Poco più
di cento anni fa, nel giugno 1883, nasceva a Cambridge John Maynard
Keynes, il cui pensiero ha segnato un'epoca. Ma oltre che teorico
dell'economia, Keynes fu anche un intellettuale impegnato in prima
linea nelle grandi battaglie del suo tempo. Tra il 1906 e il 1946
svolse un'intensa attività pubblica tra l'india Office, Versailles,
Bretton Woods e il piano Beveridge. I suoi scritti spaziano dall'economia
alla statistica, dalla politica alla filosofia, dalle opere sociali
a quelle letterarie, fino a un'inedita storia delle monete antiche.
Un'eredità, dunque - come è stato osservato - che non
può essere ridotta né alla Teoria Generale del 1936,
né più ampiamente al suo contributo eccezionalmente
creativo alla comprensione del funzionamento delle economie capitalistiche
progredite nel periodo fra le due guerre. Eppure, furono proprio queste
due intuizioni "rivoluzionarie" ad attribuirgli la fama
di "economista che ha sconfitto la Grande Crisi"; la teoria
di Keynes ebbe infatti un influsso determinante sul New Deal rooseveltiano
degli anni Trenta, e nel secondo dopoguerra ha continuato ad ispirare,
nel bene e nel male, la politica economica di molti governi occidentali.
Oggi, questa stessa teoria, o meglio l'abuso che ne hanno fatto alcuni
suoi "seguaci", si ritorce contro di lui. Al pensiero keynesiano
vengono infatti addebitati molti dei problemi che affliggono le economie
industriali, dall'alto tasso d'inflazione all'esplosione della spesa
pubblica. A torto. Come racconta il Premio Nobel per l'economia F.A.
Von Hayek, del quale riportiamo le testimonianze, e che di Keynes
è sempre stato l'irriducibile ma leale antagonista, "egli
era sempre stato profondamente conscio dei pericoli dell'inflazione
e aveva confidato troppo sulla sua abilitò per evitare un tale
risultato nell'applicazione delle sue teorie. Ho ragione di ritenere
che davvero una volta disse, (come mi è stato riferito), che
esattamente come Marx non era mai stato marxista, egli non era stato
mai keynesiano".
Sarebbe illogico, oltre che antistorico, attribuire all'illustre economista
di Cambridge delle responsabilità che egli non può avere.
Indubbiamente, con il trascorrere del tempo, come ebbe a osservare
Federico Caffè, si è reso necessario porre su più
solide basi logiche alcune intuizioni del pensiero keynesiano; come
pure è stato necessario eliminare alcune iniziali ipotesi semplificatrici.
"Ma sarebbe stato anche necessario tener sempre presente un importante
insegnamento di metodo di Keynes", ha sottolineato Caffè,
"quando egli avvertiva che 'la scienza economica è un
modo di pensare secondo modelli, congiunto con l'arte di scegliere
quei modelli che sono rilevanti per il mondo contemporaneo'".
Se qualcuno non ha saputo scegliere, o ha preferito restare ancorato
a comode teorie espansionistiche, oggi non può darne la colpa
all'economista di Cambridge.
Certamente non si esagera, affermando che l'eredità intellettuale
di Keynes è immensa. Se appena si tien conto di tutti i principali
aspetti della sua straordinaria personalità, (economista il
cui pensiero ha segnato un'epoca, filosofo sociale e politico, consigliere,
abilissimo finanziere per le fortune proprie o del King's College
di Cambridge, o del suoi amici artisti della cerchia di Bloomsbury,
scrittore di altissimo stile, collezionista e promotore delle arti),
si può parlare di lui, senza dubbio, come di un genio universale.
Dei resto, i Collected Writings di John Maynard Keynes, pubblicati
da MacMillan per la Royal Economic Society, costituiscono ben trenta
grossi volumi. Spaziano dal trattato sulla teoria delle probabilità
ai documenti di un'incredibiImente intensa attività pubblica
dal 1906 al 1946, con scritti politici, sociali, letterari. Immensa
l'eredità, altrettanto immenso il contributo creativo. Le implicazioni
politiche, ma non soltanto di politica economica, fiscale e monetaria
dell'analisi di Keynes pongono tuttavia interrogativi di gran peso
per i problemi attuali.
