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Alcuni aspetti del sentimento della morte nella cultura di massa e nella cultura popolare |
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Brizio
Montinaro
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Qualche mese fa
ho avuto modo di occuparmi del tema della Morte in una delle trasmissioni
di COME SE, la rubrica culturale di RADIOTRE della quale ero titolare.
Fu in questa circostanza che ebbi modo di constatare personalmente quanto
forte fosse il tabù della morte in una grande città come
Roma e in un ambiente in particolare: quello degli intellettuali. La cosa,
confesso, non mi trovò del tutto impreparato perché in altre
occasioni ne avevo avuto i segni, avendo da qualche tempo indirizzato
la mia attenzione su questo argomento; ma, certo, mi sorprese per la sua
forza e per la profondità delle sue radici. Dovevo dunque cercare, come era consuetudine nella mia trasmissione, due ospiti più o meno esperti che venissero a parlare con me sul tema della Morte. Mi vennero subito in mente i nomi degli studiosi italiani più noti che si erano occupati a lungo dell'argomento: Mario Praz e Alberto Tenenti; e per altre interviste brevi da inserire nel corpo della trasmissione, i nomi di Giovanni Berlinguer, Enrico Maria Pace, Liliana Cavani e altri. E' vero, non c'era proprio che l'imbarazzo della scelta, come si dice, ma potevo contare su un certo numero di persone che per un verso o per l'altro si erano occupate nella loro professione del "problema" della morte. Escludevo, volontariamente, in questa mia ricerca degli ospiti, gli antropologi, perché c'erano già stati nelle precedenti trasmissioni e in numero massiccio. Ma è bastato un giro di telefonate per rendermi conto dei guai nei quali avevo messo me stesso e i miei collaboratori con la scelta di questo tema: nessuno degli interpellati, per un motivo o per un altro, accettava. Alcuni che in un primo momento sembravano disposti ad intervenire, appreso il tema, reagirono quasi offesi, finsero addirittura di non capire perché erano stati chiamati proprio loro; ed erano quelli, invece, che più degli altri si erano occupati dell'argomento nella loro attività professionale. Alberto Tenenti, residente in Francia, con il quale ci saremmo eventualmente collegati via cavo, autore de "Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento" dopo aver risposto affermativamente si rese poi irreperibile al telefono. Liliana Cavani, la regista de "Il portiere di notte", aggredì al telefono la mia collaboratrice che l'aveva interpellata. Mario Praz, l'autore de "La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica", testo fondamentale, disse che si meravigliava oltremodo del fatto che avevamo pensato a lui come possibile interlocutore su un tema dei genere. Era la prima volta che accumulavo "rifiuti" da parte di ospiti nella storia della mia trasmissione che ormai andava avanti da mesi. E devo dire che fu anche l'ultima. Ciò meritava quindi qualche riflessione. Scoprii immediatamente che per qualcuno degli interpellati girava la voce, tra gli intellettuali, che portasse male e che, al solo pronunciarne il nome, scattavano nei presenti una serie di gesti scaramantici che andavano dal palparsi i testicoli, simbolo di vita, al fare le coma. La trasmissione infine fu fatta con l'antropologo Luigi Lombardi Satriani e con l'ottima giornalista Lietta Tornabuoni. Esisteva dunque tra le persone colte ed altamente civilizzate un vero e proprio tabù della morte. Decisi allora di svolgere un'indagine su due piani diversi: cultura di massa e cultura della classe subalterna, quella salentina in particolare, perché del resto già da tempo mi teneva occupato. Scoprii che il tabù della morte è presente in modo vistoso nella classe media, nella grande e piccola borghesia, nel ceto dei lavoratori ed ancora di più in quasi tutti i raggruppamenti sociali delle grandi città industrializzate. Si direbbe quindi