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Narratori del sud nel dopoguerra |
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Anita
Chemin Palma
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L'estetica del realismo,
che seguendo vie diverse si andava definendo negli anni del dopoguerra,
poneva necessariamente il problema di forme linguistiche conformi alla
sensibilità dei nuovi autori. La lingua letteraria ereditata dalla
cultura precedente, o peggio ancora la retorica improbabile della cultura
ufficiale fascista, sembravano incapaci di riprodurre l'immediatezza del
parlato e la espressività del dialetto, ed erano quindi largamente
insufficienti per l'attività letteraria neorealista. Più
che di disquisizioni teoriche, la questione della lingua fu oggetto di
soluzioni empiriche, dal tentativo di far rivivere nell'italiano forme
idiomatiche e paradigmi tipici della letteratura americana, che tanto
fascino esercitava su alcuni autori, alla commistione più o meno
sapiente di lingua e dialetto, che per gli autori meridionali significava,
in definitiva, immettersi nel solco tracciato dalla tradizione verista.
In questo senso, rilevante è l'impegno di Domenico Rea: nella sua
opera, strutture e cadenze proprie del vernacolo si ibridizzano con la
lingua, e ne nasce una prosa luminosa, talora ricercata ma al tempo stesso
sempre vitale, ricca, quasi pittorica. Nella sua Napoli brulicante di
figure, la miseria e la disperazione si esprimono in toni sommessi, più
simili al canto degli spirituals che agli accenti vibranti del dramma,
e la speranza di riscatto abortisce nell'angustia e nella stolidità
del vivere alla giornata:
"Il giorno
prima della calata degli americani, Nofi aveva ancora la piazza coperta
di carogne di cavalli e muli del fu quartiere militare. Qualcuno vi
aveva gettato un giornale sopra. C'era un cavallo rosso con gli occhi
neri, con la criniera disfatta e la bava divenuta di gesso sulla bocca.
Un altro era nero, coi denti in fuori. Rassomigliava ai vecchi di novanta
anni appena morti. Per la prima volta i nofinesi avevano l'occasione
di osservare a piacere una testa putrefatta di cavallo. Gli occhi sembravano
uova fritte in padella. Qualcuno alzava le zampe di un cavallo e le
lasciava ricadere. Qualche altro scopriva la coda. Poveri cavalli, distesi
e in pace, non avevano proprio colpa di nulla. A decine, per giorni,
avevano percorso le strade di Nofi, se ne sentivano i passi sopra i
ricoveri. Vedevano un uomo, si fermavano, chissà con quali speranze,
e l'uomo, giocoforza, per mangiare, ne uccideva qualcuno. Gli altri
squagliavano. E i cadaveri stavano per tutte le strade, persino nei
fiumi. Il prete che andava sulla carretta, trascinata da due ragazzi,
benedisse anche loro. Benediceva tutti quel prete: Un posto a sé occupa la produzione di Rocco Scotellaro. Parlare di realismo èpersino banale di fronte ad un'ispirazione tanto intimamente ed esclusivamente radicata nell'humus contadino qual'è quella di Scotellaro. I due incompiuti che ci sono rimasti, il romanzo autobiografico "L'uva puttanella" e l'inchiesta "Contadini del Sud", nonostante le differenti impostazioni di partenza, saggistica l'uno, narrativa l'altro, sono complementari nel delineare una dimensione territoriale e contadina da un punto di vista estremamente interessante e rivelatore: in "Contadini del Sud" gli intervistati si narrano in prima persona e l'intervento esterno è limitato a rendere intelligibile il discorso senza perderne la ricchezza descrittiva e il colore: ne "L'uva puttanella" la breve storia di Rocco si intreccia alla storia della sua gente e dei suoi contadini, con una partecipazione e una consapevolezza che fanno di Scotellaro una figura unica nel panorama non solo letterario ma anche politico di quegli anni: "Successe il
fatto prima che queste parole fossero scritte. Pasquale portava una
mantellina inverno ed estate, non doveva possedere più la sua