In generale, è difficile sfuggire al dubbio se ciò che
convenzionalmente si denomina "teoria keynesiana" - la "rivoluzione"
teorica divenuta a sua volta ortodossia, contestata dagli avversari
e al tempo stesso variamente rimodellata ed interpretata dai seguaci
- contenga elementi bisognosi di perfezionamenti e adattamenti ad
una realtà storica mutata, oppure imponga di ricominciare da
capo. Non si può trascurare il fatto che il nucleo della concezione
teorica di Keynes, la semplificata visione macroeconomica riassunta
nel principio di breve periodo della domanda effettiva globale, si
è formato storicamente intorno al problema della stabilità
del sistema capitalistico. Concretamente, nel caso di sistemi capitalistici
progrediti e maturi, come quello dei paesi di più antica industrializzazione.
Inoltre, bisogna tener conto di entrambi i lati dai quali Keynes vedeva
minacciata tale stabilità, piuttosto che le condizioni di crescita
o le prospettive di sviluppo di un'economia caratterizzata da arretratezza
strutturale nel l'accumulazione del capitale e da disoccupazione dei
lavoro non direttamente dipendente dal livello della domanda aggregata.
Da una parte, c'è l'ipotesi che, all'aumentare del tenore di
vita e con una persistente disuguaglianza nella distribuzione del
reddito, il tasso di risparmio non cessi di crescere, senza che si
presentino corrispondenti opportunità d'investimento. E' questa
la base delle teorie del ristagno degli anni Trenta che, partendo
da un'insufficienza di domanda, sfociano (anche attraverso il moltiplicatore
"inventato" dall'attuale Lord Kahn e i decisivi risultati
raggiunti dagli economisti scandinavi) nelle tecniche più raffinate
- ma ormai del tutto inadeguate - di politiche fiscali e monetarie
"ben dosate" in funzione della congiuntura. Oggi, però,
una pluralità di teorie del consumo porta a diversi risultati
e la stessa funzione del risparmio con inflazione può essere
rovesciata come un guanto, non solo rispetto alle premesse neo-classiche,
ma anche in rapporto alla spiegazione keynesiana del tasso d'interesse
basato sulla liquidità, sviluppata in una teoria generale dei
portafogli di attività finanziarie.
L'altra minaccia alla stabilità era invece vista da Keynes
(in maniera oggi più che mai feconda) nel ruolo-chiave delle
anticipazioni degli imprenditori, determinanti per gli investimenti.
Ma anche qui sono le aspettative di tutti gli operatori che hanno
preso un posto centrale. Keynes, del resto, come ha testimoniato,
fra gli altri, l'attuale Lord Kaldor, fu soprattutto un economista
estremamente concreto, che partiva dai fatti ed elaborava analisi
capaci di includere le dimensioni sociali e politiche del problemi
del suo tempo,' rispetto ai quali si staglia una poderosa, instancabile
attività di consigliere economico e politico.
Passato dal libero-scambismo manchesteriano del '22 al preoccupato
protezionismo dei primi anni Trenta, sappiamo che Lord Keynes temeva
fortemente i pericoli di un'inflazione incontrollata. Non aveva registrato
i catastrofici conflitti redistributivi che minavano mortalmente la
Repubblica di Weimar. Non possiamo immaginare che consigli ci darebbe,
oggi, in Italia.
