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L'ILLUMINISMO NEL SALENTO
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FRANCESCO ANTONIO ASTORE DI CASARANO |
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Aldo
Vallone
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"Nacque
il nostro Francesco Antonio Astore in Casarano nell'anno 1742 [28 agosto]
da' coniugi Andrea Astore e Domenica Cezza, una delle più distinte
famiglie di Maglie e che vanta uomini distinti nella cultura e nelle
Lettere (tali sono in Maglie l'arcidiacono D. Pasquale Cezzi, D. Oronzo
Cezzi, D. Francesco Cezzi, D. Nicola Cezzi, tutti zii del nostro F.A.A.).
Il nostro F.A. fu istruito né primi rudimenti di leggere e scrivere
e di abaco dall'ottimo e pio sacerdote D. Giuseppe Metafuni, un de'
più culti e de' più illuminati di quel Clero. Egli istruì
il suo allievo specialmente nell'Istoria della Sacra Scrittura e conducendolo
sempre con lui nella Chiesa ad assistere alle sacre funzioni, alle messe,
alle solennità, alle prediche, talchè il suo allievo in
poco tempo, mediante il zelo del Maestro, si rese istrutto nell'Istoria
Sacra, nelle Sacre Cerimonie e nella morale, per quanto quell'età
comportava; ed imparò quasi a memoria i Libri :del Vecchio e
Nuovo Testamento. Per la Lettura Italiana si serviva per Maestro delle
Opere dei P. Francesco Pepe Servita e di quelle dei P. Rodriguez e delle
Vite di S. Domenica e di S. Francesco di Paolo. Per la spiega latina
si adoprava da lui la Sacra Scrittura. La Grammatica fu pria il lumen
grammaticale, che portò molte tenebre nella mente di F.A. Ma
tutto era compensato assai da' progressi del suo allievo nelle cose
sacre e nella morale, avendo egli educato il suo allievo pria nel timor
del Signore, indi nelle scienze profane. Tardi infatti spiegò
al suo allievo gli scrittori profani, cominciando da Fedro e indi agli
altri che il nostro F.A. tutto imparò a memoria, specialmente
Orazio. Circa l'anno 1754 il nostro F.A.A. fu mandato a studiare a Strudà,
villaggio vicino alla città di Lecce, in casa di un dottissimo
Arciprete chiamato D. Pasquale Perrone. Era costui versatissimo in tutte
le lingue dotte e nelle Antichità Greche e Latine, nell'Istoria,
nella Geografia, nella Cronologia ed avea una sceltissima Libreria.
Quanto era dotto altrettanto era di un carattere filosofico-stoico poco
curante de' commodi e trascurato all'estremo nelle vesti e nelle abitazioni.
Dimorava in poche stanze dirute di un rovinoso disabitato Convento,
ove vi erano più nottole e gufi che in Atene. Poteva infatti
dirsi quel luogo essere sotto la particolare protezione di Minerva,
sì per essere quel Piovano dottissimo in tutte le scienze, come
per essere circondatissimo delle nottole consacrate a Minerva. Egli
però tra quelle nottole e tra quelle ruine era nel tempo medesimo
il Socrate, il Platone, il Grevio, il Gronovio, il Sigonio e il Petavio
di Strudà ed era versatissimo in tutte le cognizioni umane e
divine.