giacca. Il risultato più alto della letteratura meridionale di quegli anni, per completezza e maturità di concezione poetica e per felicità d'espressione, è il romanzo della maturità di Francesco Jovine, "Le terre del Sacramento". Gran parte dei temi propri del neorealismo convergono qui, in una sintesi che bene esprime le promesse di riscatto di cui fu gravida quella esperienza letteraria: le miserie dei contadini diseredati del Sud sotto il regime fascista; il ruolo dell'intellettuale, non più passivo spettatore dello svolgersi della storia ma impegnato in prima persona a determinarne l'indirizzo politico; l'attenzione per una realtà colta nel compiersi di un mutamento e di una crescita collettiva. Il linguaggio si modella duttilmente sul materiale narrativo, èforma elementare, talvolta rozza, ma essenziale nel dialogare tra contadini, quando tra antiche sottomissioni e vecchi proverbi si fanno strada i primi bagliori di coscienza e di ribellione, ed è canto collettivo spontaneo, primigenio, e nel contempo uscito dagli antri più bui della tradizione nel lamento funebre delle donne sull'assassinio del protagonista, Luca Marano. La profonda congruenza tra poetica del neorealismo ed esperienza umana e politica, in Jovine, la sua adesione alle ragioni dei suoi personaggi, alle loro speranze e alla loro umanità, la sua "pulizia" da residui di sensibilità intimistico-decadente, fanno de "Le terre del Sacramento" un'opera quanto mai convincente e significativa: "Un giorno
Seppe Marano, voltando la coppia di asini che tiravano l'aratro, aveva
superato i confini. Già verso
la fine degli anni '50 la forza delle idee trainanti della poetica neorealista
sembrava appannarsi. Alla base della crisi stava il maturarsi delle
contraddizioni e delle inadeguatezze proprie di quella proposta, un
ideologismo spesso eccessivo, certe soluzioni estetiche semplicistiche
e poco meditate, ma stavano soprattutto le mutate condizioni ambientali
e storiche: le grandi speranze della Resistenza erano ampiamente disattese
dal mantenimento delle leggi e della struttura statuale del fascismo,
se pure con qualche ripulitura negli aspetti più macroscopicamente
discordanti con la Costituzione Repubblicana; la crisi politica e propositiva
della sinistra lasciava spazio alla gestione moderata del Paese; lo
sviluppo economico prendeva velocità, ma restavano uguali, o
addirittura si approfondivano, il divario tra le classi e le differenze
tra Nord e Sud, e soprattutto al benessere incipiente non si accompagnava
un equivalente progresso sociale. Una delusione storica, in definitiva,
per quanti avevano visto nella Liberazione l'inizio di una palingenesi
sotto il segno della crescita civile. "Adesso aveva
penetrato tutti i riposti sensi: le parole enigmatiche di Tancredi,
quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelatrici di Russo, avevano
ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebbero avvenute,
ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia
con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca. Questo era il
paese degli accomodamenti, non c'era la furia francese; anche in Francia
d'altronde, se si eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era
successo qualcosa di serio? Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata
cortesia lo trattenne: "Ho capito benissimo: voi non volete distruggere
noi, i vostri "padri"; volete soltanto prendere il nostro
posto. Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche
migliaio di ducati. P così? Tuo nipote, caro Russo, crederà
sinceramente di essere barone; e tu diventerai, che so io, il discendente
di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome, anziché
il figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela.
Tua figlia già prima avrà sposato uno di noi, magari anche
questo stesso Tancredi, con i suoi occhi azzurri e le sue mani dinoccolate.
