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Canti dell'emigrazione |
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Anita
Chemin Palma
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Fino al compimento
dell'unità, l'emigrazione della gente del Sud ebbe cadenze stagionali,
che seguivano il ritmo delle colture agricole e della transumanza, e fu
in prevalenza un'emigrazione interna, da zona a zona della stessa regione
o tra regioni limitrofe. Si trattò in sostanza di cosa ben diversa
dal tipo di emigrazione che si sarebbe vista dall'ultimo scorcio del XIX
secolo in avanti, poichè la prospettiva di questa migrazione interna
era pur sempre il ritorno in tempi relativamente brevi al luogo di origine
e i poli d'arrivo restavano nella maggior parte dei casi all'interno di
situazioni sociali e ambientali omogenee ai poli di partenza. Tuttavia,
se non determinavano uno sradicamento definitivo, pure questi spostamenti
significavano distacco da un insieme di affetti e di rapporti umani tanto
più essenziali quanto più dura era la vita contadina, significavano
lontananza tanto più incolmabile, quanto più isolate e chiuse
erano le realtà meridionali di quell'Italia arretrata.
Mo me ne voglio
ì a la Puglia a mete (Molise)
(Molise) E un viaggio che ripete dolorosamente, ad ogni ritorno del tempo, sè stesso e la fatica, lo sfruttamento, gli stenti di una condizione contadina ancora cristallizzata nel sistema feudale. Li muorte de
la Puglia e chi l'avante, (Molise). Con l'unificazione d'Italia, vengono a contatto diretto l'industrializzazione già avanzata del Nord con la fatiscente economia agricola del Sud. Alla vecchia realtà borbonica si sovrappongono bruscamente le strutture del nuovo Stato; il sistema rurale, che pure aveva creato una qualche forma di equilibrio della miseria e nella miseria e che costituiva una sicurezza per il contadino meridionale, è ormai una gabbia insopportabile per il nascente capitalismo e non può che essere distrutto. La scelta politica del governo unitario di drenare risorse al Sud per accumularle e utilizzarle al Nord, inoltre, non va certo nella direzione di colmare il divario tra le due Italie. L'esito è una eccedenza di braccia via via crescente rispetto alle esigenze della terra. E' solo ora che si può parlare di emigrazione in senso moderno, cioè prolungata nel tempo, talvolta definitiva, e rivolta a luoghi che sono completamente altri da quelli d'origine, estranei alla cultura, all'ambiente di vita, alla lingua stessa dell'emigrato. Se ne andavano a migliaia, poi a centinaia di migliaia ogni anno, ed era uno strappo violento e doloroso, erano legami recisi a tempo indeterminato. Strada mia abbandunata,
mo te lassu, Nun so' funtane,
no, ma fele e tassu, (Calabria)
(Abruzzo) Dapprima il flusso
fu costituito dagli uomini, e l'idea era quella di tornare, presto o
tardi, alla famiglia e al paese; dopo la recessione agricola che si
trascinò dal 1887, per alcuni anni divenne massiccio l'esodo
di intere famiglie, e così il cambiamento era definitivo sin
da quella partenza. Chi scumpigliu
chi c'è 'ni li paisi Cu si pripara
mutanni e cammisi. (Sicilia)
(Sicilia)
(Calabria)
(Molise) Alla fine del secolo gli italiani erano per la prima volta il gruppo etnico più numeroso tra quelli che emigravano in America. Nel 1927 si potevano contare 9 milioni di italiani all'estero; circa la metà era distribuito nel continente americano. Il mitico Paese accoglieva gli emigrati italiani con la faccia, ben diversa da quella sognata, del Mulberry Bend, il più squallido dei quartieri dormitorio di New York, tappa obbligata, quando non sistemazione definitiva di quegli emigrati che avevano salute e denaro a sufficienza da non essere rispediti in patria dai funzionari di Ellis Island. Il lavoro che potevano trovare, e che in genere consentiva un minimo di decente prosperità più che una pomposa "fortuna", era pagato duramente in termini di sfruttamento, di emarginazione, di discriminazioni di razza spesso brutali, e per molti la parentesi americana serviva a raccogliere abbastanza da poter tornare a sistemarsi nella vecchia realtà del paese. Flowers! Flowers! (Richiamo di un venditore ambulante emigrato a New York dall'Italia Meridionale). Negli anni dopo il 1920, le leggi americane che limitavano l'afflusso di stranieri e le leggi fasciste sull'abbandono delle campagne soffocarono in grandissima parte questa valvola di sfogo alla disoccupazione. E' solo nel secondo dopoguerra che riprende in misura apprezzabile il flusso migratorio. Le linee di movimento principali però, sono diverse: la direzione è il Nord, al di là delle Alpi o verso i centri industriali di Torino e Milano, e le dimensioni dell'esodo crescono in proporzione allo sviluppo industriale. Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, circa 2 milioni di persone si sono mosse verso il Nord: il simbolo di questo viaggio è il treno, cupo ed estraneo traghetto da una terra di colori ad una città di nebbie e cemento armato. Guardati chistu
trenu cum'è niguru (Anonimo)
'Na valigia di
cartuni, Pi d'avanti la
curvata La cuvata cu
la 'ciocca Lu paisi di luntanu, Ogni tantu si
fermava (da "Lu trenu di lu suli" di Ignazio Buttitta). La produzione di canti sull'emigrazione di questi anni è molto diversa dalla precedente: nella quasi totalità è riferibile ad un autore determinato, talvolta è poesia colta ma spesso, e forse è l'aspetto più interessante, è opera di lavoratori emigrati che della canzone si servono per far conoscere la loro realtà in un ambito più vasto dei soli compaesani e quindi scrivono in italiano oltre che in dialetto. I temi rispecchiano il mutamento avvenuto nei modi di vita e nella coscienza della gente del Sud; le possibilità di comunicazione sono enormemente più ampie, dal Nord arrivano le notizie della vita degli emigrati, e sono notizie tristi che parlano di odi razziali, di doveri senza diritti, di omicidi bianchi: il Nord è solo un'amara necessità, non diventa mai, neppur per un attimo, un mito. Rimangono in questi canti gli accenti di tristezza per il distacco dalla terra natale, ma si guarda con maggior senso critico la propria o altrui storia di emigrati: non è più il destino, impersonale e incolpevole, che muove le folle da una terra di miseria alla terra promessa, né la sofferenza immanente alla nascita' del contadino meridionale povero che lo accompagna nella solitudine in un Paese straniero o nella morte sul lavoro, ma è storia degli uomini, e a causa di uomini. .......................... (da "Il popolo è forte" di Claudio Bernieri).
E ora semini
il tuo corpo (da "La ballata del contadino" di Mario de Leo).
(da "L'esodo" di Silvano Spadaccino)
Ce arrabbiane
li jatte chi li chène, (Matteo Salvatore).
Franau la muntagna duluri e passioni (da "Mattmark" di Franco Trincale). Da qualche anno, è cosa nota, l'emigrazione decresce. Non perché la gente del Sud abbia trovato lavoro in patria e non abbia più bisogno di emigrare, ma perché i Paesi stranieri non hanno più bisogno di questi nostri lavoratori. Semplicemente. E' un ritorno ancora più amaro della partenza, in una madrepatria civile forse in tutto, ma non nella politica delle due Italie. Forse ancora una volta questa gente, straniera all'estero, con meno giustificazioni trascurata in patria, dopo aver "cantato" l'emigrazione, dovrà ricominciare a piangere la disoccupazione. |
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