'eternità, Garzanti, Milano,
1987.
21) C. Gallini, Dono e malocchio, Flaccovio, Palermo, 1973.
22) V. Lanternari, La grande festa, Il Saggiatore, Milano, 1959. Sullo
stesso tema cfr. anche di C. Ginzburg I benandanti, Einaudi, Torino,
1966, e Storia notturna, Einaudi, Torino, 1989.
23) A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico,
Giuffrè, Milano, 1959.
24) L. Chiabrera, El Monte, trad. it. Piante e magia. Religioni, medicina
e folclore delle culture afrocubane, Rizzoli, Milano, 1984.
25) Le leggi fondamentali della stupidità umana sono state
formulate da C. M. Cipolla, in tono ironico, nel bel libretto Allegro
ma non troppo, Il Mulino, Bologna, 1988.
26) Sui rapporti consumo-società rimando a M. Douglas, B. Isherwood,
The world of goods, trad. it. Il mondo delle cose, Il Mulino, Bologna,
1984.