Ebbe il nostro F.A. la disgrazia d'incontrare troppo avversa alla sua salute l'aria di quel clima, onde dopo lunghissima malattia ebbe dopo un anno, con suo infinito dispiacere a dividersi dal suo Maestro e tornarsene in Casarano verso l'anno 1755. Dimorò per poco tempo nel Seminario di Nardò mentre vi era Vescovo Monsignor Petrucelli e vi studiò Lettere Umane sotto gli auspicii di D. Luca Piccione, Sacerdote versatissimo nella Poesia e nelle Antichità, ma molto inferiore all'Arciprete di Strudà. L'aria della città di Nardò si scoverse ancora avverso al nostro F.A.A.; onde sì per sul motivo, come per approfittarsi de' lumi che spargea il dotto Maestro di Lettere Umane D. Giovanni Cocchiara, si trasferì in quel Seminario il nostro F.A.A. verso l'anno 1757 e vi dimorò fino all'anno 17[60], ivi, sotto quel celebre Maestro, ripigliando tutto il corso delle Lettere Umane e studiando e traducendo e spiegando sotto sì degno Maestro i migliori classici. Ivi studiò la Poesia, la Rettorica, l'arte Logicocritica, l'Istoria, la Geografia, la Cronologia, la Lingua Greco, e mediante l'amicizia e la famigliarità, con le quoti fu onorato dal suo Maestro, studiò tali facoltà in unione col medesimo, si di giorno come di notte, e divenne suo Intimo amico. Il Sacerdote D. Giovanni Cocchiara ero un uomo probo, morigerato, allegro, studiosissimo, laboriosissimo, scrupolosissimo nel correggere, limore e pulire per più mesi le poesie e le prose de' discepoli. Spiegava pochissimi righi de' Classici e sopra quei pochi righi profondea inesausti fiumi di universale dottrina. Mangiava nel Seminario nel Refettorio co' suoi discepoli in qualità di lor compagno. Un errore di Lingua latina o di gravitò di sillabe, che sentiva, lo facea montare in atrocissime furie e buttava per aria il cappello, il collare e quanto gli veniva alle mani. Era sincerissimo e gli piacea alquanto il vino Falerno e il Cecubo, forsi ad imitazione del suo Orazio. Portava in certe sue sacche alcuni cibi da potergli servire per un pranzo portatile in campagna e dicea in tal occasione "Omnia mea mecum porto". L'anno 1760 giunse il nostro F.A.A. in Napoli per attender meglio agli studi filosofici e legali. Ivi vidde in materia di scienze "coelum novum et terram novam" per così dire. Non gli giunsero nuove le dottrine filologiche e antiquarie de' Martorelli, de' Mazzocchi nelle quali era stato bastantemente versato sotto i suoi dottissimi antecedenti Maestri; ma gli giunsero sorprendenti e nuovi i lumi che nelle Facoltà Filosofiche spargeano l'acutissimo Genovesi, il dottissimo P. Della Torre; onde sotto il primo volle studiare la Logicocritica, la Metafisica, il Dritto Naturale, il Commercio; ed entrato col dotto suo Maestro in intima amicizia, colui in suo caso la sera l'istruiva negli studi! teologici ed in altre dottrine. Infatti il nostro F.A.A. dall'anno 1760 fino al 1769, epoca della morte dei Genovesi, mai lasciò di andarlo a trovare a trattenersi in sua casa fino alle ore più tarde della sera, ivi trattenendosi in eruditi discorsi. [Nell'ottobre 1763 si laurea "doctor utriusque iuris"]. Non occorre dir nulla delle dottrine e vastità de' talenti dei Genovesi, essendo cose assai note al publico e parlando le sue immense opere date alla luce. Il nostro F.A.A. studiò le Leggi Civili sotto la disciplina del celebre giureconsulto Giuseppe Cirillo, le Leggi Canoniche sotto la scorto del famoso D. Domenico Cavallaro, tutti famosi e celebri nella Republica Letteraria, onde non occorre altro dire, essendone bastantemente noti al publico. Il Precettore di Dritto del regno fu il famoso Alfani. E quando cominciò a pratticare nel foro frequentò gli studii del nominato Cirillo e del Signor Palmieri