La creazione del
Sistema Monetario Europeo, avvenuta nel 1979, ha risposto a due esigenze
fondamentali:
1) arginare la dissoluzione del Mercato Comune, agricolo e industriale,
alimentata dal disordine monetario;
2) orientare le politiche economiche nazionali verso obiettivi convergenti,
ristabilendo il vincolo di una maggiore stabilità monetaria.
Le misure adottate hanno consentito di interrompere il trend involutivo
della Comunità, segnando un punto di svolta e un primo importante
passo verso l'obiettivo dell'unione monetaria. Lo Sme è riuscito
a svolgere questa funzione, nonostante alcuni gravi limiti strutturali
dell'accordo, che in effetti hanno portato negli ultimi quattro anni
a una serie di crisi monetarie.
Il punto di forza dello Sme è apparso fin dall'inizio più
politico che economico. Esso va identificato nella congiunzione tra
avvio dello Sme e prima elezione europea. Nel contesto politico creato
dalle elezioni europee è sempre più difficile tornare
indietro, anche se resta arduo avanzare.
In questo modo di comprende perchè i fondatori dello Sme abbiamo
potuto prevedere la creazione di istituzioni monetarie europee, dotate
di un ambito di autonomia funzionale. Ciò pone in gioco non la
semplice cooperazione monetaria intergovernativa, secondo le linee già
sperimentate dal piano Werner, ma una strategia di unificazione monetaria.
Per quanto limitata sia tuttora la rilevanza delle istituzioni monetarie
europee, vale il fatto che gli Stati membri si siano posti concretamente
sulla strada dell'istituzione della Banca Centrale europea e della moneta
europea.
A fianco di questo punto di forza dello Sme permangono peraltro i gravi
limiti dell'accordo. I fondatori dello Sme non hanno avuto il coraggio
di andare oltre lo stadio che possiamo definire - utilizzando una dizione
di Corden - della "pseudo-unione monetaria", cioè un
dispositivo internazionale nel quale convivono monete nazionali.
Un sistema del genere è vulnerabile perchè si fonda ancora
sulla disponibilità a cooperare delle politiche nazionali; esso
non può garantire nè una politica unitaria nei confronti
del resto del mondo (verso il dollaro), nè l'adozione a livello
nazionale di misure coerenti con gli obiettivi perseguiti a livello
europeo.
Lo Sme è nato come una creatura dinamica: il progresso dell'unificazione
politica può sorreggere il suo rafforzamento, ma ove ciò
non avvenga, esso è destinato fatalmente a regredire. L'ennesimo
riallineamento monetario indica che probabilmente siamo giunti alla
soglia di una svolta. Si tratta di scegliere fra due alternative:
1) procedere effettivamente sulla strada dell'unione economico-monetaria;
2) rinunciare, di fatto, allo Sme, mantenendo in essere una forma qualunque
di cooperazione monetaria.
La funzione svolta dallo Sme, così come ci è stato consegnato
dagli accordi di Bruxelles, sembra ormai esaurita. Fino a quando il
problema cruciale è stato quella della difesa del grado di integrazione
raggiunto, il Sistema si è dimostrato una soluzione adeguata;
oggi, appare evidente la sua incapacità a sostenere il necessario
progresso dell'integrazione, cioè la transizione dalla "integrazione
negativa" alla "integrazione positiva".
L'alternativa alla crisi è chiara, e lo era fin dall'inizio.
La decisione in discussione è la realizzazione o meno della seconda
fase dello Sme. Elementi costitutivi essenziali dell'unione economico-monetaria
sono:
1) la creazione del Fondo Monetario Europeo, cioè dell'istituzione
responsabile di gestire la moneta europea e la funzionalità del
mercato europeo di capitali;
2) il varo delle politiche comuni, adeguate alla natura e alla dimensione
dei problemi della società europea.
Va ricordato come il rapporto Me Dougall abbia precisato che la dimensione
minima del bilancio CEE debba essere a questo fine portata al 2,5% del
prodotto interno lordo europeo.
