Tra i molti libri
cursori del Seicento, ce n'è uno intitolato Les pensées
de Monsieur Dassoucy dans le Saint-Office de Rome, che vide la luce
nel 1676. Autore era Charles Coipeau, "sieur de Dassoucy",
appunto. In esso, con un linguaggio ora immaginifico ora elegante,
il mondo è paragonato a un grande clavicembalo. la natura,
invece, è ritenuta il frutto di una serie di accordi armoniosi.
E' facile immaginare il posto che spetta all'intelligenza dell'uomo:
quando essa accorda lo strumento, compie ciò che Dio inventa
con l'altro grande clavicembalo, che è l'universo. "Le
proporzioni armoniche - scrive Dassoucy - che si trovano nella costruzione
di questo grande edificio del mondo, e che si ritrovano nella musica,
nella poesia, nella pittura e persino in questo discorso, non riguardano
solo le cose più grandi ma anche le più piccole ( ...
). Nulla può sussistere senza questa armonia che l'uomo, a
imitazione di Dio, è capace di produrre e mostrare".
"Nulla può sussistere": sembra una frase tolta da
un manuale di teologia dogmatica. Invece, i "pensieri" erano
semplicemente un'opera che risentiva l'eco dell'armonia prestabilita,
che Leibniz aveva diffuso ad arte. Erano, in altri termini, l'ultimo
frutto di quella stagione felice che aveva indagato la natura credendo
nella sua armonia, che si era costruita città ideali, che aveva
puntato tutto ciò che possedeva sul genio virtuoso dell'uomo.
Una sorta di contagio, che corre nei secoli dell'Umanesimo, e che
esplode nel Rinascimento, che si protrarrà sino alla fine del
secolo dei Lumi, quando in Francia un Babeuf non abbandona l'idea
di costruire una società di eguali e quando a Napoli un Vincenzo
Russo ha ancora la forza di pensare la società degli agricoltori
filosofi.
Ma da dove nacque questo bisogno di dar vita a città e a stati
ideali? La comune fonte è da tutti indicata nella Repubblica
di Platone. E' certo però che quel progetto subì tutte
le possibili modifiche e che nel Cinquecento italiano esso divenne
qualcosa di fisico. Leon Battista Alberti, il Filarete, Francesco
di Giorgio Martini, Pietro Cataneo, Andrea Palladio, Giorgio Vasari
il giovane, Vincenzo Scamozzi - solo per ricordarne alcuni - disegnarono
e progettarono la città ideale. E Leonardo non era da meno.
In quello che è conosciuto come "Manoscritto B" dell'Istituto
di Francia, leggiamo l'immagine di una città costruita presso
il mare o lungo un fiume, pulita, edificata su due piani comunicanti
tra loro per mezzo di scalinate, con il traffico dei carri e delle
bestie da soma che scorre nella parte inferiore. "Sappi - scrive
Leonardo - che chi volesse andare per tutta la terra per le strade
alte, potrà a suo acconcio usarle, e chi volesse andare per
le basse, ancora il simile. Per le strade alte non devono andare carri,
né altre cose simili, anzi sia solamente per li gentili uomini.
Per le basse devono andare i carri e altre some, a l'uso e comodità
del popolo. L'una casa deve volgere la schiena all'altra lasciando
la strada bassa in mezzo".
Da quel che si è letto si può capire che la questione
non era affare soltanto da filosofi. Addirittura Vasari il giovane
ci ha lasciato i particolari della sua città ideale.

Dopo le piazze, le fontane, le mura e tutto quell'universo armonioso
di mattoni, disegna anche casette per "gli artefici", affinché
gli operai non vengano accumulati in stanzoni vasti e scomodi. Ecco
le parole, tolte dal suo libro La città ideale ... inventata
e disegnato l'anno 1598: "Avviene molte volte per la povertà
che gli artefici abitano in una medesima casa, con molto loro incomodo
per la servitù che hanno da passare per un medesimo luogo;
per questo aviamo cavato in una medesima pianta due casette, talmente
separate e distinte l'una dall'altra, che potranno con molto più
loro agio servirsene che abitando in un medesimo luogo non farebbero".