ora Caporuota della Real Camera di S. Chiara. Esistono alcuni tomi di stampate allegazioni [Napoli, 17801 del nostro F.A.A. Ma i tumultuosi stridii del foro e il far da Cerbero nè Tribunali non troppo accordandosi col temperamento e col modo di penzare del medesimo, riservandosi di far per se solo e nelle cause proporsi il Tribunalista, si rivolse sin dall'anno 1780 ad altri studii più tranquilli; e tra le sue molte meditazioni e letture publicò nell'anno 1783 la suo Filosofia dell'Eloquenza in 2 vol. in 8° e nel 1792 il primo volume dello suo Guida scientifica: opere che gli procurarono l'amicizia di moltissimi Valentuomini dell'Europa e gli aprirono le porte di varie dotte accademie" (1). La vita serena e dedita agli studi, come le molte lettere edite e inedite ci documentano, è improvvisamente scossa dalle pretese del figlio Gennaro (e ne scrive, amaramente, a Domenica Briganti e a Giacinto D'Elia) (2), "snaturatissima da' genitori, anzi nimico de' medesimi e capace d'ogni inganno, artificio, finzione e tradimento", "irrispettosissimo", "cancrena, uno sfacelo di tal'ingratissimo figlio [ ... ] intento a spogliarci e privarci anche dell'aria, se fusse possibile". L'Arcadia è finita per sempre. "Un cumolo di mali domestici mi duce al colmo della disperazione e delle disgrazie d'ogni genere" (3): la lettera è del 22 dicembre 1798. E si è alla vigilia della Rivoluzione. Opere, come il Catechismo repubblicano e la traduzione De' diritti e de' doveri del Cittadino dell'abate Mably, ed atti di adesione al nuovo corso delle idee, formano un tutt'uno. Il 1° giugno 1799, già segretario dell'Alta Commissione Militare, è nominato "giudice" della commozione (4). Ma poco dopo, restaurata la monarchia, l'A. è condannato a morte il 27 settembre: la sentenza è eseguita il 30 dello stesso mese (5). Si avvia e procede l'opera di persecuzione (6). Il 7 novembre 1799 da Ruffano F.A. Pinto comunica a Gaetano Ferrante, amministratore dei beni dei rei in .Napoli, che l'ordine di confisca è stato portato a termine. E seguono gli atti, continui, dettagliati con precisione burocratica. "Contro il ribelle Francesco Astore di Casarono si è proceduto secondo gli ordini di V. E. alla confisca di tutti i di lui beni nel modo più esatto e regolare. Si sono eziandio formati gli atti necessari, che rimetterò alla G. le Amministrazione unitamente al volume delle corte presentate nel mio ufficio da Credito ed interesse abenti sul Patrimonio del detto d. Astore, per esaminarsi in Napoli il dritto e la ragione di ciascheduno. La rimesso della sopraddette carte eseguirò nella settimana entrante [ ... ]" (7). Il 23 novembre si dà riscontro da Napoli e si scrive al Pinto, tra l'altro: "Lodo, infinitamente il suo zelo ed accuratezza affinchè non si occultino i beni de' Rei di Stato di codesto dipartimento": seguono poi consigli e norme sui vari "generi" (animali, mobili, ecc.) sequestrati o confiscati ai rei (8). Il 6 dicembre Maria Teresa Bisogni, "avendo esposto come ella si trova da circa anni sette contratto matrimonio con D. Gennaro Astore, chiede innanzi di V.S. con suo ricorso gli alimenti, comecchè si trovano tutti i beni sequestrati ad istanza del Regio Fisco in somma di docati quarantamila, per essere stato il padre di suo marito D. Francesco Astore fellone al Real Trono" (9). Si allega copia dell'atto di matrimonio, avvenuto il 29 nov. 1793, rilasciato a Napoli il 3 dicembre 1799, dal parroco della Chiesa di S. Liborio, Gabriele Caruso. Il 6 dicembre il Ferrante accetta l'esposto e dispone, scrivendo al Razionale Gennaro Paziente "che dall'introiti pervenuti per conto del detto D. Francesco Antonio si paghino l'indicati trenta all'accennato Bisogni in conto