estremamente presente nel sentimento collettivo della società quanto più questa è presa nell'ingranaggio del profitto. Più l'uomo è teso a produrre più sono radicati in lui il tabù e la paura della morte. Per chiarire questa affermazione, faccio mia la tesi espressa da Philippe Ariès. "Una causalità immediata salta subito all'occhio: la necessità d'essere felici, il dovere morale e l'obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza o di noia, dandosi l'aria di esser sempre felici, anche se si tocca il fondo della desolazione. Mostrando qualche segno di tristezza, si pecca contro la felicità, la si rimette in discussione, e allora la società rischia di perdere la sua ragion d'essere". (1) Questa idea di "felicità" ci conduce in America, negli Stati Uniti, dove, sempre secondo lo storico Ariès, pare nato, agli albori del XX secolo, con l'enorme sviluppo delle grandi industrie, l'atteggiamento moderno nei confronti della morte "cioé il divieto della morte per salvaguardare la felicità" (2) La ricerca della felicità nella cultura capitalistica è legata naturalmente a quella del profitto e ad un rapido incremento economico. Ora, le leggi dei profitto non permettono di parlare di morte, ma, proprio mentre ne danno il divieto, esse stesse lo violano creando, e l'America è un esempio paradigmatico, l'industria stessa della morte. Con l'attuale crisi del capitalismo va in crisi oggi anche l'atteggiamento nei confronti della morte ad esso legato. E mentre, ancora in questa situazione di passaggio, si continua a cercare di parlare il meno possibile di morte, la morte, attraverso la violenza quotidiana, morale e fisica, pare oggi presente come mai lo era stata da trenta, trentacinque anni a questa parte. L'elevato numero dei suicidi di Takashimadaira, città satellite di Tokio, le morti silenziose tra i militanti della vecchia nuova sinistra, i morti della Guiana sono solo alcuni esempi clamorosi. Poi vi sono le tante morti feriali e quelle festive, le politiche, le quali danno luogo a manifestazioni di neo-folklore e nuova religiosità popolare per una loro diversa valenza. A Roma, nei luoghi in cui sono caduti Giorgiana Masi e gli uomini della scorta di Moro e nel luogo del ritrovamento dello statista morto, si sono creati specie di altari per i nuovi martiri e sono ormai meta di "pellegrinaggi". Le morti di questo tipo sono ancora le poche cariche di valori morali. Ma il caso Moro è molto particolare per la storia della morte non tanto per le circostanze della fine o del ritrovamento del corpo ecc., quanto per la sua presenza nei mass media come morto che parla, che ingombra, che determina, che ha un peso politico e sociale, forse, quanto e più di quando era vivo. Con il caso Moro noi abbiamo assistito ad una grossa gestione della morte e del lutto estremamente sofisticata e moderna. In particolare, il momento della prigionia di Aldo Moro è stato vissuto attraverso i giornali e la televisione come l'organizzazione del lutto di un uomo che già veniva considerato morto attraverso il meccanismo di non considerarlo lucido, non più sé stesso; le lettere non più moralmente a lui ascrivibili. Il potere e i mass media hanno finito per gestire a livello simbolico una realtà che invece aveva una sua drammaticità presente e non codificabile culturalmente in modo facile. Morte e violenza, si diceva, sottolineando una moderna caratteristica della morte. Esiste un intero gruppo sociale, oggi in Italia abbastanza vasto, il gruppo della classe dirigente diffusa, che vive nella paura di morire di morte violenta. Questo tipo di paura però non riguarda direttamente tutti i livelli della società; ma proprio perché riguarda la classe dirigente, che è quella che produce la cultura di massa che impone attraverso giornali, televisione e altri mass media di cui dispone, a questa nuova paura della morte partecipano tutte le classi sociali. E pensiamo ai tanti segnali di morte che troviamo presenti nelle grandi città come