Carenze personali,
familiari, ambientali e altro ancora possono concorrere a determinare
le situazioni di povertà; ma peso preponderante deve essere
attribuito alla disuguale distribuzione delle risorse fra gli individui,
i gruppi sociali, le aree territoriali, nonché alla inadeguatezza
delle politiche e del meccanismi redistributivi che dovrebbero correggere
le disuguaglianze più intollerabili. l'esistenza della povertà
non è quindi un fatto naturale e ineluttabile, ma è
prevalentemente frutto di un'organizzazione sociale ingiusta che va
decisamente combattuta.
Le cifre dei poveri che formano la "Terza Italia" sono da
vertigine: oltre due milioni di famiglie e sei milioni di persone
sono coinvolte in questa spirale. Un italiano su nove è povero.
La povertà, manifestazione estrema della disuguaglianza sociale,
deve essere considerata nella sua relatività geografica, storica,
sociale e culturale. Si può quindi definire povero chi non
è in grado di soddisfare in misura adeguata quel complesso
di bisogni - in termini di beni, servizi, stili di vita - che sono
ritenuti essenziali in un dato periodo storico e in un determinato
tipo di società: bisogni che nascono, oltre che dallo sviluppo
economico, anche dall'organizzazione, dai modelli culturali, dalle
normative proprie di quella società. I bisogni considerati
necessari possono assumere connotati diversi anche all'interno di
una medesima comunità nazionale, in relazione alle aree territoriali
e persino agli ambienti in cui la gente vive. Anche i costi e i modi
di soddisfacimento di quei bisogni possono variare nelle diverse parti
del territorio nazionale.
Contrariamente a un'opinione diffusa, che ritiene che la povertà
consista solo nell'insufficienza del reddito monetario, occorre sottolineare
che essa è un fenomeno cumulativo e multidimensionale: all'insufficienza
di quel reddito si accompagnano anche carenze di altre risorse, dall'istruzione
all'accesso ai servizi pubblici e privati che oggi costituiscono tanta
parte del "pacchetto" di beni considerati essenziali per
un tenore di vita adeguato o accettabile. Schematizzando, le risorse
decisive per il tenore di vita in una società come quella italiana
vengono prodotte e distribuite in almeno tre ambiti diversi: il mercato,
lo Stato e l'economia familiare (e, più in generale, l'economia
informale).
Il mercato, innanzitutto attraverso il sistema occupazionale, distribuisce
reddito monetario, ma anche, in modo disuguale, benefici o svantaggi
connessi al tipo di lavoro svolto. Sempre dal mercato provengono i
redditi di capitale. Lo Stato, nelle società occidentali sviluppate,
è divenuto una delle fonti principali di distribuzione e redistribuzione
del reddito, direttamente col sistema fiscale e i trasferimenti monetari,
indirettamente col sistema dei lavori pubblici collettivi e con i
servizi sociali. Le politiche sociali dello Stato e la loro funzione
redistributiva sono perciò divenute decisive per il tenore
di vita complessivo degli individui e delle famiglie. In particolare,
va ricordato che i servizi sociali svolgono una duplice funzione a
tale riguardo. Essi costituiscono prima di tutto una risorsa di tipo
economico a integrazione del reddito monetario; in secondo luogo,
sostengono indirettamente la produzione del reddito familiare. Non
vanno infine dimenticate le risorse provenienti dalla cosiddetta economia
informale, anche a livello di rete familiare, parentale o amicale.
Non solo perché la famiglia è cassa di compensazione
del redditi e sistema attivo di solidarietà e reciproco sostegno,
ma anche perché è essa stessa un ambito di produzione
di risorse di valore economico rilevante, anche se al di fuori dell'economia
monetaria. Pur convenendo sul fatto che la povertà assume oggi
caratteri più variegati e investe strati sociali diversi dall'omogenea
"classe" del poveri del passato (per cui si parla di "nuove
povertà", al plurale), è opportuno dedicare attenzione
prioritaria a quelle situazioni più gravi e intense, prodotte
dal frequente cumularsi di carenze diverse. E' vero infatti che stanno
emergendo forme specifiche di povertà, qualitativamente diverse
dall'indigenza totale dei poveri di ieri: la difficoltà dei
giovani a trovare lavoro o quella delle giovani coppie di trovare
un'abitazione autonoma, la mancanza di salute, l'invalidità,
la tossicodipendenza, e così via. Queste situazioni diventano
fattori di povertà, appunto, quando si cumulano a insufficienza
di reddito, oppure quando, con i loro costi, portano le famiglie alla
povertà economica.
Il peso della condizione reddituale come fattore di povertà
chiama in causa la centralità del l'occupazione, dato che questa
costituisce in genere la fonte primaria del reddito per la quasi totalità
delle famiglie: centralità che riguarda l'accesso al lavoro,
ma anche il tipo di occupazione, le garanzie di stabilità,
la protezione normativa e sindacale di cui essa gode di fatto. Una
politica attiva di pieno impiego assume evidente rilevanza in quelle
aree (Mezzogiorno, zone montone depresse) nelle quali più diffusa
e persistente è la disoccupazione e più precario e meno
remunerativo è il lavoro disponibile, soprattutto per le donne.