degli alimenti ad essa forse spettanti qual moglie del detto D. Gennaro Astore figlio dell'indicato D. Francesco Antonio" (10). E non basta. La Bisogni ricorre ancora, essendo "prossima la Santa Pasqua", "comecché la medesima non può più vivere per ritrovarsi priva di ogni umano sussidio e senza abitazione per il già prossimo mese di maggio, e deve vedere di unirsi con qualche gentil Donna acciò non rimane la povera supplicante colla suo famiglia in mezzo alla strada". Il 7 aprile il Ferrante dispone che siano pagati "alla detta D. Maria Teresa Bisogni docati cinquanta effettivi con dire pagarseli dal ramo delle confiscazioni de' Rei della Provincia di Lecce [ ... ] ed essere a compimento di docati ottanta, stanti docati 30 li furono con altro mandato antecedentemente pagati, e tutti in conto degli alimenti ad esso forse prestandi qual moglie di D. Gennaro Astore figlio dell'accennato Francesco Antonio Astore e non essendovi tal summa nella confidenza del detto Francesco Antonio" (11). La cultura di Astore è vasta e di dimensioni, certo, superiori a quella che si può riscontrare nei salentini del tempo. Palmieri, i Briganti, Andria, Marugj, Falconieri e, naturalmente, i tre "agronomi" - Presta, Moschettini, Gagliardi - lavorano intensamente su molti testi; ma, nel vario arco delle letture, danno assestamento solo ai loro studi e li confortano, in ragione delle scelte, di precipui orientamenti. Anche Arditi, che pure attende a molte cose, o Milizia, in cui il fervido temperamento è pari alla vivida curiosità intellettuale, hanno un centro o almeno un punto di convergenza dei loro interessi: né questo genera meraviglia, poiché l'uno e l'altro, nei modi che il tempo seppure confusamente andava prefigurando, intendono l'arte come confluenza o semenza delle arti. Astore più volte e in più luoghi confessa e sottolinea che coltivare gli studi è per lui una "inclinazione", libero com'è (almeno fino agli anni del dissidio col figlio che, peraltro, sono gli ultimi della sua vita) da preoccupazioni pratiche o disagi economici (12). Si trova, a Napoli, al centro di una produzione editoriale notevole e al centro di richieste che dalla provincia continuamente lo sollecitano (si pensi a F. e D. Briganti, G. B. Lezzi, G. D'Elia, ecc.); assapora, così, un po' tutto e a tutto si dispone. Legge e s'informa; valuta le richieste e dà giudizi; medita e incasella i dati. Lo scrive al D'Elia il 2 agosto 1782. "Nuovi libri, che escono giornalmente da' torchi, come i venti escono dalle caverne dei P. Eolo [ ... ]. Ma oggidì altro non si fa dagli autori e dagli stampatori se non un monopolio e una confusione, e solo si bada a far Dizionarii, Estratti, Spiriti, Essenze, Elementi, Istituzioni, Giornali et cet., a migliaia [ ... ]. La letteratura dunque è ridotta a un fanatismo di bibliomania, come direbbe un antiquario, cioè al desiderio di scriver molto e legger molto, ed intanto si penza poco o nulla" (13). Il caso di Astore non è però a sè (e si pensi almeno all'Arditi) e certo può far capire meglio le vie o le ragioni di talune presenze nelle Biblioteche del Salento e, ad esempio, in quelle dei Briganti o di Papadia o di Arditi (14). La varietà delle richieste e la provenienza diversa delle stesse possono, almeno in parte, dare un senso a certi giudizi disseminati dall'Astore lungo le opere e nelle lettere, ed anche una qualche ragione delle discordanze che compaiono non di rado. Rousseau, ad esempio, è presentato come "selvaggio e fanatico", "ciarlone", in quanto, contrariamente a quel che lui professa, "le scienze migliorano, perfezionano, rendono culto l'intelletto e il cuore di una persona ben nata, ben educata e ben formata dalla Natura" (15); ma