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Carrieri, Milano, la Puglia |
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Domenico
Cantatore
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A dipingere e disegnare
il ritratto DEL poeta Raffaele Carrieri ho provato non so quante volte
nei cinquant'anni e più della nostra amicizia. L'ultimo è
di qualche mese fa, il primo non ricordo: ci conosciamo da sempre, si
può dire, siamo cresciuti insieme, come nati dalla stessa matrice
oltre che nella stessa terra, la Puglia. Perciò mi è difficile
distinguere le sue vicende dalle mie. So che ogni volta in quei ritratti
cercavo di cogliere la vita sotterranea che scorgevo in lui, la sua espansività
quasi aggressiva, la sua comunicativa densa di fantasia, di illuminazioni,
un fare aperto e pieno di slanci, che la comprensione reciproca rendeva
preziosi. Così lo conobbi a una mia prima mostra di Bari, avevamo poco più di vent'anni. Raffaele viveva a Taranto con sua madre e venne alla vernice. Ci fu subito una corrente di simpatia, presto di amicizia: fu la differenza tra i nostri temperamenti forse, a legarci. lo piuttosto calmo, introverso, trovavo in Raffaele entusiasmi, fuoco, qualità che mi completavano, mi sostenevano nella strada non facile che avevo intrapreso. In una lettera recente, ricordando vecchi tempi, mi diceva: "Quanta, quanta fame io e te a Milano!". Ora la città gli ha dedicato una manifestazione, "Le persone che hanno fatto grande Milano", che ha avuto, mi pare, il senso di un riconoscimento in famiglia, perciò intimo e più gradito al poeta. Circostanza felice, che mi ha riportato comunque a molti anni fa: fui io ad attenderlo alla stazione vecchia di Milano quando venne da Taranto. Arrivò con una valigia di fibra legata con lo spago, come i nostri emigranti spaccapietre e contadini fuggiti dalla siccità. Era magro come un giunco, di pelle scura, barbetta da saraceno, irrequieto, dolce e selvatico, guardingo come la lepre che annusa pericolo. Nella valigia aveva qualche indumento e alcuni pacchetti di sigarette estere che mi portò in dono, un vero lusso nella nostra povertà. Quei primi anni di vita milanese misero a dura prova la nostra resistenza, amari per lui più che per tutti noi. lo mi ero stabilito da qualche tempo, avevo rimediato una specie di atelier alla Città degli Studi, quartiere del tutto periferico allora. L'ambiente, n cima all'istituto Ronzoni, era coperto da un cupolone che si arroventava l'estate e gelava d'inverno. Di quei periodo intorno agli anni Trenta conservo tali ricordi che a dirli ora sembrano inventati. Forse neppure la fantasia di Raffaele avrebbe potuto immaginare le sorprese che ci erano riservate. Purtroppo le visse lui stesso. L'albergo popolare lo aveva ospite quando c'erano i centesimi necessari per la notte. A volte veniva da me al cupolone, a dividere le intemperie. L'inverno si rifugiava nei caffé a scrivere fogli su fogli per i giornali, argomenti di ripiego da cui ricavava quei tanto per sopravvivere. Durante le nostre forzate astinenze, ciò di cui più sentivamo desiderio non erano pietanze ghiotte, ma solo DEL pane per riempire lo stomaco. Un giorno, dopo parecchio digiuno, con quanto avevamo avuto per un oggetto impegnato Monte di Pietà comprammo tanto pane da fare indigestione; poi la si smaltì con un lungo sonno. In uno di quei tanti giorni di fame senza eufemismi, per rabbia Raffaele scagliò in terra una michetta di pane secco che gli era stata offerta: scoppiò in pezzi. Raffaele guardò le briciole, quasi pentito per lo spreco, si chinò e le raccolse. Fu quanto poté mangiare quei giorno. Dopo qualche anno, méta molto agognata, riuscii ad avventurarmi fino a Parigi. Raffaele vi era già stato, i suoi capitoli di Fame a Montparnasse indicano in modo colorito il dare e l'avere di quelle trasferte. Mutava il panorama, restavano le solite difficoltà. Era un prezzo che si pagava volentieri per vivere esperienze di cultura impossibili nel nostro Paese. Al mio rientro a Milano, dopo quasi un anno di soggiorno francese, trovai la vita di Raffaele cambiata. Si era fatto un nido familiare, proprio alla maniera dei rondoni, sotto il tetto di una casa della vecchia via Passerella. Sua madre, "la formica Maria", lo aveva raggiunto; vi era lda, la sua prima splendida compagna; era nata Marilù, una bambina delicata come un fiore. lo ero come reduce da una battaglia perduta, con un cappotto comprato con gli ultimi franchi, la pioggia della stagione fredda parigina lo aveva ridotto una giacca. Mi unii alla loro tavola. Raffaele, come un San Rocco, ogni giorno riusciva a cavare qualcosa per noi tutti. Con il suo affetto, il suo aiuto, ripresi forza e fiducia: anche nella povertà, Raffaele ha sempre saputo elargire ricchezza. Da allora abbiamo cercato di dare il meglio di noi, qualcosa che somigliasse alla realtà. Abbiamo affrontato traversie, abbiamo saputo piangere e anche ridere, talvolta, di noi, consolarci a vicenda. Quanto abbiamo avuto dall'amicizia ci è servito per vivere due volte, con le nostre esperienze scambiate. Alcuni anni fa mi scriveva: "Ho preso le medicine per cessare di morire". Fu invece il tempo dei nostri viaggi in Marocco, Spagna, Portogallo, Olanda. Per tutti questi viaggi ha scritto poesie assai belle: Mi hai detto
che dovevo riposare Eravamo in cielo,
nel nostro cupolone ora visitavamo luoghi che lassù avevamo sognato. Eccoci tornati
fra i tratturi lo e te simili
a braccianti A Marrakech, sulla piazza dei giocolieri, Raffaele disse di sentirsi tra parenti in mezzo a quella gente di pelle scura, dalla barba caprigna, vestita come antichi Saraceni. Era eccitato, irrequieto, parlava con l'uno e l'altro degli arabi, inventando un misterioso linguaggio di gesti e di esclamazioni. Li fermava, li invitata a saltellare con lui, ad assistere al suo improvvisato ballo in mezzo a contorsionisti, mangiatori di fuoco, incantatori di serpenti. Avrei potuto
ballare su un piede Così, felice, su un solo piede, mulinava in aria il bastone che gli era servito poco prima solo per sostenersi, raccoglieva intorno a sé un piccolo pubblico curioso verso quello strano parente occidentale, che aveva ripreso posto in mezzo a loro. Al mercato berbero gridava rivolto agli asinelli, accarezzandoli: "Amici miei! Amici miei!". Finché si lasciò convincere a montare un cammello che, frustato dal padrone, prese immediato galoppo. Discese ansimando e pallido per i sobbalzi, che gli tolsero la voglia d'altri esercizi. Mi entra nelle
vene In diverse occasioni
è venuto a trovarmi a Montefiore, sul colle marchigiano in cui
abito d'estate. Abbiamo passeggiato insieme tra pini e ginestre che
avevano per lui "il benefico odore dell'oblio". Le crisi d'asma
non gli davano tregua; lì, diceva, sembrava più facile
respirare, pareva che "bronchi e polmoni fossero ripuliti da una
spazzola di diamanti". Il cielo di Montefiore guardato assieme
era uno spazio diverso, che la poesia e la pittura potevano fare misterioso. |
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