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FORMAZIONE ESISTENZIALE E CREATIVA DI GIOVANNI BERNARDINI |
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Francesco
Lala
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La
prima prova documentabile di Giovanni Bernardini è dell'estate
1935: diario d'una permanenza a Trieste con uno zio paterno, tenuto
su un quaderno al termine del secondo anno di ginnasio inferiore (ora
scuola media). E' il tempo delle "mire africane" e del vagheggiamento
dell'Impero, già cantato dai giovani fascisti e dagli universitari
nei loro inni: "Ti darem gloria e Impero in oltremar"; "Per
le vie del nuovo Impero / che si dilungano nel mar / marceremo ... "
(1). Sono trascorsi diciassette anni dalla fine della prima guerra mondiale,
che non son pochi e neppure tanti: di essa permane il ricordo nei "più
grandi" che l'hanno tragicamente vissuta e ora trasmettono a figli
e nipoti gli entusiasmi e le commozioni della vittoria. Il diario del
dodicenne Giovanni, inedito, I miei giorni a Trieste, di ben 161 pagine,
già rivela qua e là un piccolo, attento narratore: il
ricordo della guerra, aleggiante nell'aria della città, il nuovo
e recente moto accostato a quello risorgimentale (Oberdan è con
Mazzini e Garibaldi), l'Adriatico visto nella sua selvaggia bellezza
nelle ore di meditazione e goduto nell'abbraccio dei momenti balneari
sono i poli attorno ai quali il giovanissimo narratore stende la sua
trama a volte puntualmente descrittiva, altre volte precocemente pensosa.
Ecco un grido: "... la guerra, la guerra, che divora, distrugge,
annienta!" Segue una visita a Capodistria: "Attraversando
strette calli, che ricordano la dominazione veneta su questa ridente
cittadina, si è alla casa natale di Nazario Sauro... Come sorride,
dinanzi al mare, che spira sino ad essa la dolce brezza marina, il balsamico
odor dei salsa". Non ci sfugga che in questo passo i due elementi
cui si è accennato (guerra; mare) qui si fondono, e anzi il mare
partecipa, perfino, con la sua brezza profumata, al tributo di gloria
al martire. E non a caso si son voluti ora sottolineare i due elementi
ricorrenti, che rappresentano biograficamente i riferimenti dei primi
anni di Giovanni. Il quale, nato il 13 aprile 1923 a Pescara (città
da cui, bimbetto di pochi mesi, passa per breve tempo a Parma, dove
il padre, Alberto, originario di Monteroni di Lecce, ufficiale della
Sussistenza, si trasferisce per frequentare il corso della scuola di
guerra), trascorre l'infanzia ad Ancona, alunno delle elementari, prima,
e delle due classi iniziali del ginnasio inferiore, poi, ma sempre presente
con la famigliola al richiamo della paterna Monteroni, tutti gli anni,
ad ogni settembre.
Il diario triestino non è molto più d'un esercizio di uno studentello dodicenne, e non è privo (è naturale) di qualche pur rara incertezza formale; contiene, tuttavia, pagine narrativamente mature in cui Giovanni già si muove con piglio sicuro: "Il vaporetto fila cullato dalle acque increspate del mare, a destra il bagno "Savoia", la diga, lo stabilimento "Ausonia", pieni di bagnanti. Con zio e le zie siamo seduti proprio al centro del vaporino. [ ... ] Bisogna premettere che a mio zio Alfredo non sono molto simpatici i suonatori ambulanti, e nemmeno a farlo apposta, ecco che due di essi, e relativo cantastorie, si accingono a deliziare i gitanti con la loro stonata musica e ancora più stonato canto. Il chitarrista si appoggia addirittura alla spalla di zio, e gratta disperatamente il suo arnese, mettendo [ ... ] a ben dura prova la pazienza di zio Alfredo. Il cantastorie, tenore dall'ugola d'oro, riempie l'aria con i suoi acuti assordanti. Il violinista suona in modo magnifico: sembra Paganini. Zio sbuffa, ansa, è in procinto di scoppiare, si agita, sembra insomma una belva in gabbia. Noi ci tratteniamo a stento dal ridere, ma ecco finalmente che la musica cessa e i canti tacciono. ...Trieste