Nel '32, in un discorso radiofonico sulla pianificazione statale,
pur stigmatizzando la "smisurata arroganza nazionale" degli
inglesi, parlava dei treni italiani che arrivavano in orario. Ma soprattutto
sottolineava "tre esperimenti portati avanti simultaneamente,
in apparenza molto diversi, ma, in effetti, diretti alla soluzione
dello steso problema fondamentale: il piano quinquennale in Russia,
lo Stato corporativo in Italia, e la pianificazione statale, condotta
da enti pubblici e sottoposta al controllo della democrazia, in Gran
Bretagna". Vorremmo auspicare che questa volta, in Italia, la
democrazia sappia e voglia mettere sotto controllo l'inflazione, salvando
se stessa e le nostre esigenze di sviluppo. Anche se, per questo scopo
vitale, più che a certe proposte postkeynesiane, nell'eredità
viva e migliore di Keynes, ci affideremmo a qualche amara riflessione
ispirata all'ottimismo della volontà. Per esempio, sulle indicazioni
che, nel lontano 1957, un economista keynesiano come Gardner Ackley
traeva da una realistica analisi della situazione italiana, per l'assorbimento
di risorse disoccupate. Un capitolo d'attualità. Di esso, se
non sbagliamo, c'è un'eco importante a Firenze sul tema "Keynes
in Italia": vi si trattò di Keynes, appunto, e della piena
occupazione, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno.
L'accertamento della produttività di un investimento, dal quale
ha inizio il processo moltiplicativo, si ha, in Keynes, nel raffronto
dell'efficienza marginale attesa dal capitale con il tasso d'interesse.
Ma se l'investimento è pubblico, manca il presupposto della
produttività, e si cade nel pericolo, anzi nell'inevitabile
conseguenza di effettuare spese improduttive, a danno di alternative
spese produttive che vengono spiazzate. E' quanto osservò Giannino
Parravicini al convegno fiorentino. Tuttavia, precisò Parravicini,
"questo è un appunto che in realtà Keynes non merita,
giacché nella suo Teoria Generale è espressamente precisato
che l'efficienza marginale (sociale) degli investimenti pubblici deve
superare quella degli investimenti privati alternativi, o ne deve
prendere il posto quando questi vengono meno".
Parravicini ricordò anche la situazione di parziale distacco
culturale nella quale si trovava l'Italia quando apparve la Teoria
Generale di Keynes. Avvenne di conseguenza che, in un certo senso,
Keynes giungesse da noi dopo la guerra, insieme con il keynesianesimo
e il neokeynesianesimo. Da qui sono nati molti degli equivoci che
poi hanno portato al diffondersi di una approssimata politica fiscale,
impropriamente denominata "keynesiana".
Prima di scomparire misteriosamente, Federico Caffè aveva scritto
che per poter valutare adeguatamente i rapporti tra l'eredità
intellettuale keynesiana e gli odierni problemi mondiali, è
necessario preliminarmente eliminare alcuni preconcetti e dissipare
alcuni equivoci. Il fatto che in larga parte sia preconcetti sia equivoci
siano "banali" non è una ragione per sottovalutarli.
Gli odierni mezzi di comunicazione di massa ne amplificano l'impatto
e creano opinione. Ben a ragione, pertanto, un apprezzato economista
inglese, Sir Alec Cairncross, inizia in un suo lucido saggio su Keynes
e l'economia programmata con una specie di catechismo dei motivi in
forza dei quali, come ha affermato Richard Kahn, "il keynesianesimo
rischia di diventare una parola sconveniente". Ecco i termini
di questo catechismo: "Non fu di Keynes la responsabilità
di aver reso rispettabile l'inflazione? Chi, se non Keynes, è
da biasimare per la fiducia 'erronea' posta nei disavanzi di bilancio;
nel raffinato dosaggio della politica fiscale; in un metodo semplicistico
di controllo della domanda globale? Chi ha distolto la nostra attenzione
dalla quantità di moneta? Chi ha ucciso il Gold standard? Chi
ha distrutto la fede negli sperimentati strumenti di regolamentazione
automatica, lasciandoci in balia delle valutazioni sbagliate e della
pavidità dei politici? Soprattutto, chi ha aperto la strada
alla crescita costante dell'intervento pubblico e, in conseguenza,
a una invasione crescente nei diritti e nella libertà individuali?".