Roma, Milano, Torino, Genova ecc.: soldati con le armi in pugno, edifici difesi oppure assediati dai propri difensori, porte blindate, vetri antiproiettile, pubblicità di sistemi di difesa ecc. Sono tutti elementi, questi, che rimandano immediatamente all'idea di violenza e al pericolo di morte. Le immagini attraverso la televisione e il cinema oggi si consumano in ogni più recondita campagna d'Italia, sono spessissimo immagini di cadaveri stesi sull'asfalto con le braccia aperte, di cadaveri rannicchiati in un'automobile con la testa china sul volante, di corpi che hanno cercato di scendere dall'auto e sono metà fuori e metà dentro. Sono tremende immagini di morte. La stessa cronaca dei quotidiani offre poi una gran quantità di notizie e foto mortuarie: omicidi e in gran numero suicidi. Gente che ammazza e che viene ammazzata, che si ammazza. Da parte dei giornalisti si nota, fatto nuovo, un certo compiacimento nell'usare la parola forte rispetto all'eufemismo del passato. C'è uno sbiadimento semantico delle espressioni eufemistiche con le quali prima si cercava di occultare il dato della morte per non guastare la ricerca della felicità collettiva. Un periodico pubblicizzava se stesso: "Una raffica di notizie", ma mentre viene sparata questa raffica con parole crude, proprio oggi, dai giornali, si occulta la realtà attraverso una accorta opera di manipolazione tra il dato e l'esistenza quotidiana. Non si occulta più tacendo, si occulta dicendo. Viviamo oggi in Italia, come appare da quanto ho detto, una grande contraddizione. Da un lato la morte riafferma sempre più la sua presenza, dall'altro tutta l'organizzazione ideologica e produttiva della nostra società è fatta in maniera tale da imporre l'accantonamento della morte. Viviamo una condizione schizofrenica imposta dalla cultura egernone: non si deve pensare alla morte ma la morte è nel quotidiano. Viviamo infine, in maniera dilacerata, due realtà contraddittorie alle quali spesso si reagisce con il suicidio, con la strage, con l'insopportabilità della situazione. Se questa dunque è la realtà riguardo il tabù della morte e la paura di morire, cosa accade quando poi si muore? Se viviamo una situazione schizofrenica per quanto riguarda la morte di noi, come poi ci comportiamo per la morte degli altri ? Caratteristica del nostro tempo è il morire in ospedale, fuori di casa, fuori dal proprio letto. Nei paesi anglosassoni esistono addirittura cliniche dove si può andare a morire. A Londra nel 1971 ne esistevano già cinque. Specie di cimiteri degli elefanti dove l'uomo si reca per esalare l'ultimo. Ma, senza arrivare a questi orribili eccessi, già lo stesso morire in ospedale per la storia della morte è un fatto nuovo e non completamente accettato. E morire oggi è ritenuto un atto sconveniente da occultare e dimenticare quanto prima. Al vecchio tabù del sesso si è sostituito il nuovo tabù della morte. Oggi ai bambini si insegna il sesso a scuola, ma li si allontana da casa alle prime avvisaglie di morte di un parente. Ai bambini non si permette di mettere piede in ospedale dove giace un parente che muore e al quale sono affezionati perché non bisogna turbare con immagini sgradevoli la loro infanzia felice supervitaminizzata. Intanto però, passando pomeriggi e serate intere davanti al televisore si nutrono di immagini di morte e di violenza. E i loro giocattoli sono quasi, sempre riproduzioni di strumenti di morte. Il rituale funebre di oggi si è ridotto all'osso; i superstiti spesso organizzano camere ardenti negli obitori degli stessi ospedali dove il parente ha trovato la morte proprio per non avere i fastidi del portarsi i morti in casa e di sottostare a qualche visita di condoglianze che conoscenti e vicini indiscreti, non perfettamente educati, osano ancora fare. Bisogna dimenticare, accantonare l'evento luttuoso. La morte con la sua presenza mette in imbarazzo i superstiti perché procura loro una forte emozione; e proprio questa, invece bisogna