Qualunque sia il giudizio sulla validità e sul ruolo dell'istituto
familiare, non si può ignorare un dato di fatto: le persone
che vivono sole sono 2.319.000, di cui 1.268.000 ultrasessantacinquenni,
e costituiscono il 13% del totale delle famiglie e poco più
del 4% della popolazione complessiva. La famiglia, comunque costituita,
legale o di fatto, è insieme unità di consumo e unità
di produzione di servizi (e talora anche di beni). Nel suo ambito
vengono assunte decisioni economiche e si realizza la combinazione
delle varie risorse, monetarie e non: questa combinazione di risorse,
integrata dai servizi prodotti al suo interno, determina il tenore
di vita complessivo della famiglia e di ciascuno dei singoli componenti.
I bisogni della famiglia e dei suoi singoli componenti sono influenzati
da una molteplicità di fattori: in particolare, dall'ampiezza
numerica della convivenza, ma anche dall'età e dallo stato
di salute delle persone, dalla presenza o meno di entrambi i genitori,
dall'ambiente circostante. In Italia gli studi sui rapporti tra il
fabbisogno dell'adulto maschio e quelli relativi ai bambini, ai ragazzi,
alle donne e agli anziani, sono poco sviluppati. E' quindi difficile
arrivare a valutazioni analitiche dei fabbisogni familiari.

Le strutture familiari, così come i bisogni, cambiano lungo
il ciclo della vita. Se, ad esempio, si considera la tipologia familiare
più diffusa,, composta da una coppia con figli celibi o nubili
e senza altri componenti (52% delle famiglie, nelle quali vive il
65% degli individui), è evidente che il rapporto tra lavoro
familiare ed extradomestico, la disponibilità di reddito e
quindi la qualità dei consumi, la domanda di servizi mutano
col variare di un complesso di condizioni, quali l'età dei
figli, l'uscita di questi dalla famiglia e infine l'entrata della
coppia nella terza età.
L'evoluzione "normale" delle situazioni e dei bisogni familiari
può infine essere perturbata dall'innestarsi di eventi specifici
che possono provocare entrata nella povertà (ad esempio, la
nascita di un handicappato, il sopravvenire di malattie croniche o
di invalidità, la separazione, il divorzio, la morte del coniuge,
la perdita di autosufficienza di un anziano). Altrettanto importanti,
e frequenti, sono gli eventi relativi all'occupazione, dato che per
la maggior parte delle famiglie il reddito da lavoro è la fonte
principale, se non unica, di sostentamento. Determinante è
il numero dei percettori di reddito in rapporto con l'ampiezza della
famiglia: la perdita del posto di lavoro può avere effetti
devastanti quando si tratti dell'unico occupato della famiglia; viceversa,
il secondo componente che trova lavoro, in genere, determina l'uscita
dalla povertà, quanto meno dalla povertà da reddito.
Il carattere spesso dinamico della povertà e la molteplicità
dei fattori che possono determinare o favorire l'entrata o l'uscita
dalla povertà stessa non impediscono, tuttavia, che per fasce
anche consistenti della popolazione, per il cumularsi di una quantità
di carenze, esista il rischio di una prolungata permanenza nella povertà.
l poveri, inoltre, non sono mai arrivati ad essere una specifica categoria
sociale in grado di esprimere una propria rappresentanza capace di
far valere l'urgenza e la gravità dei loro bisogni. La disomogeneità
interna al gruppo, la temporaneità di permanenza al suo interno,
ma soprattutto l'assenza di una coscienza collettiva e di una rete
di collegamento impediscono all'insieme dei poveri di divenire un
soggetto sindacale e politico in grado di inserirsi efficacemente
nell'attuale società conflittuale e corporativizzata, nella
quale è il potere contrattuale che conto.
Pur essendo le situazioni di povertà estremamente variegate,
si possono individuare alcune aree - considerate dal punto di vista
territoriale, ma anche sociale - maggiormente esposte al rischio di
trovarsi o di cadere nelle condizioni più gravi di povertà.
Non occorre soffermarsi sul divario esistente fra il Centro-Nord e
il Mezzogiorno. Un complesso di fattori - soprattutto la scarsità
di occupazione stabile, il basso livello del reddito complessivo,
l'insufficienza delle infrastrutture e dei servizi - aumenta per le
famiglie del Mezzogiorno (fra l'altro, mediamente più numerose
che nel Centro-Nord) il rischio di povertà.
Con incidenza territoriale diversa, il rischio di povertà colpisce
particolarmente tre aree sociali. Un primo gruppo è costituito
da coloro che sono in condizioni di debolezza rispetto al mercato
del lavoro. Questa debolezza si manifesta nella difficoltà
di trovare occupazione, nel rischio di perderla, nella possibilità
di accesso solo a lavori dequalificati, precari, stagionali o sommersi.
Inoccupazione, disoccupazione e sottoccupazione producono effetti
più o meno gravi a seconda della situazione occupazionale e
reddituale della famiglia. è evidente che la mancanza di lavoro
provoca miseria totale quando colpisce l'unico componente della famiglia
in condizione di lavorare; e in maggior misura quando si tratta di
un capofamiglia donna (per la quale il rischio di disoccupazione prolungata
è più elevato).