Il saggio di Cairncross prosegue con una puntigliosa confutazione
di questi infondati addebiti al pensiero keynesiano e in una documentata
illustrazione di quanto scarsa sia stata la sua influenza concreta
durante la sua vita (tranne negli ultimi anni in cui egli si dedicò
completamente alla costruzione di una organica rete di istituzioni
per la cooperazione economica internazionale); e di quanto superficiale
sia stata l'applicazione dei suoi suggerimenti dopo la suo morte.
In aggiunta, Cairncross tiene a precisare alcuni suoi convincimenti
che hanno notevole rilevanza nel considerare il peso dell'eredità
intellettuale keynesiana. In primo luogo, egli non è d'avviso
che, come pensava Keynes, i politici siano "gli schiavi di qualche
economista defunto". In altri termini, egli ritiene che non sia
stato "uno specifico sistema di idee" a influenzare gli
sviluppi della politica economica post-bellica, ma le situazioni di
fatto che si sono via via affermate per la pressione degli eventi.
In conseguenza di ciò, Cairncross non ritiene che sia possibile
far risalire a Keynes la maggiore estensione del ruolo che lo Stato
svolge nella vita economica. L'origine di questo processo, per Cairncross,
"è da ricercare in forze più poderose della visione
persino dei più eminente dei pensatori sociali: nelle conseguenze
delle due guerre mondiali, che mobilitarono l'intera popolazione sotto
lo stendardo dello stato-nazione".
Sostiene Caffè: "Pur convenendo nella giustificata reazione
di Cairncross contro le banali attribuzioni a Keynes di responsabilità
inesistenti, riesce difficile accettarne lo scetticismo nei confronti
dell'essenza ultimo della filosofia sociale keynesiana, secondo la
quale "presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti,
che sono pericolose sia in bene che in male" (Teoria Generale,
pag. 340). Forse in nessuna epoca, come la presente, vi è bisogno
della sollecitazione ad agire, che fa parte di questa filosofia sociale,
e che Keynes sottolineava con particolare fervore agli inizi degli
anni Trenta: "Non vi è alcuna ragione perché non
ci dobbiamo sentire liberi di essere audaci, di essere disponibili,
di sperimentare, di agire, di ricercare le possibilità delle
cose". Indubbiamente, con il trascorrere del tempo, si è
reso necessario porre su più solide basi logiche alcune intuizioni
del pensiero keynesiano". Ma, precisa Caffè, sarebbe stato
anche necessario tener presente sempre un importante insegnamento
di Keynes, il quale avvertiva che la scienza economica è un
modo di pensare secondo modelli, "congiunto con l'arte di scegliere
quei modelli che sono rilevanti per il mondo contemporaneo".
Ora, l'eredità intellettuale keynesiana, più che dar
luogo a una ortodossia ripetitiva, che avrebbe potuto essere uno dei
plausibili esiti di un insegnamento ricevuto, si è trasformata
in una pluralità di filoni, ciascuno dei quali - con l'insistere
sulle proprie caratteristiche differenziali - ha finito spesso per
perdere di vista l'aderenza al mondo reale dei modelli proposti. Dice
Caffè: "Come ho avuto modo di rilevare, spesso la puntigliosità
iterativa dei problemi semi-esoterici è prevalsa più
del dovuto sullo studio paziente delle profonde trasformazioni che
si andavano manifestando nella realtà storica. Sfugge a tale
inclinazione J.K. Galbraith, secondo il cui pensiero sempre stimolante
l'essenza dell'economia post-keynesiano va individuato nello scadimento
della capacità regolatrice del mercato".
