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BOTTEGA DELLE SPEZIERIE
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Il poeta dei liburni e dei corbezzoli |
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Antonio
Verri
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"Trenta-quaranta
anni fa da un binario secondario di una stazione alquanto grigia, Lecce,
partiva una carrozza. Scassata, ma carica di buoni poeti. Destinazione
il Basso Salento". Non è che un'autocitazione; cominciavamo
casi, sette anni fa, un nostro intervento sulla poesia. Bene. Quella
carrozza-epopea, scendendo attraverso paesi canterini, trasportava non
solo "uomini col colletto unto, col volto rovinato dal lavoro...
chiusi in camicie silenziose, oppure donne con bellissimi occhi ma strapiene
di solitudine", trasportava anche poeti, pittori, scultori, convinti,
al solito, che la poesia, l'arte poteva risolvere un po' tutto, un po'
tutto saldare.
Gli artisti in questione erano Bodini, Pagano, D'Andrea, Macrì, De Rosa e a volte, dicevamo, l'impeccabile Vittore Fiore (ed è tutto un bel dire). Prima tappa Lucugnano, da Corni, seconda Gagliano, da Ciardo, l'omone con gilè e cappello, poi, in grossa allegria, risalivano con nuove tappe a Castro, a Otranto (con Bodini che ogni tanto spariva dal gruppo: lo ripescavano a Cocumola intento a sbirciare con curiosità nelle cucine di donne stavolta allegre, ospitali... e pennute!). Un po' più in là, nel nostro intervento, facevamo partire, con percorso contrario, una nuova carrozza (carrozza di fine anni settanta e non necessariamente immaginaria) con destinazione Lecce, carica di nuovi poeti che si sentivano sì figli dei primi o di una umanità smodata e silenziosa, ma che avevano un po' l'aria stanca e non molta fiducia nella poesia. Niente "discesa alle madri", niente incanti, niente "condizione dell'anima" o "categoria dello spirito", solo discrezione, non molto vigore nel cercare spazio, incertezze e loro purgatorio. Erano poeti, questi ultimi, figli un po' di quell'intimismo dilagante in quegli anni nella poesia nazionale, un po' di quelle nenie continue e di quel sole matto di questa terra a volte sgraziata a volte splendida. Fuori dall'intervento-preambolo. Ecco. E' in arrivo una nuova pattuglia di artisti e poeti. Vengono anche loro dal sud del Salento, ma non hanno assolutamente voglia di fermarsi a Lecce. Quasi tutti un po' più agguerriti, un po' più scaltri, forse anche cialtroni e vili al punto giusto, non molto estroversi ma molto ambiziosi, con cortesie e sorrisi a volte veri a volte fasulli, che intanto lavorano con molta tenacia, confrontandosi con altre esperienze, con respiro diverso, (hanno però assorbito, e bene anche, esperienze solitarie e no come quelle di Bodini, Pagano, Ciardo, oppure il loro operare non può non tener conto di avventure artistiche come quelle di Mandorino, Dodaro, Antonio Massari, Suppressa, Rita Guido); poi fanno le amicizie che contano, intessono rapporti che possono servire, sanno avere come pochi la faccia di bronzo, e ci sentiamo di dire che si serviranno di tutto pur di arrivare. Hanno la nostra, forse è inutile dirlo, sconfinata simpatia! Bene. Intenzione di Sud/Puglia è farveli conoscere uno alla volta, due per volta, comunque parlarne, farveli arrivare: non sono molti qua da noi (ma forse altrove non va meglio) gli spazi che hanno, le riviste che li possono ospitare. Cominciamo. Il primo, non è una scelta casuale, è Salvatore Toma, nato a Maglie dopo il cinquanta, poeta di quella razza che lavora sul dolore e sull'ironia delle parole con una sua speciale carica, strapiena di miti, di favole. Anche poeta fine che difficilmente cede alle mode e bizzarro e fantasioso e quanto mai stravagante (dispiacerà forse al critico "materialista" questo - e ai suoi tanti discepoli, bamboli tinti di rosso - che termini come "mitico", "fantastico" li scarica direttamente nel