Una seconda area a grave rischio di povertà è costituita
dagli anziani soli e dalle coppie di anziani: quanto più avanzata
è la loro età, tanto più probabile èche
godano di pensioni inadeguate a causa della loro storia lavorativa,
e che subiscano il processo di decadimento fisico.
Infine, un elevato rischio di povertà esiste anche per le famiglie
numerose aventi un solo percettore di reddito; se quest'unico reddito
non è elevato, si trovano spesso in difficoltà le famiglie
di quattro persone. Nell'ambito delle famiglie numerose il rischio
di povertà è influenzato dall'età dei componenti
ed è maggiore quando la presenza di bambini o ragazzi aumenta
il volume del lavoro familiare e rende più difficile l'occupazione
extradomestica di entrambi i coniugi, specie se i servizi sociali
disponibili sono inadeguati. Estremamente difficile, in particolare,
è la situazione delle famiglie monoparentali (in maggioranza
con capofamiglia donna), soprattutto se i figli sono minori. Nelle
famiglie numerose e monoparentali in povertà, i bambini possono
trovarsi a percorrere il "circolo vizioso della povertà",
cumulando su di sé svantaggi di cui pagheranno il prezzo anche
nell'età adulta.
Dal momento che la povertà non è solo frutto di sfortunate
vicende personali, ma è conseguenza di situazioni più
generali, il problema va aggredito all'origine, sul terreno delle
politiche del l'occupazione, della distribuzione del reddito e dell'impiego
della spesa sociale. Per questi motivi, l'intervento contro Ia povertà
deve articolarsi su due livelli: nazionale e locale. la politica da
attuare a livello locale deve esplicarsi nelle seguenti direzioni:
- redistribuzione e riequilibrio delle risorse fra le diverse aree
territoriali;
- sviluppo dell'occupazione in funzione dell'accesso di tutti al lavoro,
con priorità per chi versa in condizioni di maggior bisogno;
- adozione di misure atte a favorire la piena fruizione dei servizi
sociali da parte del cittadini più svantaggiati;
- attuazione di interventi economici di base, mediante la razionalizzazione
delle agevolazioni fiscali e dei trasferimenti di reddito;
- formulazione di normative generali, alle quali le politiche locali
devono riferirsi.
Le politiche nazionali contro la povertà vanno integrate (e
in parte anche applicate concretamente) a livello locale. Ciò
con un duplice scopo:
- utilizzare indicatori della povertà meno approssimativi e
meno grezzi di quelli disponibili a livello nazionale (quali i livelli
di reddito dichiarati a fini fiscali o quelli auto-accertati);
- elaborare un sistema d'interventi tagliato, per così dire,
su misura rispetto ai molteplici e peculiari aspetti che presenta
ogni specifica situazione di povertà.
La personaIizzazione degli interventi di competenza locale (che può
essere ottenuta utilizzando, accanto alle strutture pubbliche, il
contributo integrativo del volontariato) deve evitare il rischio di
cadere nell'assistenza discrezionale, la quale, se da un lato rischia
di stigmatizzare i beneficiari, dall'altro alimenta la permanenza
dei poveri in una condizione - di fatto psicologica - di dipendenza.
Perciò, anche l'intervento sociale locale deve ispirarsi a
normative che, definendo oggettivamente destinatari e prestazioni,
pongano in essere precisi diritti dei destinatari stessi e forniscano
loro strumenti per raggiungere una maggiore autonomia, aiutandoli
in questo modo a venir fuori dalla condizione di questuanti.
La politica volta ad eliminare la povertà implica che dal ripensamento
in atto del Welfare State non siano coloro che versano in condizioni
più o meno gravi di povertà a pagarne le conseguenze,
come sembrerebbero indicare le esperienze di altri paesi, nei quali
le politiche di "superamento della crisi", basate sulla
riduzione e/o la privatizzazione delle prestazioni e dei servizi,
sono avvenute soprattutto a svantaggio dei poveri. Prestazioni e servizi
devono essere mantenuti e, per quanto possibile, estesi, in modo da
sottrarre all'alea del mercato il soddisfacimento del bisogni che
concorrono a formare i diritti di cittadinanza. E qui entra in ballo
la questione morale: perché di aiuto concreto alle fasce di
povertà deve trattarsi, e non di clientelismo o di assistenzialismo
strumentale. Stabilito questo, il primo problema è quello di
rendere più adeguato, più efficiente, meno burocratizzato,
più equo, più umano il complesso delle prestazioni e
dei servizi offerti dallo Stato. Ciò implica l'adozione, nel
settore pubblico, di criteri insieme di efficacia e di efficienza
nel l'organizzazione e nella gestione, compresa la trasformazione
del rapporto di pubblico impiego. Al miglioramento e all'integrazione
dell'offerta pubblica di servizi possono contribuire l'offerta privata,
il cosiddetto terzo settore (autogestione) e le varie forme di volontariato
e di semivolontariato.