Rousseau compare, ovunque a segno di lunga lettura, nella Filosofia dell'eloquenza e nei Dialoghi Elisiani (e qui accanto a Mably Genovesi Filangieri Montesquieu Ascanio e Clemente Filomarino). La diffusa riluttanza ad accettare Rousseau, nel Salento almeno, è da porsi in relazione all'umore e agli amori profondi e nutritissimi nelle scuole e nelle professioni per la storia e la letteratura del mondo antico e a quel rapporto di immediatezza, creatosi per istinto e abitudini, tra studi filosofici-letterari e natura. L'elogio della campagna e della vita rustica, ch'è un tema particolare nel secondo Settecento, percorre tutta l'opera di Astore (16) ma potrebbe anche allargarsi e coinvolgere, al di là dei disagi del provvisorio spesso lamentati, tutta la cultura salentina da Galateo a Corvaglia (17). Più temperato è invece il giudizio su Montesquieu, ch'è presente ovunque nelle opere e a lungo nella Filosofia dell'eloquenza (18). Scrivendo direttamente a D'Alembert l'8 agosto 1778 esalta in lui, associate a Voltaire e Diderot, "le Triumvirat de la Vérité, de la Raison, de la Philosophie; et la Nature, en vous donnant au Monte, a fait à l'Humanité le présent le plus précieux" (19). Ritorna l'elogio del concetto di "Natura", ch'è stato negato a Rousseau. In una lettera infine a G.B. Lezzi del 24 settembre 1785 tutto sembra andare alla deriva: la Storia, perché "è un chaos di errori e di delitti dell'umanità"; la Filosofia, perché è "un pelago di dolori, assurdità, incertezze"; la Letteratura, resa "superficiale", perché "annebbia l'Europa ragionevole". Non si vede scampo, se non nelle "grandi e belle speranze della religione", nelle "certezze della fede". E qui c'è da stare all'erta. "Un nembo di fanatici, inglesi e francesi supposti Filosofi, han voluto, per quanto era dal canto loro, strapparci dalle mani tali sacri libri e svellerci le lettere scritteci dall'Onnipotente Eterna Padre a noi suoi figli. Qual motivo vi è dunque di esser lieti in tali tempi, ne' quali il deismo e l'irreligione disonorano il secolo, e le scienze, e i Filosofi. I Letterati, che dovean medicare le piaghe dell'umanità co' farmaci della ragione e co' rimedi della religione, han corrotto l'uomo con l'empietà, collo scetticismo, per eterna vergogna del secolo 18°. Bisogna dunque piangere le disgrazie del genere umano, del secolo e dell'Europa" (20). Tutto è coinvolto in una generale condanna. Ma quanto è da attribuirsi alle ragioni del filosofo o al fastidio del letterato, scomodato nella sua fiducia e nelle abitudini? (21) Forse è difficile scindere l'uno dall'altro aspetto. Sembra tuttavia costante il fatto che egli scrivendo a letterati della sua terra e delle sue condizioni, tendo a mettere in rilievo soprattutto malumori e disinganni e ad evocare l'olimpo della pace e delle belle lettere. Entro questa tela intessuta s'inseriscono, con maggiore o minore avvedutezza, ma non sempre in armonia, taluni elementi genovesiani e vichiani (rinvio particolare alle Indic. esegetiche). Ai Genovesi e alla sua età, certo, può risalire .il concetto, secondo il quale per un "esatto sistema di legislazione" o di "agricoltura" non occorrono "metodi teoretici e generali, ma vuolci un ottimo agricoltore e un profondo filosofo legislatore [ ... ]. Manca spesso a' Filosofi la pratica esperienza dell'uomo sociale; e manca a molti legislatori la conoscenza teorica della Filosofia" (22). Al Vico risalgono molti temi come quelli sull'origine dell'epica o sull'infanzia dei popoli e soprattutto il concetto di Filosofia e Filologia "geminae ortae", da altri (avverte) non sempre bene intese. "Nel mio libro poi io, a dirla sinceramente, non riconosco verun preggio, fuorché quello del