Da un punto di vista politico-istituzionale, si tratta di trasferire
la sovranità monetaria dalle mani dei Governi nazionali a quelle
del Governo europeo. L'istituzione e il ruolo del Fondo Monetario Europeo
costituiscono il punto cardine per giustificare quale opzione è
stata compiuta.
Una volta ancora, come per l'avvio del Sistema, è il contesto
politico generale a determinare le chances di successo del Fondo Monetario
Europeo. Lo sviluppo dello Sme verso il Fondo Monetario Europeo si inquadra
nel processo costituente, oggi sviluppato dal Parlamento europeo e che
sarà sottoposto al voto degli europei nel 1984.
Il nesso tra io sviluppo dello Sme e il progresso del processo costituente
europeo è duplice. La creazione del Fondo Monetario Europeo non
può essere progettata in assenza di un rafforzamento delle istituzioni
europee nel senso del Governo europeo. A propria volta, è illusorio
progettare il progresso del processo costituente, se nel contempo non
si compiono reali progressi sul terreno dell'integrazione economica.
Entrambi i progetti, infine, possono essere rafforzati dall'adozione
di misure immediate che rafforzino lo Sme, e con ciò dimostrino
la capacità della Comunità e la volontà dei Paesi
membri di far prevalere gli interessi comuni su quelli nazionali.
Gli avvenimenti degli ultimi mesi confermano il carattere contraddittorio
dello Sme. Esso si è dimostrato sufficientemente solido per reggere
l'urto della crisi, e al tempo stesso tanto fragile da correre rischi
di involuzione gravissimi. Questi fatti confermano come lo Sme si stia
approssimando a un punto di svolta, o nel senso dello sviluppo o in
quello della crisi. Un sistema quale oggi esiste non può durare
a lungo. Esso regge fino a quando le economie nazionali si sviluppano
con un certo parallelismo; ma è sufficiente un segnale di ripresa
in Germania Federale perchè il marco tenda a sfondare il tetto,
o un segnale di crisi in un Paese debole perchè la moneta di
quest'ultimo tenda ad uscire dal Sistema. E quando sono delle elezioni
politiche a porre in crisi il Sistema monetario, non è nemmeno
più lecito addurre cause "reali" come spiegazione di
crisi "monetarie": si tratta solo di prendere atto della inadeguatezza
delle soluzioni monetarie istituzionali.
La cronaca degli ultimi avvenimenti pone in evidenza le responsabilità
nazionali della crisi europea. Spicca in primo luogo il ruolo non positivo
svolto dal nostro Paese.
Gli accordi istitutivi dello Sme hanno lasciato all'Italia il privilegio
di una banda di fluttuazione del 6%. L'incapacità del Paese di
realizzatore un risanamento interno, che consenta di rientrare in limiti
di fluttuazione normali, ha alimentato il tentativo di altri partners
di estendere il privilegio: ove il disegno si fosse realizzato, esso
avrebbe segnato la regressione dello Sme ad un tenue accordo di cooperazione
monetaria.
Il rafforzamento dello Sme può essere progettato solo a condizione
di essere sostenuto dall'adozione, a livello nazionale, di misure coerenti
orientate verso gli obiettivi europei comuni. Questo è vero in
primo luogo per il nostro Paese, che tende più d'ogni altro a
"deviare" dagli orientamenti europei. E, considerando il nostro
Paese, emerge il duplice nesso fra lo Sme e le politiche nazionali:
una politica nazionale di risanamento ha per l'Italia il valore di contributo
alla costruzione dell'unione monetaria, mentre al tempo stesso l'avanzamento
dell'unificazione monetaria è la condizione per rafforzare la
posizione di quanti si battono per il risanamento del Paese. Questo
nesso sempre più inscindibile fra scelte nazionali e scelte europee
vale per tutti i Paesi europei, anche se evidentemente assume forme
diverse, in funzione della "posizione di partenza" dei singoli
Stati.
Il fatto è che l'Italia è oggi di fronte a una svolta.
Li crocevia è fra la rassegnazione a convivere con l'inflazione
e la volontà di liberarsi dalle difficoltà attuali, orientandosi
verso modelli di sviluppo industriale avanzato, effettuando una decisa
scelta europea.