evitare in pubblico, secondo i dettami della cultura egemone. "Si ha il diritto di commuoversi solo in privato, cioé di nascosto". (3) "Le manifestazioni esteriori" rituali del lutto vanno quindi man mano scomparendo anche nei piccoli centri perché sono al limite della "civiltà", della "buona educazione". La società di oggi, addestrata a ferree leggi competitive, considera la presenza del sentimento come una grave mancanza, un insopportabile cedimento. Bisogna essere forti a tutti i costi, o almeno sembrare di esserlo. Come diceva Gorer, il lutto solitario e pieno di vergogna è l'unica risorsa, come una ,specie di masturbazione. (4) Bisogna avere il senso del pudore. In tale situazione un funerale ben riuscito è un funerale rapido, ben organizzato da una ditta di pompe funebri e senza lacrime. Ma l'assenza del pianto, di un rituale non è certo assenza di dolore o superamento del sentimento della morte. Anzi, l'evento luttuoso comporta spesso per quei superstiti un trauma tanto più grave quanto più represso è il dolore. Il pianto rituale interrotto non risolve la crisi di cordoglio dovuta alla perdita della persona cara, l'aggrava. In una cultura di questo tipo esistono, nei confronti del cimitero, due atteggiamenti diversi e contrari. Da una parte, i cimiteri sono poco frequentati perché ritenuti esclusivamente luoghi di deposito di cadaveri; e questo accade in modo estremamente vistoso soprattutto nelle grandi città e tra gli esponenti di una classe impegnata nei servizi terziari. Da un'altra, esiste tra gli esponenti della classe piccolo borghese impiegatizia e dell'alta borghesia tutta un'ideologia della tomba che vuole questa, la casa per sempre, quanto più possibile ricca sotto le specie della semplicità perché rimanga nei vivi il ricordo dello status sociale faticosamente raggiunto o, per l'alta borghesia, dello status da sempre posseduto da parte di chi non è più. E allora si fanno costruire cappelle, mausolei, con marmi e statue; si richiamano alla memoria frasi latine ad hoc, e su tutto si appone il nome di famiglia. Queste rapide considerazioni di carattere generale sul tema della morte valgono naturalmente per tutti gli esponenti della cultura di massa di tipo urbanocentrico e di tutte quelle culture antropologiche che hanno come ideologia la fuga dalla morte che spesso si risolve però, come abbiamo visto, in fuga dalla vita. E il Salento di cui ora parlerò non ne è certo fuori. Non si accantona infatti la morte senza pagare un costo altissimo. Bisogna gestire quindi il pericolo che la morte costituisce, la morte come elemento culturale, e non accantonarla con l'efficientismo cinico che è oggi l'ideologia imperante. "Lottare per una vita migliore, senza sfruttamento-appropriazione del dominato da parte del dominatore, per una società nuova che preferisce l'accumulazione d'uomini, a quella di beni, vuol dire nello stesso tempo rifiutare il tabù della morte in quanto mediazione dei potere che opprime".(5) Vediamo ora, sempre per quanto lo spazio a disposizione ce lo permetta, se esiste il tabù della morte, qual è l'atteggiamento nei confronti dell'atto finale e quali sono i rituali esistenti tra gli esponenti delle classi subalterne dell'area, abbastanza limitata e relativamente complessa, quale è quella salentina. E' chiaro che le culture prese in esame in questo scritto non si possono e non si devono intendere come due realtà decisamente separate e contrapposte, ma soltanto come le due parti imprecisate e opposte di una sola retta, che comunque è una, non permette di stabilire soluzioni di continuità, né di fissare limiti di divisione. Il concetto base sotteso ad ogni ragionamento e sentimento è, che tutto passa - "Mena mena ka poi passa", "Olo pai" - il Panta rei della filosofia eraclitea. Davanti ad ogni sciagura della vita, morte inclusa, il salentino rimane relativamente calmo tanto tutto è destinato a passare, a mutare, a divenire. A chi gli chiede come sta, la risposta che