desiderio di giovare a' giovani filologi, facendo vedere i loro studii inseparabili da' filosofici e così cercando di giovare alla Filosofia colle dottrine filologiche e alla Filologia colle dottrine filosofiche, traile quali e la Filosofia taluni han voluto porre un lungo intervallo; eppure non vi è tale intervallo, giacchè la Filosofia regolando i penzieri e le idee, e la Filologia, insegnando il modo da esprimere tali idee, ed occupandosi circa i mezzi tutti, che abbracciano l'espressione dell'idee e penzieri, sono perciò inseparabili compagne" (23). Le idee di Genovesi e di Vico, le tracce dei filosofi e giusnaturalisti del tempo o i segni delle letture e degli studi storico-letterari, meditati a lungo o anche semplicemente assaporati, non vengono meno nell'opera più significativa di Astore: La filosofia dell'eloquenza o sia l'eloquenza della ragione (1783). Antichi e moderni, greci e latini, italiani francesi inglesi sono coinvolti dalla poesia alle scienze nel lungo testo, quasi sempre per diretta conoscenza (l'utilizzazione di enciclopedie e dizionari sembra assai ridotta a fronte di altri autori del tempo) e più specificamente: Vico, Condillac, Bayle e Montaigne, Locke e Pufendorf, Hume, Pope, Addison, Batteux, Helvetius, Montesquieu, Diderot, Voltaire, D'Alembert, Buffon, Muratori, Beccaria (24) e così via di seguito. Ovunque riassume idee e teorie, confuta (più spesso) o approva (qualvolta), discute: sempre egli è presente e al centro, in prima persona: gli appoggi, quando siano invocati, sono scelti tra i testi dei grandi, magari di poeti e oratori antichi: l'erudizione (e vi si ferma G. Gentile) (25), molta e varia, come si è detto, non ingorga (se mai, qualvolta, non si sottrae alla tentazione di porsi in mostra). L'opera parte da Napoli e giunge a Napoli nelle mani dei Filangieri, "del Sebeto il Platone", presentata da Filippo Briganti, che avvedutamente sottolinea, sì, l'erudizione, ma anche "i gran lumi di Filosofia, in una materia che si credeva esausta". Eccellenza Permette l'Ecc.za V.a che i miei caratteri vengono a raggiungerla, nel ritira delle sue delizie Filosofiche, per farle un presente degno di richiamar l'attenzione di un Genio Sublime e di un'anima sensibile? Il dono, questa volta, non è lavoro de' miei scarsi talenti, ma di un Letterato, che onora le scienze e le arti in cotesta metropoli, e che le comunica alle altre Nazioni con applauso non ordinario. D. Francesco Antonio Astore mio patriota ha dato alla luce la Filosofia dell'eloquenza in due tomi in 8° e sarebbe venuto di persona a presentarne una copia all'Ecc.a V.a, se la sua dimora nella Cava e le di lui domestiche occupazioni non li vietassero di esibir colla propria mano il suo dono. Or ciò che non può adempir la suo mano, eseguisce la mia penna, supplicandola di leggere, di gradire e di proteggere il libro ed il dotto Autore, che ha versato torrenti di erudizione e vibrati gran lumi di Filosofia, in una Materia, che si credeva esausta. Compatirò l'Ecc. a la libertà che mi prendo di farmi onore delle fattighe altrui, e si degnerò, in retribuzione di questa indiscretezza, onorarmi colla frequenza de' suoi venerati comandi, col vivo desiderio de' quali m'inchino al b[acio] della m[ano]. Gallipoli le 18 7.bre 1783 Di V.a Ecc.a Div.mo serv.e V.o obb.mo ed osseq.mo Filippo Briganti (26). L'opera si dispone con un centro, largamente genovesiano: l'attenzione all'uomo, quello ch'è e quello che dovrebbe essere, nel concreto della sua realtà, non nei sogni dell'immaginazione. Ne fissa il concetto nella Prefazione ("Non abbiamo avuti, né abbiamo per veri savj, se non coloro che han cercato di migliorar l'uomo in rapporto alla sua temporale ed eterna