Non ha mai avuto
vita facile. Come "grido sulla parete", è stato considerato,
di volta in volta, mezzo espressivo, comunicazione estetica, messaggio
accattivante, portavoce ideologico, documento di storia e di costume.
li manifesto murale riflette da sé, una vasta raggiera di interpretazioni,
combinate ad un uso e consumo semplicemente propagandistico di apparente
e limitato rilievo.
Il manifesto nasce per il tessuto connettivo urbano, è destinato
a coprire e legittimare uno spazio vuoto e inconcludente: ma la sua
definizione, al di là delle certezze su contenuti e forme, è
precaria e contingente. Sfugge ad ogni presa di coscienza che non sia
appunto relativa alle circostanze immediate e occasionali e, pur essendo
essenziale e funzionale alla realtà esterna, la sua presenza
passa inosservata.
Come categoria estetica del nostro secolo, l'affisso, o manifesto, ripete
il destino delle cose adattate alle necessità commerciali e speculative,
mutate da esperienze, soprattutto artistiche, profondamente diverse:
con l'acculturazione di massa, la pittura da camera è diventata
da strada e il quadro affisso pubblicitario. Ma la mutazione è
andata ben oltre, sovrapponendo l'idea pubblicitaria a quella artistica
e canalizzando contorni, colori e geometrie nell'intensità primaria
dell'appello visivo.
L'arte, quindi, sacrificata al punto che l'affisso "è un
foglio con figure e scritte vistose, ripetuto all'infinito sui muri
della città: frettolosamente attaccato di notte, presto si ritrova,
sgorbiato, lacerato, ricoperto. Pittura superficiale ed effimera, vuoi
essere veduta senza esser guardata, le basta deporre il suo futile messaggio
nei bassifondi della memoria di chi, passando, l'affera con la coda
dell'occhio e non ci fa caso. Al momento giusto, per la sua stessa leggerezza
di sughero, riaffiorerà e produrrà il suo effetto"(1).
Il manifesto, come discreto consigliere, con le sue metafore e sottintesi:
un riferimento, convenzionale e spregiudicato, di aspirazioni, di sogni,
di illusioni, di idealità e di miti "confinati" di
una comunità civile in un certo momento e in un certo luogo della
sua storia. La prospettiva critica è ora rovesciata. L'idea pubblicitaria,
nonostante la sua provvisorietà, crea un sistema di assorbimento
in cui i valori della comunicazione definiscono uno stile e un progetto
di vita, tanto che "le sedi dove si rappresenta la cultura non
sono i musei, le gallerie private o altri luoghi analoghi; sedi deputale
non ci sono: è la città come metafora del nostro vivere
comunitario lo spazio di ogni intervento.
L'importanza dei testi nasce non dal destinatario, ma dalla coerenza
interna e dalla funzione che essi sono in grado di conquistarsi nei
confronti del pubblico" (2).
Due compiti particolarmente delicati - traduzione di un contenuto artistico
originale nel linguaggio dell'effimero e trasposizione del messaggio
visualizzato nell'urbano - riconducibili ad una stessa matrice etimologica
che vuole il manifesto accompagnatore fedele ed interprete di una scelta
e del suo definitivo orientamento (3).
Il manifesto, come funzione del linguaggio-messaggio, è nato
con le (e dalle) prime forme di aggregazione civile dotate di un supporto
politico-commerciale.
Se Pompei conobbe e strumentalizzò il graffito murale, di derivazione
sacra, in prospettiva propagandistica (4), Roma imperiale consacrò
il manifesto, elevandolo a unico e solo interprete della volontà
politica del Senatus (5). Nel primo e nel secondo caso, il graffito,
o avviso, è ancora soggetto alle forme e ai contenuti dell'imperatività
religiosa e statuale: la pubblicità è sempre vischiosamente
vincolata al singolo fatto o avvenimento; non ha un riferimento strutturale
con la realtà circostante. Il manifesto è fine a se stesso,
vive di automazione, è destinato a morire per autoconsunzione,
o per il venir meno della situazione che lo ha "provocato".