capiente bidone del recente riflusso). Allora. Toma ha un bosco. Glielo hanno affidato (è l'unica cosa che ha) dieci, quindici anni fa. E' lì che uno può andare a trovarlo. E' lì che lui passa tutto il giorno. E' in questo bosco che è nata quasi tutta la sua produzione poetica (quattro o cinque libri semiclandestini, due in preparazione). E' in questo bosco che lui alleva i suoi bastardini, i suoi Bull Terriers, il suo Akita Inu. è il posto ideale per un poeta come Toma, con un sottobosco di liburni, corbezzoli, lentischio, pungitopo, con querce e pini fittissimi ma che non riescono a far da tetto ai suoi svolazzi, ai suoi variopinti grifoni, alle sue chimere. Parlare di Toma vuoi dire anche fermarci sulle condizioni frustranti e sullo stato di disagio di chi è poeta o autore in questo posto; parlarvi di editori-imprenditori all'ombra del potere o assorti in operazioni tanto assurde quanto presuntuose; parlarvi della disattenzione organica e studiata e programmata di chi è addetto alla cosa culturale nei centri di qualsiasi Palazzo (non è che vorremmo trovarci davanti a tanti Nicolini dei bei tempi, o davanti a una collana di letteratura gestita dalla Regione, ma ci pare pure giusto sperare in uno stato di cose in cui non sia l'autore stesso a trovarsi in grossi guai con i soldini o i soldoni da dare al tipografo); oppure parlarvi di una Università assolutamente impreparata a recepire e a dare nuovi stimoli; oppure parlarvi, vecchio discorso, delle librerie semideserte, del disamore per il libro, soprattutto di poesia (notavamo tempo addietro che è sparito persino quel mercato che fino a otto-dieci anni fa aveva per destinatario l'amico o il conoscente). Ma basta. Chiudiamo qui. Soliti vecchi discorsi e solite vecchie risposte che non arrivano. Parlare di Toma è anche, in certo senso, considerando la frequentazione e la collaborazione in crescendo, parlare delle nostre scelte culturali di questi ultimi cinque anni. Per esempio possiamo dire che i nostri ultimi numeri di Pensionante non li abbiamo pensati a Lecce ma a Maglie: qua c'è Totò Toma, la colta Claudia, De Jaco che si è ricomprata la casa dei genitori, la Maria Corti e Oreste Macrì che scappano appena possono... qui siamo nel centro dell'altra cultura, quella scarna, senza ridondanze, senza velleità, senza troppe parole, quella lineare, essenziale, che ha due poli, anche geografici, di immediatezza, di sofferenza e di grecità, Martano e Otranto. Ma chi è Totò Toma? Ecco qua (aiutati anche da nostre idee raccolte due-tre anni fa durante la presentazione del suo "Forse ci siamo" nella Biblioteca comunale di Maglie). Toma è un colossale bagno di trovate, è il poeta che da sempre ha capito tutto e vola su tutte le manovre di imbottigliamento, sulle invidiuzze di qualche sciocco amico, come sulle cretinerie dei celebrati e venerati potenti di ogni luogo. Toma è feroce, è sanguinario come tutti i veri poeti e come tutti i veri poeti ha il diritto di mandare al diavolo un po' di gente; Toma èun io che vince, dolorosamente ma vince, che sovrasta dall'alto di una quercia secolare; Toma è un batuffolo di ironia e di smaliziato candore, Toma è di una ironia favolosa (provate a guardare nei carteggi dei più grossi poeti e scrittori, troverete sberleffi pazzeschi, trovate esilaranti), sa inventarsi di tutto e di tutti con allegria e meraviglia; come tutti i veri poeti ha carisma, ha potere sulla vita e sulla morte di ognuno; può avere, è un suo diritto, armonia e tenerezze e aspri giudizi per tutti; può ridere di te, volare apparentemente sereno, dire sciocchi, odiare chi odia gli ubriaconi, gli emigranti, i diseredati che puzzano; può essere un bambinone, può avere ossessioni erotiche, può canzonarti quando gli pare, può scappare dai suoi e tornare con detti stravaganti, con astuzie candide e sanguigne. Quante cose! Troppe. Cose pensate in motorino, il più delle volte dietro un bulbo da suo padre