felicità" (27) e lo riprende un po' ovunque nel testo e nelle lettere di quegli anni collegandolo alle ragioni e allo spirito dell'"eloquenza" (28). Il fine è nel "migliorare noi stessi e gli altri" (29). L'obiettivo è rivolto all'"utile", perché "si è molto pensato, si è molto discusso e pure non si è molto giovato all'Uomo" (30): contro lo "scrivere libri e trattati di educazione, Emilii, Contratti sociali e volere sconvolgere e diroccare le basi più salde dell'umana felicità" si esaltano "le scienze, le arti, i libri, la religione, la società, le città capitali, la cultura" (31). La polemica contro Rousseau mette in luce, per contrasto, il precipuo carattere della civilità meridionale, che si estende dal culto delle origini patrie alla forza della tradizione latino-mediterranea, dal convincimento delle ragioni morali alla esaltazione delle capacità. Non v'è forse in Astore un'intelligenza piena dei principi sociali nel grande e continuo elogio delle virtù religiose; ma v'è certo un'apertura incondizionata alle doti di senso e di ragione, che l'uomo deve comunque possedere se vuoi essere artefice di storia. Nè della società, pur conoscendone tutti i testi da Pufendorf a Montesquieu e utilizzandoli, delinea in concreto le strutture e l'organizzazione. Il ricorso a poeti e letterati di gran nome, che in questo contesto egli fa, precisa proprio che la fondamentale vocazione di Astore è per gli studi di letteratura e di storia delle idee. E qui si colgono alcune felici intenzioni, dentro il clima genovesiano, che faranno strada nella storia della dottrina estetica, come la rivendicazione dell'originalità dell'arte contro il concetto di "imitazione" del Cinquecento o il ricupero contro il concetto dei nomi di deità antiche nel loro valore di "idee generiche, astratte e metafisiche", o ancora il giudizioso rispetto della retorica contro il mai uso del tempo (32). Lungo questo complesso e suggestivo cammino, egli trova la porta d'ingresso (e non secondaria) dell'illuminismo (33). In definitiva si ribadisce il concetto che la cultura salentina, entro la vasta vicenda dell'illuminismo napoletano, non assurge mai a stadi di rottura, ma percorre tratti mediani accordando, ad un tempo, il rispetto alle tradizioni e agli usi religiosi (34) con la minuto e lucida attenzione al progresso scientifico e filosofico. Così è per Tommaso e Filippo Briganti, Giovan Battista Gagliardi, Ignazio Falconieri e gli altri; così per Giuseppe Palmieri, anche se con incidenze diverse e, soprattutto, con più diritto e personale ripensamento della lezione della realtà. La segreta lezione delle cose e l'ardore delle idee, c he permeano La filosofia dell'eloquenza (e per il titolo cfr. indicazioni esegetiche, n. 28), germogliano e rinvigoriscono decisamente nelle ultime e conclusive opere (1799): la traduzione e il commento al testo dell'abate Mably, un vecchio amore dell'Astore (35), De' dritti e de' doveri, e Catechismo repubblicano. Scompaiono, naturalmente, le soste letterarie ed erudite, il ricorso spesso dilettantistica mente suggestivo di filosofia, diritto, scienze ed arti e, in primo luogo, la sostenuta e dichiarata professione di fede e di lealismo istituzionale. Le parole possono anche essere le stesse; ma, dentro, attingono a una diverso sostanza. "Religione, ragione, patria, libertà, giustizia", proprio come nella premessa alla traduzione dei Mably (36), hanno ben altro spessore e significano una realtà calata profondamente nella "cronaca". Il "tiranno", ch'era nella storia del passato, come vicenda nefasta posta all'origine di lutti e sciagure e come lezione negativa sul piano morale, ora ha un volto suo, si muove nella realtà, lo si fronteggia per