Il mercato, come scrive Galbraith, con l'affermarsi della società
industriale matura e con le connesse istituzioni politiche, perde
sempre più la sua forza come meccanismo regolatore. Con mezzi
diversi, gli operatori economici si sforzano di sottrarsi all'autorità
regolatrice del mercato, soprattutto nell'intento di ridurre l'influenza
sui rispettivi redditi. Da un lato, le grandi organizzazioni societarie
hanno esteso la foro capacità di influire sui prezzi in misura
che investe almeno la metà di tutto quanto viene prodotto nelle
moderne società industriali. Dall'altro, alle grandi organizzazioni
societarie si associano le unioni sindacali che, anch'esse, mirano
a sottrarsi all'azione regolatrice impersonale del mercato, nella
difesa dei redditi reali dei propri aderenti. Quando poi non è
lo Stato stesso a determinarla con i mezzi di sostegno dei prodotti
agricoli, con i minimi salariali e con tutta una serie di regolamentazioni
dei prezzi industriali.

Con il controllo keynesiano della domanda globale, si assumeva che
il mercato svolgesse la sua funzione ad un più elevato livello
di produzione e di occupazione, ma non si interferiva sul funzionamento
del mercato stesso. L'efficacia delle politiche monetarie e fiscali,
anzi, era strettamente legata all'efficacia funzionale del mercato.
Ma "quando il mercato perde la sua autorità, una restrizione
della domanda globale non è in grado di arrestare il movimento
al rialzo del prezzi e del redditi, che riflette il successo ottenuto
in questo sforzo di sottrarsi al mercato. Le misure restrittive riducono,
tuttavia, la produzione e l'occupazione (oltre a ridurre i prezzi
in quel che rimane dell'economia di mercato). L'incapacità
della politica economica di tipo keynesiano ad arrestare l'incremento
dei prezzi e dei redditi industriali e le sue ripercussioni sulla
produzione e sull'occupazione conduce alla coesistenza di inflazione
e disoccupazione che è la caratteristica più evidente
e spiacevole della moderna scena industriale".
Pungente, come sempre, nella diagnosi, Galbraith sembra diventare
più sfuggente quando si giunge a I l'interrogativo del "che
fare" di fronte a una situazione del genere. Egli giustamente
critica coloro che rifiutano pregiudizialmente di rendersi conto di
queste trasformazioni sulle capacità operative del mercato,
come se le sue configurazioni ideali trovassero riscontro nella pratica.
Appare anche scarsamente convinto del carattere realistico dei tentativi
di coloro che vorrebbero ridare al mercato l'efficacia funzionale
perduta, suggerendo misure di abolizione di regolamentazioni, di sostegno
dei prezzi o di minimi salari, e così via. Poiché "né
il mancato riconoscimento di quello che èovvio, né l'appello
a ciò che appare futile costituiscono espedienti validi, rimane
una terza scelta che (secondo Galbraith) è fondamentale per
l'economia post-keynesiana". Si tratta di "accettare il
declino del mercato. Allora occorrerà considerare in qual modo
i risultati economici che ne conseguono possono essere resi socialmente
accettabili dal maggior numero possibile di persone".
Si sottolinea, in sostanza, la necessità del consenso per una
efficace azione di politica economica. Ma anche se in termini di indicazioni
concrete Galbraith non ci fornisce un breviario di "ricette"
prontamente adattabili, la sua presa di posizione nei confronti della
funzionalità odierna del mercato sembra assumere particolare
interesse, di fronte alle frequentissime evocazioni del "mercato"
che presuppongono di esso una concezione ormai obsoleta.
L'indicazione più autorevole e conclusiva circa il significato
dell'eredità intellettuale keynesiana, nelle condizioni odierne,
è fornita da un saggio di Joan Robinson e Francis Cripps che
reca il titolo: Keynes oggi, (in "Journal of Post-keynesian Economics",
1979). Gli autori cominciano con il dare atto che, fino a questo momento,
"non è stato trovata una risposta completa ed operativa
sul problema dell'inflazione in un sistema democratico. E' chiaro
che l'inflazione è il sintomo dell'incapacità dell'apparato
economico a fornire il reddito che i lavoratori, gli uomini d'affari
e le autorità di governo richiedono e di un conflitto sulla
distribuzione del reddito sia tra tali gruppi, che al loro interno.