fioraio, per rompere, per cercare di rompere il magone di una vita senza ruolo, le cose idiote che ti circondano... o forse solamente la paura della morte, della vecchia con la falce e col ghigno. Toma è anche uno che sa godere, ha capito benissimo che la poesia è qualcosa che si consuma in un attimo, con voluttà, con intensità, con dolcezze, di quelle "che fanno vergognare il Paradiso" per intenderci; Toma è un animale d'assalto e di rientro, sicuro, scaltro, triste, allegro, pieno di tremori inaspettati, e poi rivoltato, costretto, annientato "da questa civiltà simile alle periferie, piena di barattoli, di plastiche, di scarpe vecchie, di bambole spezzate, di fumo, di puzze, di cadaveri di cani bruciacchiati". Anche noi crediamo, con lui, che in guerra come nella vita vince sempre "chi più è ucciso", chi meno sa incassare, chi ha sempre dei dubbi. E poi cosa c'è di più raggelante, per dirla con Toma, della "elementare certezza" della banalità, della inutilità della vita, ma anche della poesia, di questo regno di suoni, di allusioni, di segreti, di scoperte tenere e altrimenti inconfessabili, di ossessioni, ("oh sogni sogni fughe rinunce brividi esplosioni morte alcool dagli spettri argentati disperate vele a ritroso nella memoria, fame di vivere, mi date il vomito e la bizzarra allegria"); cosa c'è di più raggelante della elementare certezza che non ci resta poi molto in mano, quasi niente, perché la poesia non è stata mai un grosso affare per nessuno: e allora i rapporti privilegiati con la morte, con la verità, con il mare-segno di serenità e tranquillità, con una boscaglia verdissima di invenzioni: e allora l'unica via, la sola possibile via, "la mente, il sogno proibito, il blaterare placido e corretto della sopravvivenza". Questo, a grosse linee, è Salvatore Toma, o almeno il nostro Toma, che non abbiamo nessuna riserva, anche perché aiutati da Macrì, a mettere accanto a Bodini, Baudelaire, Campana, ma anche a Vittorio Pagano, a De Candia, a Tonino Caputo e a tutta quella schiera di poeti e artisti ingenui, puri, schematici, semplici, banali, profondi, allegri, deficienti, arguti, accattivanti, indifesi, disarmati, candidi, macilenti, persi nella gente che odiano, che amano, col sorriso misto al rutto, col fresco di una vita senza lacci, con la convinzione che la sola cosa che conta, la sola cosa per la quale vale la pena vivere è la letteratura, l'arte, la poesia. Che altro? Ah, i suoi biglietti rossi, gialli, le sue buste finissime, la sterminata serie di penne, le cartoline d'autore che monta con i suoi timbri, con immagini che ama, con incredibili autoadesivi, le carte intestate col disegno dei suoi cani, le strampalate domande di iscrizione ai "Lions club", le sue "guerre" con manifesti per tutta Maglie, o le bizze con Contini, o le tormentate, monologanti, sue vicende con Cucchi e Raboni (strapiene di ironia cruda, illogica, un po' da ragionamenti alla Don Chisciotte), colpevoli, secondo lui, di bloccare la sua ascesa poetica, in fondo capi, e di conseguenza predoni, in quel di Milano, dello Stato della poesia italiana, della editoria poetica nazionale, ecc. ecc.: corsi e ricorsi la storia si ripete, Raboni e Cucchi qui altro non sono che quel che furono Papini e Soffici per Dino Campana!; anche se l'odio, le accuse per la non inclusione nello Specchio mondadoriano, lo scherno semmai, confinano sotto sotto con l'ammirazione, una sorta di amore inconscio, una ferma volontà di farsi valere e apprezzare "soffocandoli" e "sputtanandoli" con le sue trovate al limite della denuncia ("denuncia" è voce generica, buona, disperante, per tutti ma non per Toma, o per i poeti come Toma). Però non è stata, non è sempre monologante la furia epistolare di Totò Toma; vi sono delle lettere - e non solo lettere: chi non ricorda il saggio di Oreste Macrì sull'Albero di Milella? -, delle testimonianze di tutto rispetto e nobiltà: Davide Laiolo