Non crea, in pratica, un genere né tanto meno una categoria.


La stessa impostazione "pubblicitaria" troviamo fino al XV
secolo. L'avviso murale è un "genus" ibrido e differenziato
che risente ancora della concorrenza di banditori e araldi (6). Stampare
un manifesto si traduce in una operazione economica dispendiosa e poco
redditizia, vista l'impossibilità di procedere a riproduzioni
in serie dello stesso avviso.
La svolta radicale si ha sol o con l'introduzione dell'uso della carta,
importata dall'Oriente nel XII e XIII secolo, e con i caratteri mobili,
quindi scomponibili, del Gutemberg.
La carta offre maggiore garanzia e convenienza delle pergamene ricavate
dal cuoio degli animali. E' più manegevole e duttile, costa poco
e si ottiene con processi ridotti di lavorazione.
Nascono così le prime carte da gioco (con l'ausilio della xilografia),
i manifesti satirici, i bollettini commerciali e i calendari, nonchè
gli avvisi delle botteghe e i fogli volanti.
Il risultato, in prospettiva meno immediata, è interessante perchè
si giunge "alla sostituzione nell'uomo "tipografico"
di una percezione visiva al posto di quella sensitiva dell'uomo "manoscritto",
all'affermazione della lettura silenziosa al posto di quella ad alta
voce; ad un processo di omogeneizzazione degli schemi mentali e degli
strumenti culturali imposto dalla stampa, con la creazione di un vero
e proprio 'pubblico'" (7).
Il successo del nuovo strumento di comunicazione arriva solo, però,
con la rivoluzione francese, in una Parigi tappezzata da manifesti e
avvisi politici, bandi di cattura, denunce scritte e anonime. Siamo
ancora, è vero, nel campo del soggettivo, sulla scia dello slogan
(analogo fenomeno durante le contestazioni studentesche del 1968 in
Europa, e la crisi del 1978 in Italia: "Uno, cento, mille Moro")
e della immediatezza. L'avviso conserva la matrice ideale del graffito
e non si presta ad essere generalizzato come fenomeno costante e duraturo.
Lo sarà inevitabilmente solo dal XIX secolo, con l'invenzione
della litografia e della cromolitografia: il manifesto tende ad ingrandire
le proprie dimensioni, i colori sostituiscono la piattezza del bianco-nero,
le figure e le immagini predominano sul testo. E' finalmente, icona.
La rivoluzione industriale prima, e la tendenza ad assumere la spinta
consumistica come parametro di crescita e di evoluzione sociale poi,
lo imporranno definitivamente come merce e prodotto, facendo del '900
il secolo dell'immagine".


Per la sua stessa frammentarietà, il manifesto non è suscettibile
di una catalogazione formale che lo inquadri, oggettivizzandolo, in
uno schema piuttosto che in un altro. La varietà dei generi spiega
l'impossibilità dell'operazione: manifesto politico, commerciale,
culturale, religioso, propagandistico... Tentare di raggrupparli, secondo
i contenuti, la forma o le prospettive sostanziali del messaggio riportato
significherebbe frantumare un discorso, anche storico, che va visto
soprattutto nella sua sintesi figurativa.
Si può, comunque, tentare un accostamento parziale, seguendo
la trama di un riferimento (o più riferimenti) geografico e culturale
che evidenzi J'evoluzione nel tempo.
In tal senso, il "Museo del Manifesto", ideato da Rocco Coronese,
a Parabita, con il compito di catalogare l'opera creativa restituendola
all'esterno, al pubblico, cioè, nella su uniformità di
fatto di costume.
L'iniziativa, non di poco conto, se valutiamo l'incidenza degli Istituti
d'Arte e delle Accademie di Belle Arti disseminate nella provincia di
Lecce e la novità di un luogo di "immagini", unico
e solo nel suo genere in tutta Italia.