comincia a scomparire del tutto al nostro sguardo. Ci allontaniamo sempre più. Il vaporino solca rapidamente le onde, che vanno ad infrangersi sui suoi fianchi, lasciandosi dietro una lunga scia bianca e spumeggiante. Nel mare azzurro e tranquillo si riflettono i raggi cocenti del sole, che rendono le acque smeraldine risplendenti di mille luci". Dal settembre 1935 al giugno 1939 Bernardini (unico figlio, come resterà in appresso) passa a Monteroni, nell'antica casa paterna. Da qui si reca a frequentare le rimanenti classi del ginnasio e la prima del liceo classico al "Palmieri" di Lecce. è studente assorto negli studi, come dimostrerò concretamente di essere, poi, a Pescara, superando in un solo anno scolastico le due ultime classi liceali. Intanto a Monteroni ha perduto il padre, ultima vicenda di una malattia contratta sul Corso nella guerra del 1915-18. Il fatto èparticolarmente traumatizzante per l'affettuoso rapporto figlio-genitore bruscamente interrotto. La madre di Giovanni, Francesca Seccia, pescarese (figlia d'un amico di D'Annunzio, al quale il poeta, al tempo di Primo vere, ha dedicato una lirica), dal gennaio del '39 resta l'unica consolatrice delle malinconie filiali. A Pescara, dove poi risiede nella casa materna, emerge la vocazione letteraria del giovanissimo Bernardini (i precedenti "parti" sono stati abbastanza sporadici), che trova conforto alla recente conoscenza della morte - cosa più grande di noi, e specie d'un adolescente nella composizione d'un nutrito gruppo di liriche, quasi tutte inedite, di varia ispirazione: reminiscenze petrarchesche, echi montaliani, soprattutto ungarettiani: "Lontana e presente / come in una vita senza tempo / m'apparisti dal balcone / e svaporasti / con la notte che fuggiva. / Ero lì ad attendere qualcosa: un nulla. / Ed attendo ancora: un nulla / come tutta la mia vita." (Perduta a me, capodanno '41); "Quest'opaco infinito / mi si travolge / in un delirio di colori / che trascorrono agli occhi della mente / lasciandomi poi / sempre più solo." (Ricordi, 25 gennaio '41). Dai quali versi emerge sùbito una condizione esistenziale di carenza affettiva e di vuoto. Il leit motiv ne è l'insistenza di semantemi come lontana, senza tempo, apparisti, attendere attendo, nulla-nulla, sempre più solo; dove i due termini ripetuti, e quasi martellati, richiamano un'attesa vana, qualcosa di perduto per sempre. A Firenze Bernardini (conseguita la maturità classica, a Pescara, nel liceo "D'Annunzio") frequenta dal '40 la Facoltà di lettere. De Robertis richiede agli studenti una "tesina" per ciascun anno universitario, e Giovanni sceglie di scrivere prima su Emilio Cecchi e poi su Vincenzo Cardarelli. Il giovane si impegna soprattutto sul primo scrittore e dal lavoro vengon fuori linde pagine e opportune osservazioni che, pubblicate a sette anni di distanza, costituiscono, con il titolo Interpretazione di Emilio Cecchi, la prima pubblicazione di Bernardini (2). "Fu con Cecchi, più che altro, una intima aderenza: io lo sentii e vibrai del suo mondo e quel mondo [..] mi sforzai di rappresentare" (3): così scrive nella prefazione l'autore; il quale poi definisce il suo opuscolo (non si dimentichi: egli èancora nel corso del suo diciassettesimo anno), un "lavoro [..] del cui limite si rende perfettamente conto" (4). Eppure, al di là di quello che riconosciamo come limite, più che altro, di natura metodologica, stante la larghezza del tema (più da totale monografia che racchiudibile nelle trenta pagine del saggio), si deve ravvisare già nello scritto una fervida capacità critica nell'analisi della "mitologia" della Natura - animali, uomini, donne, bimbi, luoghi - riscontrabile nell'opera di Cecchi; il quale per di più tende (opportuna osservazione) ad "allontanare il presente: o in un tempo passato - e, per esempio, lo abbiamo visto a proposito degli animali - o in un tempo futuro" (5). Ma ciò che più volte ritorna