Del resto è bella, e una volta che avrà imparato a lavarsi
... "Perché tutto resti com'è". Come è,
nel fondo: soltanto una lenta sostituzione di ceti. Le mie chiavi dorate
di gentiluomo di camera, il cordone ciliegia di S. Gennaro dovranno
restare nel cassetto, e poi finiranno in una vetrina del figlio di Paolo,
ma i Salina rimarranno i Salina; e magari qualche compenso lo avranno:
il Senato di Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio. Ciondoli
questi, ciondoli quelli". Una riflessione più matura dei rapporti che legano realtà e letteratura e un taglio narrativo decisamente moderno caratterizzano la produzione di Leonardo Sciascia, che spazia in una vasta gamma di moduli espressivi, dal romanzo-inchiesta della sua prima prova, ai molti lavori di genere poliziesco, dalla rievocazione storica, al saggio. Anche se Sciascia è stato spesso considerato uno dei più diretti eredi del neorealismo, il diverso rapporto con la materia narrativa, più completo dal punto di vista dell'indagine sociologica e più approfondito nella visione politica, lo pone in effetti molto "oltre" quella esperienza. Sciascia analizza l'intrecciarsi di eredità antropologiche, errori storici, deviazioni politiche attuali nel comporre le storture e le iniquità della società contemporanea, italiana ma soprattutto siciliana, testimoniando sempre un profondo impegno civile e una quasi illuministica fiducia nella ragione: "II confidente
di S. rischiava la vita: una cosca o l'altra, con un colpo doppio a
lupara o con una falciata di mitra (anche nell'uso delle armi le due
cosche facevano differenza), un giorno lo avrebbero liquidato. Ma tra
mafia e Carabinieri, le due parti tra cui muoveva il suo azzardo, la
morte poteva venirgli da una sola parte. Da questa parte non c'era la
morte, c'era quest'uomo biondo e ben rasato, elegante nella divisa;
quest'uomo che parlava mangiandosi le esse, che non alzava la voce e
non gli faceva pesare disprezzo: e pure era la legge, quanto la morte
paurosa; non, per il confidente, la legge che nasce dalla ragione ed
è ragione, ma la legge di un uomo che nasce dai pensieri e dagli
umori di quest'uomo, dal graffio che si può fare sbarbandosi
o dal buon caffè che ha bevuto, l'assoluta irrazionalità
della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda, dalla guardia
municipale o dal maresciallo, dal questore o dal giudice; da chi ha
la forza insomma. Che la legge fosse immutabilmente scritta ed uguale
per tutti, il confidente non aveva mai creduto, né poteva: tra
i ricchi e i poveri, tra i sapienti e gli ignoranti, c'erano gli uomini
della legge; e potevano, questi uomini, allungare da una parte sola
il braccio dell'arbitrio, l'altra parte dovevano proteggere e difendere.
Un filo spinato, un muro. E' l'uomo che aveva rubato e scontata una
condanna, che stava coi mafiosi e mediava prestiti ad usura e faceva
la spia, cercava soltanto una breccia nel muro, uno slargo nel filo
spinato. Presto avrebbe avuto in mano un piccolo capitale e aperto negozio;
e il figlio più grande teneva in seminario, ché si facesse
prete o ne uscisse prima di prendere gli Ordini per diventare, meglio
che prete, avvocato. Varcato il muro, non poteva più far paura
la legge: e bello sarebbe stato guardare quelli rimasti di là
dal muro, del filo spinato. Così, lacerato dalla paura, a vagheggiare
la sua pace futura, fondata sulla miseria e l'ingiustizia, un pò
si consolava: e il piombo della sua morte intanto colava." Il nodo uomo-industri
a, coni mutamenti ambientali e soprattutto i mutamenti nella cultura
e nella vita sociale dell'individuo determinati dal rapporto di lavoro
neocapitalista, è un tema centrale nell'attività letteraria
tra la fine dei '50 e i primi anni '60. Uno degli approcci più
nuovi alla questione, anche se non estremamente fecondo di risultati,
fu lo sperimentalismo linguistico, che tentava di riprodurre, visivamente
sulla pagina stampata e foneticamente nella lettura, il disordine nella
comunicazione introdotto dal nuovo modello industriale. "Sono entrato
per la prima volta, all'improvviso, nel laboratorio psicotecnico. C'erano
i candidati, seduti ai banchi, e hanno alzato il capo dai fogli dei
test per osservarmi. Eccone un altro, pensavano, il nuovo, l'ultimo
venuto. Che tipo è? Porta bene o male? Lo sanno che il nuovo
impiegato arriva sul loro destino. Una luce forte fluiva dalle due pareti
di vetro, d'angolo, ma subito mi sono tolto gli occhiali neri; tuttavia
mi sono comportato freddamente, da funzionario indecifrabile, senza
guardare in faccia nessuno. Infatti non ho veduto nessuno. Ho salutato
la signorina S., la mia collega, e mi sono dato da fare a sfogliare
le pratiche dei candidati sul tavolo accanto alla lavagna. |
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