Nel "Museo" è ricostruita, ancora parzialmente, la
storia della manifestistica, ufficiale e non, di questo secolo.
Il manifesto, o quindi, come lettura popolare e come messaggio culturale
dal "destino popolare". Ma è anche raccolta di lavori
firmati da Steinlen, Cappiello, Seneca, Cassandre, Depero, Picasso,
Dudovich, fino agli autori moderni: Testa, Tovaglia, Ruffolo, Lenica.
Due pertanto, le chiavi di lettura. Il manifesto, o l'"affiche",
come creazione artistica che evidenzia l'autore e la sua professionalità
(lo stesso Matisse si cimentò nella grafica pubblicitaria, Joan
Mirò ha disegnato il manifesto ufficiale per i Mondiali di Calcio
in Spagna); il manifesto come "favola", o racconto, che deve
essere ricostruito morfologicamente e restituito, in un secondo momento,
nella sua struttura. Nel primo caso, il manifesto sarà una variabile
che incide sui significati esplicativi del prodotto; nel secondo, combinandosi
alle arti "minori" e ai gusti del pubblico, fungerà
da cerniera tra i vari piani della comunicazione, permeabilizzando strati
culturali e orientamenti individuali.
Il "Museo" di Parabita nella sua sostanziale uniformità,
si presenta, quindi, come una fabula da decodificare e disaggregare,
riportando le componenti unitarie alla situazione, o fatto evidenziato
ed evidenziabile, che ha motivato il manifesto.


Tale metodo di ricerca è possibile (e necessario), per esempio;
nel terreno del manifesto politico. Non solo per la locandina politico-elettorale,
che è di facile lettura perchè contiene, già risolti,
gli schemi e gli indirizzi di un programma o di una iniziativa di partito,
ma anche per tutti quei manifesti, soprattutto dall'Est europeo, che
nel. simbolo - nell'icona - rappresentano un intero sistema di vita
e una concessione politica della società.
La reinterpretazione significa, in pratica, assorbire non solo l'idea
del prodotto, ma tutto un genus culturale che è il punto di partenza
e il punto di arrivo del messaggio pubblicitario.
Pensiamo, per un momento, a frasi e concetti che, per trasposizione,
sono oggi bagaglio del linguaggio giovanile. Se il Maggio francese ha
lanciato slogan e graffiti che resistono all'usura del tempo ("La
trasparenza non funziona più") e i movimenti presessantotteschi
italiani frasi, di derivazione alessandrina o da Antologia Palatina,
che hanno ispirato scrittori e registi cinematografici ("La mamma
è buona, mangiala prima che si raffreddi"), i ragazzi di
oggi, giovani e meno giovani, dispongono di un moderno, forse irrazionale,
vocabolario consigliato dalla cultura del manifesto ("chi non mangia
la Golia ... "; "Liscia, gassata, o Ferrarelle" ... ).
Il manifesto, dunque, impone una moda, non solo nel sistema dei consumi
e della vendita di un prodotto, ma anche nel linguaggio alternativo
a quello ufficiale. Un linguaggio nel linguaggio, con la sovrapposizione
di due spinte culturali: una sostanzialmente conservatrice e ancorata
ai modelli generali dei supporti e delle strutture capitalistiche; l'altra,
proiettata al recupero di un codice di comunicazione più immediato
e spontaneo. Ma non spicca solo la diversità linguistica. Il
manifesto ha aperto le porte alla cultura popolare, o di dominio popolare,
cosa che in altri tempi sarebbe stata impensabile. Se gli Anni Trenta
lanciarono il manifesto della bicicletta "autarchica" o dell'"Ardita
Fiat", nel quale l'immagine commentava da sola il prodotto (e la
sua genesi morfologica), oggi si fa ricorso a personaggi che hanno fatto
storia, imponendo un costume', da Mussolini a Garibaldi, da Napoleone
alla Gioconda leonardesca, per citare solo alcuni dei personaggi che
attualmente spiegano e decifrano il messaggio.