smascherarlo: si registra così, nell'età di Alfieri, l'urto tra il "tiranno" e il "popolo". E allora penetrano, accanto ai vecchi testi (Wolff, Pufendorf, Grazia, Pope, ecc.), altri, vecchi o nuovi che siano, con nuovo volto: Voltaire, la Rivoluzione Francese e così via. E di Voltaire riporta ad effigie del Catechismo repubblicano l'espressione dal Discours III sur l'Homme: "Si l'Homme est créé Libre, il doit se gouverner. Si l'Homme a des Tyrans, il les doit détronner". il titolo parte da Voltaire (37), ma èassunto da Rousseau, Catechismo del cittadino (1755). La stessa dedica ("AI cittadino Mario Pagano, rappresentante del Governo provvisorio della Repubblica napoletana") a fronte di quella de La filosofia dell'Eloquenza (a Papa Pio VI) ne sottolinea i contenuti. Intanto alla prima domanda "Cosè l'Uomo?" si risponde aristotelicamente: "un animale ragionevole"; alla seconda "Da chi è stato creato?" "Da Dio Ottimo Massimo". E al più genuino fondo settecentesco si attinge nel considerare "la libertà inseparabile dalla natura umana" (38). Di qui provengono gli "stati" dell'uomo: il naturale, "in cui L'Uomo godea l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza", e il sociale, che stabilisce "l'unione dell'Uomo in Società semplice o composta" (39): entrambi costitutivi del "patto o contratto sociale" (40). L'intervento - aggressione del tiranno pone "un denso velo per ingannare l'uomo" e provocarlo "a combattere contro se stesso" (41). A questo punto èbene che il popolo sorga e impari "a conoscere i suoi dritti datigli da Dio" (42). Filosofi francesi e Francia (Rivoluzione Francese) divengono modelli in assoluto (43). Non v'è dubbio che i testi prima discussi, come Voltaire e Rousseau soprattutto, divengono ora matrice feconda di idee o suggestioni nuove. Né a schermarle può servire la Guida scientifica (1791) ch'è lungo il cammino; né, meno che mai, L'eroismo delle Sicilie. Eiresione poetica (1796): l'una in lode della religione e l'altra in esaltazione di Ferdinando IV, il "Gran Re, che a grand'imprese hai l'alma avvezza!" (44). La realtà politica di quei mesi (a cui, forse, può aver dato qualche impulso la situazione familiare che dal pieno benessere va precipitando in un temuto dissesto economico; ma non ne calcherei le ragioni) scuote profondamente l'Astore. Il concetto dell'uomo, a cui punto tutta la sostanza del suo pensiero, rinasce in Astore più vigoroso. I libri lo hanno prima educato: la realtà, dopo, gli propone un modello vivo palpitante e insostituibile: ed egli lo fa proprio. Non mette da parte la religione da cui pur sempre discende l'uomo e che mai gli si presenta oppressiva (45): mette da parte l'oppressore "politico" dell'uomo (e lì, in quella realtà, non può che essere il monarca). Si passa dalla letteratura alla vita; ma, nella sostanza più profonda, non cambia l'idea centrale, che è alla base della meditazione sull'origine e sul destino dell'umanità. E' l'anello, all'interno del pensiero, che dà ragione e congiunge La filosofia dell'eloquenza e il Catechismo repubblicano. Ed anche quando l'ossequio alla dinastia è aperto e senza infingimenti, esso sempre si configura come tributo alla regalità e alla dignità della carica e del senso universale che essa ancora rappresenta, non mai segno di esaltazione encomiastica e irrazionale o di cieca sudditanza al potere. E' un atteggiamento di fierezza che si irradia dalla matrice stessa, morale e culturale, di tutto il Sud, e che intende confermare i valori costitutivi della civiltà. Filippo Briganti e Ignazio Falconieri (46), come Astore, pur per vie diverse, si ritrovano integri in questo tema.
NOTA BIBLIOGRAFICA |
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