In linea di principio, parte della risposta deve essere trovata nell'elevare
il livello dell'occupazione e parte nella ricerca di un ampio accordo
circa i livelli cui dovrebbero mirare i vari gruppi sociali. Le politiche
monetariste di carattere restrittivo non sono di alcun aiuto. Al contrario,
per combattere l'inflazione è necessaria una politica espansiva".
l'importanza di una simile presa di posizione non va sottovalutata,
come essa non va confusa con una generica politica di allargamento
della spesa pubblica.
E' necessario introdurre nel sistema di pensiero keynesiano nuovi
in gredienti, tra i quali, secondo i due autori, assume particolare
rilevanza il riconoscimento della prevalenza odierna dei mercati imperfetti
o oligopolistici e della importanza della innovazione e della riorganizzazione
della produzione come forma strategica della competizione che si realizza
su detti mercati.
E' altresì necessario tener conto dei fattori di squilibrio
che emergono dalla situazione economica internazionale. l'analisi
delle tendenze in atto pone in evidenza che gli squilibri negli scambi
di prodotti manufatti, tra i maggiori paesi produttori, rischiano
di diventare più sconvolgenti di quanto lo sia stato l'aumento
dei prezzi dei prodotti petroliferi, a partire dalla metà degli
anni Settanta. "Questo implica che nuove forme di regolamentazione
degli scambi saranno necessarie negli anni Ottanta e che metodi di
protezionismo attentamente studiati potrebbero costituire un elemento
necessario di ogni tentativo di lotta contro la recessione".
Dice Caffè: "E' superfluo sottolineare quali ondate di
proteste sollevi ogni accenno al protezionismo e quale coralità
contraddistingua l'appello della 'saggezza convenzionale' perché
sia evitato ogni processo involutivo degli scambi che riporti alle
esperienze dannose degli anni Trenta. In realtà, quelle tristi
esperienze non vanno ripetute; ma una economia mondiale nella quale
si assiste, da un lato, alla distruzione di derrate essenziali, dall'altro
a carenze di beni primari, di fonti energetiche, di lavoratori qualificati,
non può considerarsi idonea a risolvere, in virtù di
forze spontanee, le sue complesse contraddizioni".
Sostiene F.A. Von Hayek: "Le menti superiori con grande potere
di convincimento possono essere una benedizione, ma anche una sventura
per i loro contemporanei. Nessun'altra idea teoretica ha probabilmente
esercitato un'influenza così grande in questo secolo sulla
politica pubblica, quanto le teorie di Lord Keynes sull'occupazione.
E persino a quelli di noi che le rifiutarono fin dall'inizio, ritenendole
errate, non è difficile intuire perché abbiano percorso
tutto il mondo. Chi lo conosceva non poteva non essere affascinato
dalla sua personalità, impressionato dalla straordinaria acutezza
e vivacità della sua mente e sbalordito dalla vastità
del suo sapere. Ma bisogna subito aggiungere che questo comprendeva
a mala pena una padronanza della sostanza della teoria economica o
anche della storia economica dell'ultimo secolo". Riferisce Von
Hayek che, durante la seconda parte dei suoi anni di studente, Keynes
aveva facilmente approfondito quella che allora, nella sua Università,
era ritenuta la versione più avanzata di questa scienza, e
con qualche titubanza aveva percepito che non era totalmente soddisfacente.
E il suo intuito gli diceva che c'era molta verità in ciò
che una lunga lista di "radicali" e maniaci aveva dimostrato,
ma che la tradizione accademica dominante non avrebbe preso in considerazione:
in quella teoria che spiegava le depressioni e la disoccupazione con
l'insufficienza della domanda. La stessa intuizione di John Stuart
Mill, che "la domanda di lavoro non è domanda di prodotti",
che Leslie Stephen poteva ancora nel 1876 descrivere come la dottrina
la cui "completa comprensione è forse il miglior test
per un economista".