In altro canto continuano i trattati filosofici, che con una certa
improprietà gli storici hanno catalogato sotto la voce Utopia.
Nel Cinquecento e nel Seicento italiano essi conoscono una notevole
fioritura. Se un Francesco Patrizi da Cherso progetta una città
felice, Ludovico Agostini non ha difficoltà a descriverci la
sua repubblica immaginaria. E Tommaso Campanella la sua città
del sole. In tutti questi progetti c'era buona fede; non vanno pensati
come puri esercizi della fantasia. In quei secoli valeva già
la definizione di utopia di Lamartine: "Le utopie non sono, spesso,
che delle verità premature".
Del resto, se così non fosse, tali pensatori non avrebbero
indicato degli esempi concreti. Paolo Paruta, autore di un progetto
ideale che va sotto il titolo Della perfezione della vita politica,
che vide la luce nel 1579, indica il suo modello nelle istituzioni
della Repubblica di Venezia, (e non va dimenticato che il libro conobbe
due traduzioni, una francese e una inglese: il mito di Venezia fu
prima politico e poi architettonico). Uberto Foglietta, genovese d'origine,
è autore di un trattato dal titolo Della Repubblica di Genova.
E qui l'esempio concreto è da cercare nella critica che questo
pensatore muove alle istituzioni della sua città. Egli ne progetta
una ideale, partendo da correzioni visibili al sistema politico del
suo mondo.
Gli esempi si possono moltiplicare, ma è certo che il termine
"utopia" significa soltanto che tale luogo non esiste, non
si vede, non che tale luogo non si possa progettare. Non a caso uno
degli utopisti italiani del primo Cinquecento, tale Matteo Buonamico
(del quale poco o nulla si sa, se non che fu sacerdote), in un suo
contorto trattato parla dell'isola di Narsica come di un modello da
"mettersi ad effetto" seppur per ora "nella tela del
mio ragionamento".
Se ci fosse ancora bisogno di un esempio, ci si può rivolgere
al teorico della ragion di Stato, Giovanni Botero. Allevato dai gesuiti,
egli era stato un pensatore poco originale, ma capì che per
ideare uno Stato occorreva conoscere i mezzi per conservarlo. Quella
"eccellente virtù" di cui parla e che desidera rifilare
ad ogni principe, si fonda su un progetto semplice e reale: il principe
può procurarsi la reputazione - condizione fondamentale per
l'esercizio del governo - attraverso la religione. Un progetto in
perfetta linea con l'ambiente della Contrariforma, che non trovò
applicazione. C'è da aggiungere che c'era più utopia
in questa speranza, allora in voga, che non nelle isole felici che
i filosofi immaginavano e che i navigatori incominciavano a conoscere.
Tutto ciò che abbiamo scritto, saltando dal l'architettura
alla speculatione filosofica, può essere usato come viatico
per accostarsi all'edizione del 1520 del De institutione Reipublicae,
di Francesco Patrizi senese. Più che il testo, in questo libro
sono importanti le nove tavole che aprono ciascuno del nove libri
dell'opera. Sono tavole che rappresentano una città ideale.
Ma, cosa strana, in queste tavole non vi sono scene d'ozio o angoli
di paradiso: vi è, più semplicemente, una città
a misura d'uomo (con i tratti che ricordano Parigi, dove il volume
vide la luce). Si studia, si gioca, si lavora. I dintorni sono abitati
da animali conosciuti: vi sono un cervo, un orso, un coniglio e una
pecora; non manca un leone. Tutti però si rispettano e non
si sbranano. C'è pace. Non mancano nemmeno i magistrati - ma
non stanno giudicando -, i commercianti, i bibliofili. Sembrerebbe,
più che un mondo ideale, un luogo conosciutissimo, dove però
è assente la tensione del vivere.
