Se ben ricordo,
di manovre economiche più o meno strategiche, più o
meno sinergetiche, si cominciò a parlare verso la metà
degli anni Sessanta, in un momento in cui il costo del lavoro s'apprestava
a scavalcare la produttività del sistema. E pure in un momento
in cui cominciavano a manifestarsi i primi dubbi sulle virtù
stimolatrici del deficit spending. Poi, di manovra in manovra, s'è
tirato avanti sino ad arrivare a un disavanzo di bilancio del settore
pubblico che sta superando i 140-150 mila miliardi di lire, pari all'11-12%
del Pil.
Ancora non molto tempo fa, chi s'azzardava a sostenere la necessità
d'un "più mercato e meno Stato" era additato al ludibrio
della pubblica opinione. Adesso, anche in ambienti non sospetti, si
comincia a riconoscere che la pubblica amministrazione è una
specie di carro Tespi, sgangherato e sovraccarico, che avanza traballando.
Donde la necessità di alleggerirne il peso, al fine di renderne
più agevole l'andatura.
L'esperienza di questi ultimi vent'anni non consente di farsi molte
illusioni. Il carico è quello che è. E troppi interessi
di natura clientelare s'oppongono allo scarico. Qui non è il
caso di fare molti esempi, sia che si tratti del settore pubblico
ristretto oppure di quello allargato. Poste e ferrovie sono attività
mangiasoldi. Mantengono personale dove non ce n'è bisogno,
con quali vantaggi per la produttività del sistema è
facile immaginare. E lo stesso dicasi per altre attività del
settore ristretto, come quello del settore previdenziale, sanitario,
dell'istruzione, della giustizia e via dicendo.
Se poi si passa al settore allargato, che comprende le imprese a partecipazione
statale, il discorso non cambia di molto. Pur di non alleggerire il
carico, s'attribuisce valore strategico ad alcune attività
industriali come, per esempio, quelle alimentari. Così si pensa
di chiudere la bocca ai critici. Tutto questo, e altro ancora, spiega
le difficoltà per ridurre il disavanzo di bilancio del settore
pubblico. L'ultima trovata è quella di non tener conto, in
questo disavanzo, degli oneri connessi col debito pubblico.
Il ministro del Tesoro ci prova con tagli per ridurre le spese, e
così pure il ministro delle Finanze con la riorganizzazione
del sistema tributario. Incontrano sempre, naturalmente, difficoltà.
C'è chi la vuole cotta e chi cruda. Fuor di metafora, c'è
chi chiede prima una riduzione del peso tributario e poi tagli della
spesa, e chi, invece, prima tagli e poi riduzioni. Sulla contemporaneità
di queste azioni non è qui il caso di dire molto. Piuttosto,
bisogna tirare fuori dal cassetto la relazione della commissione Steve
che indica dove e come tagliare le spese. E nel tempo stesso ricordare
che il peso tributario è ben superiore a quello che risulta
ufficialmente dal rapporto tra entrate tributarie e prodotto interno
lordo. Intanto, sia ben chiaro, al numeratore non si debbono conteggiare
solo i tributi diretti e indiretti che risultano dalla contabilità
statale, ma anche i tributi più o meno occulti. Forse che la
tassa sulla salute non è un tributo? E forse non sono tributi
le tangenti pagate ai politici, le spese che il contribuente deve
sostenere per districarsi nella giungla tributaria e perfino l'equo
canone che grava sulla produttività edilizia?

Altro che imposte patrimoniali sulla casa! Ma poi il denominatore
deve tener conto solo del prodotto netto e non di quello lordo. Da
che mondo è mondo, gli ammortamenti, cioè la parte lorda
del prodotto interno, non costituiscono un reddito, bensì la
misura del logorio tecnico ed economico dei mezzi impiegati per produrre
il reddito. Vale poi la pena di sottolineare che in alcuni casi si
tenta di far passare per tagli di spesa la proposta di far pagare
servizi pubblici ai contribuenti che si trovano in determinate fasce
alte di reddito. Questo vale soprattutto per i servizi sanitari. Come
se questi contribuenti non pagassero già gli stessi servizi
in relazione ad aliquote rapidamente crescenti e tanto più
crescenti in quanto gonfiate dal Fiscal drag. Non si tratta dunque
di tagli di spesa, bensì di duplicazione dell'onere tributario.
La discussione sulla legge finanziaria ha poi riportato in evidenza
il solito problema dell'imposta sui redditi dei lavoratori dipendenti
e su quelli dei lavoratori indipendenti o autonomi che dir si vogliano.
Problema legato all'ipotesi che i lavoratori dipendenti paghino interamente
i tributi, mentre quelli indipendenti li paghino solo in parte. Il
problema, così, è mal posto. Si presenta in modo più
sfaccettato.
Più che di redditi rispettivamente guadagnati da lavoratori
dipendenti e indipendenti, si deve piuttosto parlare di redditi corrispondenti
a lavori e quindi a servizi, rispettivamente forniti a imprese e a
famiglie. Solo nel primo caso, infatti, i redditi non hanno la possibilità
di sfuggire all'attenzione del fisco, in quanto rappresentano un costo
di produzione per le imprese e quindi una componente negativa del
loro reddito. Ma questo vale tanto per i lavoratori dipendenti che
per quelli indipendenti. Sfuggono invece i redditi che derivano da
lavori (e quindi da servizi) forniti alle famiglie, dato che le famiglie
non sono imprese e quindi non sono tenute a contabilizzare costi e
ricavi.
Contabilizzano, se vogliono, solo i ricavi.
Tanto per fare un esempio, se marito e moglie lavorano e debbono pagare
una persona di servizio per curare i figli, non possono detrarne il
salario per determinare la componente netta del reddito familiare.
Se dunque si pone il problema in modo più sfaccettato o, se
si vuole, più realistico, risulta ben chiaro che al fisco sfuggono
in modo trasversale redditi guadagnati sia da lavoratori dipendenti
che indipendenti. Non voglio di certo "demonizzare", come
talvolta si dice, questa o quella categoria di lavoratori dipendenti
e indipendenti in quanto prestano servizi più alle famiglie
che alle imprese.
Non sono evidentemente in grado di stimare la grandezza dei redditi
che dalle famiglie confluiscono verso i lavoratori, sia dipendenti
che indipendenti e neppure la proporzione di questi flussi rispetto
ai redditi dichiarati ai fini tributari da queste due tradizionali
categorie di lavoratori.
Si può ammettere che la proporzione sia minore per i lavoratori
dipendenti che per quelli indipendenti, ma questo non significa Che,
una buona volta, non si debba smettere di ragionare, specie in termini
tributari, in base a categorie rigidamente separate di lavoratori.
Che poi sia facile accertare i redditi dei lavoratori dipendenti,
come del resto quelli dei lavoratori indipendenti, in quanto derivano
da prestazioni di servizi alle famiglie, è un altro discorso.
Comunque, perché non si prova ad allargare l'area tributaria
con l'adozione di aliquote meno espropriatrici di quelle attualmente
in vigore? E' un suggerimento che certamente non è destinato
ad essere accolto. Come sempre, del resto.