Nella crisi conclusasi qualche mese fa, l'Italia ha scelto di inserirsi
nelle tensioni dello Sme, svalutando la lira. Questa opzione ha comportato
la rinuncia a un ruolo di iniziativa a livello europeo ed esprime, secondo
alcuni, la mancanza di necessario rigore nella gestione della politica
economica.
Da marzo scorso, gli occhi dei mercati economici e finanziari guardano
a Ovest, al grande fratello americano: per capire che c'è di
nuovo sul fronte occidentale del rapporto lira-dollaro, dopo il faticoso
accordo tra le monete europee. Ci si chiederà: che cosa c'entra,
ora, l'America? non era a Bruxelles che ci si accapigliava? non è
stata la rissa tra francesi e tedeschi a frastornare la vigilia della
primavera? non è stata la minaccia della Francia di uscire dallo
Sme ad avvelenarci i malinconici giorni della morte di Umberto, "re
di maggio"? Certo, è stato il corpo a corpo franco-marco
a determinare tutto questo. Ma l'America c'entra sempre. Perciò,
sarà il rapporto lira-dollaro a dare il ritmo e il tono a tutta
la manovra. Le conseguenze economiche del "riallineamento"
tra le monete europee sono, del resto, abbastanza prevedibili; e i risultati
delle trattative di Bruxelles - che, giova ripeterlo, si sono incanaglite
per ragioni politiche - non fanno che prendere atto delle profonde differenze
tra le economie dei Paesi aderenti allo Sme.
Poche cifre bastano a fornire il quadro: l'inflazione in Germania viaggia
intorno al 4%; in Francia supera il 10%. I tedeschi hanno chiuso l'82
con un attivo di circa 3,4 miliardi di dollari nei conti commerciali
con l'estero, mentre i francesi nell'83 si avviano a un bilancio in
rosso per la cifra record di oltre 14 miliardi di dollari. Noi siamo
i più derelitti, i nostri prezzi seguitano a crescere quattro
volte più che in Germania e i conti con l'estero, per quanto
migliorati rispetto all'81, sono sempre in deficit pesante. Con queste
performances a far da quinte di teatro, è inevitabile che le
monete subiscano periodici cambiamenti nei valori relativi.
Conclusione: chi compra merci dalla Germania le pagherà un pò
di più; quanto, sarà il mercato a stabilirlo. Ministri
e Governatori hanno solo modificato i margini minimi e massimi entro
i quali le monete del Sistema potranno oscillare: hanno "spostato
le corde del ring" valutario, come ha detto il Governatore della
Banca d'Italia. Il rapporto lira-marco, così, fluttuera tra le
589 e le 664 lire, con un tasso centrale di 626 lire. Come risultato,
dovrebbero diminuire le nostre importazioni dalla Germania, mentre le
esportazioni avrebbero qualche beneficio.
E non sarebbe male: l'anno scorso, infatti, i nostri conti con i tedeschi
si sono chiusi con circa 3.300 miliardi di deficit: il passivo più
forte dopo quello con l'Arabia Saudita, dalla quale, però, compriamo
petrolio. Sarà, invece, più arduo mantenere il saldo '82
con la Francia, uno dei pochi Paesi con i quali siamo in attivo, per
circa 700 miliardi. Dopo i provvedimenti di austerità presi nel
giugno dell'anno scorso e quelli di fine marzo '83, i francesi sono
in rimonta, hanno meno inflazione di noi e stanno guadagnando in competitività.
Ma sarà il caro-dollaro a orchestrare tutto. Circa il 50% delle
nostre importazioni, infatti, è pagato in dollari. Se terremo
il cambio con la moneta americana o se lo peggioreremo di poco, potremo
allora avvantaggiarci per via del ribasso del petrolio. Se il mercato,
invece, sanzionerà una svalutazione netta, il petrolio calerà
per gli altri, ma non per noi. E imbarcheremo altra inflazione.

Fissate le nuove parità all'interno dello Sme, l'incubo di una
crisi monetaria senza sbocco è stato quanto meno allontanato.