E qui il nostro breve viaggio finisce. Potremmo cercare altri trattati
e altri mondi, ma ben poco ci allontaneremmo da quanto Platone scrisse
nel finale del libro IX della sua Repubblica: "Vi è un
modello fissato nei cieli per chiunque voglia vederlo e, avendolo
visto, conformarvisi in se stesso. Ma che esso esista in qualche luogo
o abbia mai a esistere, è cosa priva d'importanza: perché
quello è il solo stato nella politica di cui egli possa mai
considerarsi parte".

Il De institutione Reipublicae del gentiluomo senese, poi vescovo
di Gaeta, Francesco Patrizi, occupa un posto di notevole interesse
fra le opere, così caratteristiche della cultura umanistica
italiana del secondo Quattrocento, riguardanti i principi che devono
regolare in modo perfetto la vita sociale. Non erano preoccupazioni
di poco conto, ed è notevole che impegnassero non solo i cultori
di scienza della politica, ma anche gli artisti: basta accennare alla
città ideale progettata dal Filarete o a quella dipinta da
Piero della Francesca (se è davvero sua la tavola di Urbino),
per non parlare dell'opera di un genio enciclopedico come Leon Battista
Alberti.
Il libro di Patrizi, tuttavia, ha questo di particolare: ci consente
di individuare agevolmente i presupposti teorici da cui tutti i progetti
di quell'epoca, consapevolmente o no, hanno preso le mosse. L'autore
stesso, infatti, si preoccupò di dichiarare in modo esplicito
che si accingeva alla difficile impresa di mettere per iscritto gli
insegnamenti capaci di portare una città alla vita più
armonica e felice, assegnando a ciascun individuo e a ciascuna categoria
i compiti loro propri, per risarcire l'umanità della perdita,
allora considerata definitiva, del De Republica di Cicerone.
Si può essere tentati di ironizzare di fronte all'ardire di
un uomo del Quattrocento che si proponeva di sostituirsi all'oratore
romano, ma sarebbe una tentazione futile: ciò che veramente
interessa è che il Patrizi intanto poteva presumere di rimediare
alla perdita dello scritto ciceroniano componendone lui stesso un
altro sul medesimo argomento, in quanto era convinto che, stante l'immutabilità
della natura umana, i precetti validi nell'età classica fossero
applicabili pienamente anche nei tempi moderni e in quelli futuri.
Era la stessa idea, tipicamente umanistica, che faceva germogliare
in ogni città d'Italia che fosse anche centro di studi una
moltitudine di trattati pedagogici ispirati ai modelli antichi, e
a volte su di essi fedelmente ricalcati: e in effetti, a scorrere
il De institutione Reipublicae, ci si imbatte continuamente in esempi
derivati dai classici, mentre un paio di volte soltanto si incontrano
riferimenti contemporanei, limitati peraltro ai casi di Venezia e
di Siena.

Una simile impostazione
aveva in Italia gli anni contati. Il Patrizi era morto da poco, quando
Carlo Vili, umiliando le potenze della penisola, mostrò a tutti
quanto affidamento si potesse fare su siffatte idealizzazioni; non
a caso Francesco Guicciardini, l'italiano forse più dolorosamente
lucido del primo Cinquecento, annotava nei suoi Ricordi, alludendo
non solo al Machiavelli, ma anche ad altri trattatisti, come il Patrizi:
"Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e Romani!
Bisognerebbe avere una città condizionata come era loro, e
poi governarsi secondo quello esempio: el quale a chi ha le qualità
disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere
che un asino facessi el corso di uno cavallo".
Infatti, il De institutione Reipublicae nel Cinquecento ebbe in Italia
diffusione scarsa e tarda. Fu invece notevole la sua fortuna oltre
frontiera, specie in Francia, dove tutt'altra era la situazione politica
e culturale. Le tre edizioni parigine del 1518, del 1519 e del 1520
documentano un interesse non episodico, ma radicato nell'esigenza,
avvertita ai più alti livelli dell'organizzazione statale e
intellettuale, di dare nobiltà e dignità a un'impresa,
come quella dell'unificazione sotto lo scettro di un solo sovrano,
che era tutto sommato recente.