in Cecchi è, nell'analisi del giovanissimo saggista, la fede del passato ("Ma del suo passato, del più lontano, Cecchi s'è fatta una fede: come di quella che era veramente una realtà: tanto dispersa negli anni quanto presente nel cuore." (6)) e il valore carismatico della musica ("Interpretare e vedere il mondo attraverso un ritmo di musica o di ballo, è a Cecchi essenziale." (7)). E poi i viaggi in Grecia, nel Messico, nell'America del Nord, la malinconia, il dolore, la povertà: tutto è passato in un meditato vol d'aiseau. Nel '43 Bernardini frequenta un Corso allievi ufficiali universitari di complemento (un richiamo freudiano dell'occupazione paterna?): "gli alleati erano sbarcati in Sicilia e molti di noi, me compreso, dopo una impetuosa concione del capitano comandante la Compagnia fecero domanda per essere inviati immediatamente a respingere il nemico dal 'sacro suolo ecc. ecc.'. Tantus furor si incagliò nelle secche prodotte dalla congiura del Gran Consiglio [..] Intuii che stava succedendo qualcosa di positivo: fui lieto, io orfano di ufficiale del Regio Esercito, di cambiare la camicia nera con la grigioverde, i fasci delle mostrine con le stellette. [..] Un mese prima ci avevano mandati a casa in attesa di prossimo richiamo. Pescara, mia città natale, cominciò ad essere bombardata dalle fortezze volanti che miravano a tagliare la ritirata ai tedeschi ma in effetti producevano danni enormi alle abitazioni e alla popolazione civile (8). Allo scopo di stare un pò più al sicuro i miei ed io ci eravamo rifugiati nel cascinale d'una famiglia amica a metà strada fra Porta Nuova e la Pineta dannunziana. Lì, sul vespro del fatidico 8 settembre, da una casa vicina ci giunse la notizia dell'armistizio. Corremmo ad ascoltare la radio che a intervalli ripeteva il proclama del maresciallo Badoglio. Dalla chiesa di San Cetteo risonava uno scampanìo festoso; quanti abitavano in quella campagna si abbracciavano piangendo e ridendo.." (9). Ma la guerra continua e con l'intensificarsi dei bombardamenti Bernardini si trasferisce con la madre ad Arielli, in Abruzzo, dove si verificano fatti drammatici, uno dei quali egli descriverà in uno dei più riusciti e vibranti suoi racconti, Wein!, pubblicato sulla rivista "Il campo" (10). La prosa è autobiografica, con quel tanto, naturalmente, che la fantasia si concede nella trascrizione artistica, e narra di madre e figlio sfollati in una casa di campagna presso un parente più preoccupato del suo vino che del giovane, nascosto nell'orto per non essere preso dai tedeschi. Uno di costoro, entrato nella cosa grida "Wein!" (vino!), in alternativa alla mancanza, dichiarata dalla madre tremante, di giovani atti al lavoro. Poi si ubriaca e spara, perfino, contro un fiasco al centro della tavola. Il racconto si svolge in un'atmosfera di rapida, cinetica drammaticità (11): Quando la donna
risalì Beniamino compiva il terzo giro intorno alla tavola.
Ella si strinse contro il muro, il fiasco tremante fra le mani e la
testa vuoto. Nel primo scritto, con genuine lacrimae rerum e un accattivante realismo felicemente in contrasto con il contesto tardo-ermetizzante e revisionista della redazione letteraria di "II Critone", il narratore racconta: Si brancolava
in un nero senza forma, tentando alla voce di ravvisare i volti, di
riconoscere il segno umano là dove pareva esser divenuti della
sostanza delle cose, ammucchiati come eravamo e tesi al rombo dei
bombardieri. Caratteristica
della produzione bernardiniana risulta - come è chiaro - l'autobiografismo:
questo tuttavia non s'identifica con una chiusura nell'individuo,
essendo il tutto permeato di senso della storia, di significato collettivo
(più ridotto è l'autobiografismo d'una breve prosa che
risale al '42, Campo d'Arma (14)).
OPERE PRINCIPALI DI G. BERNARDINI Interpretazione
di Emilio Cecchi, Lecce, Stabil. Tip. Pizzino, 1948. |
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