Il manifesto, in definitiva, come un libro aperto e uno spettacolo che
avrà maggiore o minore successo di "vendita" in rapporto
al gusto del pubblico (moda del momento) e alla disponibilità
dello stesso a lasciarsi coinvolgere, quasi ludicamente, nel percorso
produzione-consumo. Solo a questo punto, il messaggio da manifesto diventa
simbolo, il simbolo cultura (collettivizzata) e la cultura sistema di
trasmissione e di ricezione del messaggio idealizzato.
NOTE
1) Giulio Carlo Argan, "Tanto di Cappiello", in L'Espresso,
26 luglio 1981, p. 87.
2) Arturo Carlo Quintavalle, in Panorama, 13 luglio 1981, p. 22
3) "Manifestus" = "preso per mano"; per est. "preso
sul fatto". Giacomo Devoto, Avviamento alla etimologia italiana,
Milano 1979. Voce Manifesto.
4) Gli esempi sono numerosi. Fatta eccezione per una colonna ricoperta
da strati sovrapposti di papiri, scoperta a Ercolano nel 1897, la forma
più usuale di comunicazione è data dai graffiti di questo
tipo:
- "Vicini", votate alla magistratura Lucio Stazio Recetto
perchè lo merita. La scritta è del vostro vicino Emilio
Celere. L'invidioso che cancella possa stare male!", di stampo
elettorale; oppure:
- "Mercurio qui vi offre il guadagno, Apollo la salute e l'oste
Settimiano il vitto e l'alloggio. Chi verrà si troverà
bene. Viaggiatore, stai attento a dove vai", dedicata ai commessi
di viaggio e rappresentanti di commercio.
Non manca l'annuncio estemporaneo. Amoroso: "Buongiorno, Vittoria,
ovunque tu sia, possa tu starnutire graziosamente"; o male augurante:
"Sammio a Comelio: impiccati".
5) Roma accredita il manifesto negli organi ufficiali di comunicazione.
Superfata la figura dell'anagnoste, accanto al banditore prendono corpo,
e si formalizzano sotto Cesare, gli "Acta diurna", gli "Acta
Senatus" e le "Tabulae publicae".
"Res omnes singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus
referebatque in album et proponebat tabulam domi, potestas ut esset
populo cognoscendi". (Cicerone, De Orat., 2, 52).
"Inito honore, primus omnium instituit, ut tam senatus quam populi
diurna acta confierent et publicarentur". (Svetonio, De vita duodecim
Caesarum libri Vili, libro 1, par. 20).
Diffusa anche a Roma, comunque, la consuetudine di servirsi del graffito
come espressione, anonima e generica, di fatti e avvenimenti, al punto
che una scrittura su muro così sintetizza la situazione: "Admiror,
paries, te non cecidisse ruina qui tot scriptorum taedia sustines".
Prevale, già, però, il contenuto pubblicitario, da locandina:
"Pro salute Neronis Claudii Caesaris Augusti... venatio, athletae
et sparsiones erunt: V, IV KaIendas Martias. Claudio Vero feliciter".
E ancora: "Auli Suetti Certi aedilis familia gladiatoria pugnabit
Pompeis Pridie Kalendas lunias. Venatio et vela erunt".
6) I banditori pubblici si diffusero in Francia, dove nel Medioevo formarono
una corporazione con un proprio statuto. Durante i secoli XIII e XIV
i commercianti non ebbero altro mezzo per raccomandare i loro prodotti.
Solo nel secolo XVI essi presero a girovagare con le proprie mercanzie,
divenendo banditori di se stessi, e, a poco a poco, la pubblicità
verbale fu sostituita dall'affisso che il venditore esponeva accanto
alla sua merce.
7) Luigi Balsamo, A. Tinto, "Le origini del corsivo nella tipografia
italiana del Cinquecento", Milano, 1967, p. 13.
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