In modo forse un po' paradossale, anche il De institutione Reipublicae
poteva essere, nella Parigi di quel giro di anni, un utile strumento
di indiretta propaganda politica. Se è vero che il Patrizi,
scrivendo il trattato, aveva avuto presente la repubblicana Siena,
è altrettanto vero che la repubblica da lui vagheggiata era
essenzialmente aristocratica, e dunque il modello poteva essere adattato,
con qualche variante, alla realtà francese; soprattutto se
si considera che egli riteneva necessario che al vertice dello Stato,
sull'esempio dei consoli di Roma antica, ci fosse una diarchia: un
istituto che era agevole trasformare mentalmente in monarchia. il
passaggio, lo sappiamo con certezza, fu compiuto. Ce lo dicono le
xilografie che mirabilmente adornano l'edizione del 1520 e che fungono
da splendida introduzione a ciascuno dei nove libri di cui l'opera
si compone.
La prima, infatti, che ritorna identica in apertura dell'ultimo libro,
raffigura il sovrano in trono e dunque propone, contro la teoria politica
sostenuta nel testo, l'ideale monarchico. Se mai qualcuno nutrisse
dei dubbi sull'intento sottilmente propagandistico dell'illustratore,
basterà fargli osservare i gigli della Casa reale di Francia
che caratterizzano questa, e un'altra figura della serie, e si potrà
aggiungere che sempre, quando vengono ritratti palazzi e case, le
linee architettoniche ci riconducono a Parigi. E' tuttavia innegabile
che l'anonimo artista si è concentrato su altri aspetti del
trattato, volgendosi soprattutto a descrivere con quadretti di straordinaria
forza espressiva gli effetti positivi del buon governo illustrato
nel testo.
Siamo di fronte, lo si è già detto, a un esempio di
sagace uso della stampa e delle seduzioni dell'immagine a fini altamente
politici: occorre però subito aggiungere che l'operazione fu
condotta in modo esemplare, perché a un'opera come quella del
Patrizi, certo molto dignitosa nel suo genere, si accompagnano xilografie
che nulla hanno da perdere nel confronto con la pagina scritta.
Sarebbe stato facile, illustrando il De institutione Reipublicae,
cedere a la tentazione di riempire le tavole con allegorie del buon
governo, e invece i simboli sono quasi assenti, ridotti press'a poco
all'immancabile bilancia rappresentante la giustizia.
L'artista ha scelto una strada diversa, meno ovvia e per ciò
stesso più generosa di risultati: non ha allegorizzato i benefici
effetti di un ordinato assetto statale, ma ha preferito rappresentarli
dal vivo, descrivendo scene di studio e di caccia, di dissensi civilmente
composti e di preparativi militari, e affidando la parte del protagonisti
a personaggi concreti della vita quotidiana, tanto della città
quanto della campagna. Come spesso avviene nei libri illustrati tra
la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, gli
intendimenti del testo letterario hanno trovato corrispondenza nell'opera,
pur così lontana cronologicamente e culturalmente, dell'artista
e del suo committente. Anzi, nel nostro caso l'illustrazione, per
la capacità estrema di sintetizzare in un'immagine i concetti
della prosa, non solo è un utile sussidio alla lettura, ma
tende perfino a rendersene autonoma e a diventare, come ciclo a sé
concluso, la raffigurazione degli ideali politici di Francesco Patrizi,
gentiluomo della repubblicana Siena, vissuto nella Parigi monarchica
di Francesco I. Una simile impresa sarebbe stata possibile ancora
per poco. Di lì a cinque anni, la sconfitta di Pavia doveva
dimostrare vana anche per la Francia l'illusione di possedere la ricetta
infallibile per costruire sull'armonica convivenza del sudditi l'invincibile
potenza dello Stato.