Keynes era stato portato a enfatizzare la dipendenza dell'occupazione
dalla domanda finale, dalla sua sensibile opposizione al ritorno dell'oro
alla vecchia parità dopo la prima guerra mondiale. Fu un evento
fatale nella storia britannica, quando disperando della possibilità
di vincere la rigidità dei salari, egli si oppose non solo
al ritorno dell'oro alla vecchia parità, ma ad ogni ritorno
a un sistema automatico, e arrivò a difendere una politica
discrezionale di adattamento della domanda finale a un livello di
salari determinato politicamente. Fu questa la preoccupazione iniziale
da cui nacquero fondamentalmente le due versioni della teoria dell'occupazione
nel Trattato del 1930 e nella Teoria Generale del 1936. Ciò
lo portò alla convinzione di una dipendenza determinante, se
non esclusiva, del volume dell'occupazione da quello della domanda
finale aggregata.
Afferma Von Hayek: "lo che fui fin da allora uno dei pochissimi
economisti della generazione più giovane che resistettero a
queste seducenti argomentazioni, devo dire alcune parole sulle condizioni
particolari che mi portarono subito ad oppormi. lo avevo passato moltissimo
tempo negli anni precedenti a confutare un tentativo americano di
riproporre la teoria dei sottoconsumo e avevo a questo scopo tentato
ulteriormente di sviluppare la teoria del capitale derivante da Jevons
e Boehm-Bawerk e la sua applicazione monetaria da parte di Knut Wicksell
e Ludwig Von Mises. Ciò aveva reso indispensabile analizzare
in modo più dettagliato la determinazione e le varianti di
quel flusso di prodotti intermedi che sta tra il prodotto finale e
l'impiego di forzalavoro che lo determina. Questo mi portò
a sviluppare un aspetto della teoria del capitale che non solo Keynes,
ma anche la tradizione neoclassica contro cui egli si rivoltava, aveva
trascurato. Persino l'influenza degli stessi riformatori che avevano
sottolineato che tutta la domanda di lavoro fosse 'domanda derivata',
fin troppo facilmente suggeriva che ci deve essere una certo semplice
relazione quantitativa tra la grandezza dell'una e quella dell'altra.
Questo comunque si rivela falso. La conclusione sarebbe corretta,
se fosse vero che la domanda di beni di consumo durante un periodo
dato dipende dall'ammontare del lavoro impiegato durante un periodo
di uguale durata. Ma di fatto questo potrebbe essere vero solo in
condizioni totalmente stazionarie, non in una economia dinamica".
La trasmissione della domanda finale di lavoro diventa così
essenzialmente un problema di teoria del capitale, la cui rilevanza,
ai fini del problemi che si poneva, Keynes non avrebbe mai riconosciuto.
Che la prosperità dipendo completamente dall'entità
della domanda finale era per lui "l'insindacabile ed evidente
fondamento di tutto il suo pensiero teoretico, e se qualcuno avesse
tentato di metterlo in dubbio, egli non gli avrebbe neppure dato retta".
Nella teoria economica, l'importanza data da Keynes al rapporto tra
le grandezze globali come la domanda totale e l'occupazione totale,
diventavano naturalmente la fonte di quella "macroeconomia"
che trascura completamente tutta l'importanza del prezzi relativi
che governano i rapporti tra occupazione corrente e produzione corrente.
Tuttavia, questo comporta "il tralasciare i più importanti
processi che di fatto determinano l'occupazione corrente. Sotto questo
aspetto egli è stato l'ideatore di una disciplina completamente
nuova all'interno della teoria economica, che per un certo tempo dominò
l'opinione scientifica causando grave danno".
