In passato la
politica economica ha avuto compiti di stimolo dello sviluppo e di
controllo del ciclo. Obiettivi e strumenti venivano caricati di una
forte dose di cultura industriale; essi erano paludati della dottrina
economica maturata nella società preindustriale e industriale.
L'istanza più sentita era quella di accompagnare la transizione
dell'economia da agricola a industriale e della società verso
il "benessere".
Questa fase della politica economica ha indotto mutamenti strutturali
principalmente tramite investimenti in infrastrutture economiche (trasporti,
telecomunicazioni, elettricità) e sociali (scuole, ospedali,
attrezzature sportive); ha indotto mutamenti nel ciclo economico principalmente
attraverso il governo della domanda aggregata con strumenti monetari
(modifiche alla quantità e qualità di credito, ai tassi
d'interesse, ecc.) e/o strumenti fiscali (imposizioni tributarie,
spesa pubblica).
La politica economica dell'economia e della società industriale
ha raggiunto importanti obiettivi, ma ha lasciato uno strascico di
delusioni grandi come le attese che aveva suscitato. Non è
stata capace né di portare né di tenere i sistemi economici
al pieno impiego; ha rischiato il collasso dei sistemi finanziari
per la diffusione del virus inflazionistico; ha rischiato di bloccare
il mercato invece di indirizzare le sue risorse vitali per lo sviluppo.
La "deregulation", la disinflazione, e la forte attenuazione
dell'intervento pubblico nell'economia hanno posto termine a un ciclo
storico - durato circa mezzo secolo - di fiducia nella ragione delle
autorità e di sfiducia in quella del mercato. La "mano
visibile" di John Maynard Keynes ha deluso e si è tornati
a credere nelle virtù terapeutiche della "mano invisibile"
di Adam Smith. Ma la politica economica non è un problema "pranoterapico",
di "mani" più o meno risanatrici, ma di corretta
conoscenza e coerente azione.
Certamente le conoscenze degli economisti erano e sono troppo lacunose
per perseguire obiettivi così ambiziosi come lo sviluppo di
pieno impiego ed anche più il controllo del ciclo congiunturale.
Ma è soprattutto la società, dal Parlamento ai cittadini,
che non corrisponde alle esigenze di una politica economica in cui
l'intervento pubblico garantisce investimenti di piena occupazione
ed elevato standard di prestazioni di servizi civili e sociali, ossia
tutte le prestazioni della "società del benessere".
Il passaggio da una società agricola a una industriale ha mantenuto
omogeneità nei "valori" e nei modelli economici (consumi,
investimenti, risparmi). Il passaggio da una società industriale
a una terziaria non presenta invece la stessa omogeneità. L'attuale
fase di trasformazione della società presenta una forte disomogeneità
nei valori e nei modelli economici; essa tende a perdere le caratteristiche
di "sistema" sia nel sociale che nell'economico.
Giuseppe De Rita ripete che quello attuale è un "amalgama"
sociale ed economico difficilmente riconducibile a un trattamento
politico unitario, ossia a un disegno istituzionale. Ripete che la
visione di noi economisti strutturalisti e congiunturalisti, con i
nostri modelli di collegamento "dosato" tra strumenti e
obiettivi, non si adatta alle condizioni di fatto dell'economia e
della società e, quindi, i nostri tentativi sono destinati
all'insuccesso; peggio ancora, a creare delusioni per le attese che
essi suscitano o per i danni che essi provocano.
E' umano reagire con fastidio a questa considerazione nichilista della
professione, anche per chi ha coscienza della necessità di
dare in ogni caso una risposta al perché i nostri modelli di
politica economica non funzionano. Debbo testimoniare che su questa
strada critica ho trovato di grande aiuto le riflessioni sulla società
dei servizi e sulla necessità di un riesame della politica
economica settoriale e territoriale, promosse dalla Confcommercio.
E' prematuro anticipare risultati di un'indagine in corso, ma essa
è giunta a un tale grado di maturazione da consentire almeno
un'applicazione sa, un tema di grande attualità, quello del
bilancio pubblico.
Continuare a trattare il bilancio pubblico e la finanza statale come
un fatto di entrate scarse, di spese eccessive e di tassi d'interesse
elevati, significa eludere l'essenza del problema - e quindi del ruolo
- del bilancio pubblico nella transizione da una economia industriale
a un'economia terziaria o dei servizi. Nell'economia moderna la interazione
tra le componenti produttive della "piramide" del valore
aggiunto individuale e sociale è elevatissima; in questo processo
di interazione lo Stato ha un grande ruolo da svolgere come cemento
della piramide; esso deve "saper fare meglio la produzione e
l'azienda", saper "comprare meglio", saper "diversificare
il proprio post-produttivo", saper "fare altra impresa".
Se lo Stato entrasse anch'esso nell'ottica del post-produttivo, sentirebbe
esigenze diverse da quelle oggi percepite. Il suo compito in materia
economica è quello di aiutare una distribuzione delle risorse
che sia nel complesso più produttiva. Non è detto che
debba necessariamente "tagliare" le spese per l'amministrazione
ospedaliera se riesce a indurre mutamenti nella gestione della sanità,
tali da suscitare crescite della produttività che giustifichino
il costo sopportato dalla collettività. Se si decide di percorrere
questa via, il "taglio" non è tanto uno strumento
per il pareggio di bilancio o la stabilità monetaria, quanto
per indurre aumenti di produttività nel sistema. Se non si
ottiene ciò, tanto vale provare subito se i privati sono essi
capaci di raggiungere l'obiettivo.
Analogo problema per le entrate, lasciando le cose come stanno, l'aumento
delle entrate peggiora la produttività media del sistema economico,
in quanto trasferisce risorse dai settori più produttivi a
quello pubblico, molto meno produttivo.
Il problema della politica fiscale è oggi più che mai
quello di indurre mutamenti di produttività nella gestione
dei servizi dello Stato. Potrebbe essere molto più importante
per la stabilità dell'economia e della finanza un'incisiva
attuazione del principio della mobilità nell'impiego pubblico,
piuttosto che "tagli" nelle spese di competenza e di cassa.
Si pensi al "risanamento" della Fiat o di altre aziende
produttive negli anni Ottanta. Avrebbero ottenuto i tagli dei costi
lo stesso risultato, o avrebbero stremato l'azienda?
Il futuro attende la politica economica, nei suoi aspetti monetari
e fiscali, all'appuntamento del cambio di cultura richiesto dalla
trasformazione della società e dell'economia da industriale
a terziaria. Il quadro delle esigenze è per ora solo abbozzato,
ma le necessità di cambiamento sono percepite con intensità
dagli operatori e dalla pubblica opinione. Occorre attendere fiduciosi
che analoga coscienza si determini nel legislatore, nell'Esecutivo
e nei corpi autonomi dello Stato.