Il "riallineamento", questa volta, è stato ampio, ha
coinvolto tutte le monete Sme. Ma per comprendere che cosa è
successo, per stimare (con un certo realismo) che cosa succederà
alla lira, è bene ripercorrere le vicende che hanno preceduto
il "rialIineamento" e tener conto (il ragionamento è
solo in apparenza tecnico) che il tasso di riferimento centrale fissato
a Bruxelles non è il tasso di svalutazione della moneta nazionale.
I fatti, dunque. Mentre i mercati valutari europei erano in tensione,
con il marco in salita dopo le elezioni politiche e il franco francese
oggetto di speculazione, fra il primo e il secondo round delle elezioni
amministrative in Francia, la lira manteneva le posizioni. Veniva pilotata
con elasticità dalla Banca Centrale, che evitava interventi troppo
massicci a sostegno, così come cadute di tensione. La navigazione
della lira era abilmente tenuta ai margini della tempesta.
Qualche dato. Le Banche Centrali, si sa, intervengono con le riserve
per sostenere le rispettive monete quando lo giudicano necessario. Nei
quindici giorni precedenti il "riallineamento", le perdite
delle riserve italiane per sostenere la lira erano state pari a un decimo
delle perdite contabilizzate dalla Banca di Francia. La quale, inoltre,
aveva spinto le banche di quel Paese a indebitarsi sull'estero per sostenere
il franco.
Le quotazioni registravano fedelmente questa situazione. Lunedì
14 marzo, dopo il secondo round elettorale francese, il franco recuperava
punti. La lira scendeva. Ma quello del franco era un recupero fittizio
rispetto al marco. La lira restava fuori dalle perturbazioni, evitava
di essere coinvolta nella speculazione.
La Banca d'Italia, nel contempo, teneva stretta la liquidità
interna del sistema. Prosciugava tutte le possibili sacche di liquidità.
Le tesorerie delle banche erano messe a dura prova. Ma il risultato
era destinato a corrispondere ai sacrifici. La lira chiudeva la parentesi
della crisi valutaria di marzo con uno spostamento della parità
che era proporzionale a quello registrato nel frattempo dal mercato.
In ultima analisi, possiamo dirci soddisfatti. I conti a consuntivo
tornano. Ma tornano i conti dell'oggi. Restano pesanti, densi di incognite,
i conti sul domani. Il differenziale d'inflazione fra l'Italia e gli
altri Paesi europei (anche fra l'Italia e la Francia) rimane alto, sproporzionato.
La spesa pubblica continua a correre senza freno. I nodi strutturali,
che rendono debole la nostra economia, sono sempre presenti nel sistema.
Il "riallineamento" come sempre avviene, taglia le punte;
riequilibra gli aspetti più distorti. Dà un poco di respiro
alle imprese. Ma non risolve i problemi. Nel corso del 1982, il nostro
interscambio commerciale con la RFT è peggiorato dell'8%; del
6% con l'Olanda. Le rivalutazioni del marco e del fiorino forniscono
al "Made in Italy" un certo respiro; costituiscono, per le
imprese che esportano in quei mercati, un aiuto. Che peraltro viene
rapidamente vanificato in assenza di scelte strutturali di politica
economica e di quelle correzioni di rotta che da tempo vengono sollecitate
e che, sole, possono ridurre il differenziale inflazionistico fra l'Italia
(intorno al 16%) e la Germania.
Con queste due parità, la lira affronterà i prossimi mesi.
Affronterà soprattutto la nuova situazione economica che si delinea,
e che dovrebbe caratterizzarsi con i segni più marcati di una
ripresa trascinata dagli Stati Uniti e dalla RFT. La discesa dei tassi
d'interesse e il ripiegamento dei prezzi del petrolio costituiscono
fattori di pungolo nella giusta direzione. Ma questa ripresa, se deve
diventare una "occasione" per l'Italia, impone che al pilotaggio
monetario, per quanto abile e sofisticato, si affianchi un altrettanto
valido pilotaggio di politica economica. E' questo l'appuntamento che
attende il "sistema Italia". Un appuntamento che è
stato finora disatteso.

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