Sostiene Von Hayek: "La percezione che quel processo decisivo
per cui il flusso di produzione è a tratti allungato e a tratti
accorciato, era completamente perso di vista. Questa fu la grande
calamità a cui si devono trent'anni di inflazione mondiale
e il suo inevitabile effetto, un prolungato errato orientamento delle
risorse, che poteva essere mantenuto solo da una costante accelerazione
dell'inflazione. Dal momento che posso affermare e provare che io
vidi queste deficienze dell'economia keynesiana fin dall'inizio, è
forse opportuno che io spieghi brevemente perché, dopo la mia
prima controversia con lui sul "Trattato", io non ritornai
immediatamente alla carica all'apparire della "Teoria Generale",
caso di cui mi sono pentito successivamente. Non fu semplicemente
perché mi ero scoraggiato, quando dopo aver dedicato più
di un anno all'analisi del Trattato, e dopo la sua violenta reazione
alla prima parte della mia critica, la sua risposta alla seconda parte
fu semplicemente "ok, io non credo più a tutto ciò!",
ma anche perché a poco a poco mi ero reso conto che un esame
adeguato del nuovo lavoro avrebbe richiesto una critica molto generale
della nuova scienza della macroeconomia, che si era affermato. Fin
da allora io ero convinto che tutta la teoria del capitale su cui
dovrebbe essere basata un'analisi delle fluttuazioni industriali non
era ancora sufficientemente compresa per sopportare l'applicazione
del fenomeni monetari. Così decisi di imbarcarmi dapprima in
una ricostruzione della teoria del capitale come "pura teoria"
dei fenomeni "reali", poi in un'analisi della connessione
con le fluttuazioni monetarie. Questo lavoro mi richiese molto più
tempo di quanto avessi pensato e quando ebbi completato la prima parte,
inaspettatamente lungo, la guerra era scoppiata. Non solo allora sembrava
incerto se un altro lavoro sistematico in questo campo potesse essere
pubblicato in un prevedibile futuro, ma presto mi trovai a sostenere
Keynes nella lotta all'inflazione e non volevo in alcun modo indebolire
la sua autorità".
Questo episodio, aggiunge Von Hayek, era degno di essere raccontato
perché "mi riporta a un punto importante. Sebbene io guardi
alle teorie di Keynes come alle responsabili dell'inflazione del dopo-guerra,
sono ora convinto e ho serie ragioni di credere che questo sia uno
sviluppo che egli non voleva e che si sarebbe impegnato a fondo per
prevenire. Egli era sempre stato profondamente conscio del pericoli
dell'inflazione e aveva confidato troppo sulla sua abilità
per evitare un tale risultato nell'applicazione delle sue teorie".
Dicendo di non essere mai stato keynesiano, sostiene Von Hayek, "egli
evidentemente disapprovava alcuni degli sviluppi della suo teoria
da parte dei suoi allievi".
D'altro canto, ci sono affermazioni autorevoli che in qualche modo
danno ragione al Premio Nobel. Ad esempio, Lady Joan Robinson affermò
che "ci furono momenti in cui trovavamo difficile mostrare a
Maynard qual era il cardine della sua rivoluzione, ma quando riuscimmo
a sintetizzarlo dopo l'uscito del libro, allora lo mise a fuoco".
Fu quel gruppo di dottrinari, specialmente quando a loro si unì
il gruppo degli economisti responsabili del "Rapporto Beveridge"
(Lord Kaldor), che per i trent'anni successivi portò avanti
la politica inflazionistica della "piena occupazione", non
solo in Gran Bretagna, ma in tutto il mondo occidentale. Afferma Von
Hayek: "Non sono certo che Keynes potesse davvero evitare che
i suoi suggerimenti portassero ad accelerare l'inflazione, ma certamente
lo pensava e alla fine della vita era molto preoccupato di tali sviluppi.
Posso certamente affermare questo come risultato dell'ultimo colloquio
con lui. Fu dopo cena al King's College nel febbraio o nel marzo del
1946, quando, sebbene già molto malato, aveva dato prova della
sua straordinario acutezza, che ebbi l'occasione di chiedergli nella
sala di ritrovo, se non fosse infastidito dalla mania inflazionistica
di alcuni dei suoi discepoli. Reagì con uno scoppio d'ira contro
questa "follia"". Evidentemente, la questione gli stava
molto a cuore ed era turbato dal fatto che qualcuno potesse credere
che egli approvasse ciò. Ma poche settimane dopo era morto,
e l'Inghilterra aveva perso il solo uomo che ancora potesse proteggerla
dalle conseguenze dei suoi errori.