per esempio, oppure due righe di Montale, una lettera di Prezzolini, ecc. ecc. oppure contatti recenti attraverso Pensionante, o nuove amicizie, Vittorino Curci per esempio, uno dei più valenti poeti dei Mezzogiorno. Eccetera. La mezzaluna di Toma, allora, fende, incontenibile, il cielo ed è come quella -non è la stessa però - che Bodini, Campana, il suo "Rembò", hanno visto splendere, bianca e tagliente, in bocca ad un pesce o sulla groppa di un grifone.... intanto lui continua con le sue cartoline, i suoi voli-appigli: una delle più recenti, a parte quelle settimanali a Cucchi e Raboni (ai quali, tra l'altro, per lo Specchio, propone le stesse identiche poesie da cinque anni i), è quella indirizzata a Maria Corti, che pure quattro-cinque anni fa lo ha ospitato su Alfabeta. Allora, la Corti gli promette, una sera a Maglie, il suo interessamento per una recensione al "Forse ci siamo"... che non arriva. Muore Calvino, l'autrice de "L'ora di tutti" interviene il giorno dopo su Repubblica. Da Maglie parte una cartolina: "Adesso so che devo fare per meritare la sua presentazione: comincerò a passare coi rossi!". Cosette, cosettine a volte, ma la vita di Toma poeta è questa, nell'altra ha tre figli e una moglie che è un po' il suo angelo custode, comunque la sua regolatrice. Ma sono tutte nostre idee, per lui non c'è una vita da poeta e poi l'altra. Permaloso, sofisticato, aristocratico com'è (si firma il Sommo oppure a Great Poet), non vive che per la poesia e di poesia. C'è poco altro da dire, da fare nella vita. Niente, non conta niente altro. Tutto è vecchio e tutti siamo vecchi, quasi morti ("... Mai/visti tanti convalescenti/senza speranza/aggirarsi per le strade/automatici lenti/con occhi di ghiaccio/e faccia lunga"). Ecco, per finire. Chi non consente poesia, chi non riceve poesia è un morto, chi non sa vedere i pesci d'oro che pendono dalle sue querce e dai suoi pini è un morto, chi non si accorda con la sua urgenza (propria dei poeti) è un morto, chi non sa ascoltare, con un vento leggero, le nenie, le canzoni dei suoi liburni e dei suoi corbezzoli è un morto, chi non vola con i suoi mitici uccelli, chi non ama il guizzo dei suoi cani, la loro eleganza, la loro voracità, è un morto... è da concedere tutto ai poeti... specie quando, come nell'ultimo Toma, nel penultimo Toma, nel Toma di sempre, la poesia assume valenze profetiche, detta verità valide per tutti! Oddio, si è girovagato un bel po' sul personaggio Toma, non abbiamo detto granché della sua poesia (ma parleranno, e bene, i testi che seguono). Volendo farlo non possiamo che sottoscrivere le intuizioni e intuizioni resoconto che Macrì ha steso prima nel citato saggio (numero 63-64 dell'Albero), dopo, nella breve presentazione al "Forse ci siamo": e allora radicalità, "innocenza, libertà, genesi e apocalisse", e allora "... accentuato corso diaristico d'un io aggressivo, insolente d'acuminata verità, trascolorante agli estremi poli dell'infraumano e del celeste, dell'onirico-fiabesco e della più aspro e dura realtà". E ancora - e questo è caratterizzante soprattutto dell'ultimo Toma -: poesia ormai profetica, ormai contagiante, luogo di parole che non hanno più bisogno di aggettivi, verso che tende ad esser mozzo, sballo continuo, continua allegria, la presenza sempre più raggelante e definitiva della morte (dice continuamente di aver solo altri nove mesi di vita!), poesia epifania dell'assurdo che respiriamo ogni giorno, delle paure, delle ansie che vorticano su tutto e su tutti. Anche sui poeti. Sì, ma loro hanno torri e querce altissime, solitarie, secolari. Eppoi i poeti, i veri poeti, sanno così bene svettare che, sul serio, è necessario conceder loro tutto... AUTORITRATTO
74.2.1980
22.6.1980
La morte ghermisce 2
22.6.1980
25.12.1980
23.1.1982
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3 4
1 Arriverà
la vita 2
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