dà è sempre la stessa: "Tiràmu finché non ci tìrane" (Andiamo avanti finché qualcuno non ci trasporta al cimitero). Identico il detto grecanico: "Sìrnome ris'e'mma sìrune". Ciò non significa però che davanti alle difficoltà più grosse e soprattutto all'evento luttuoso il salentino rimane apatico rassegnato. La morte anche se viene considerata come un fatto naturale che investe uomini animali e piante, fatale, ineluttabile, viene combattuta con vari mezzi che vanno dalle pratiche magico-religiose alla medicina ufficiale. "Per stare bene" si frequentano santuari e ci si rivolge ai santi. Sono famosi i santuari di San Rocco a Torrepaduli, di San Donato a Montesano, dei Santi Pietro e Paolo a Galatina, di San Pantaleo a Martignano, di San Donato nel paese omonimo, dei Santi Medici a Oria ecc. Si passa attraverso "la pietra forata" di San Vito sita nella campagna calimerese, si praticano usi magici per scongiurare la perdita della salute e per allontanare l'evento luttuoso che in alcune poesie grecaniche comunque non è dato mai per scontato: "A'ppesàno, aftèntimu kòseme ... " (Se muoio, mio Signore, sotterrami...), "A'ppesàno telo na me klazzi ... " (Se muoio voglio che tu mi pianga), anche se, subito dopo, chi parla richiede ai sopravvissuti un certo determinato comportamento, post mortem. Il tabù della morte nella cultura contadina salentina non esiste. Di morte si parla, di morte si racconta nelle serate d'inverno o seduti al fresco nelle notti d'estate, di morte si canta. Esiste certo la paura di morire, per timore del giudizio divino, soprattutto nella cultura salentina di lingua romanza; e la troviamo presente in vari testi della poesia popolare. In uno raccolto a Lecce, per esempio, si dice: Ièu me
curcu a lettu mèu la sera e un altro, abbastanza
diffuso in tutto il Salento, comincia "Morte Giudiziu infernu e
paradisu". - Sentu le porte
bbàttere - No'ssuntu né
lu medicu - Aprìtili
la porta - Non vòju
né la porta - Dàtili
'na sedia - Non vòju
né la sedia - Dàtili
la bbanca Alla morte si vuol dare ancora una nave per navigare, un giardino per passeggiare ed altro, a seconda delle versioni della poesia, ma sempre senza speranza. L'ultima quartina è della Morte e conclude: - Mintìtili
le vesti Ed ecco compiersi per il contadino salentino l'eresia della morte. A questo punto scatta una serie di comportamenti rituali per contenere e canalizzare la piena del dolore che può togliere al superstite la facoltà di "trascendere il momento critico della situazione luttuosa" (7) Klàfsete,
mane, pu èkete pedìa ti sas afìnnu'
pròppi to cerò. Piangete, o madri,
che avete figli, perché
vi abbandonano anzitempo. Il pianto e il lamento
che in questi versi vengono consigliati fanno ancora parte, ma raramente,
del rituale funerario della classe povera salentina sia grecanica che
romanza. (9) - Issimèlu
dittu, màmmama, canta davanti alla bara l'ultima prefica salentina, e a questo dialogo, uno dei tanti in romanzo, fa eco l'altro in grecanico: - Arte pu se
xòsa', kècciamu, - Mu to stronni
o mavro Tànato - Ti' su ttiàzzi
a capetàia
- Ettù
'kau e' panta ìpuno, Ora che sei sotto
la terra, piccola mia, Me lo rifà
il nero Tanato Chi ti mette
a posto il cuscino Me lo mette a
posto il nero Tanato Chi ti sveglia,
figlia mia, Qui sotto è
sempre sonno, Sono dialoghi con la dimora buia, senza speranza, pieni di tristezza. Ma nei dialoghi al cimitero e, soprattutto nel pianto e nei canti delle donne greche, non c'è l'angoscia dei Giudizio, non si aspetta il giorno del ritorno, della resurrezione - giorno in cui le tombe si apriranno e i morti verranno fuori, il che genera nei vivi l'ideologia del ricordo -, né l'attesa, c'è invece la certezza che tutti un giorno saremo nel mondo di là, sotto la nera pietra, e c'è la sicurezza che da lì nessuno più ritorna, o forse solo, come continua il lamento romanzo citato prima, "Quandu
caccia mascìscia l'Alìmini, e l'Alimini non
sarà mai fertile e il mare non sarà mai seminato. NOTE 1 - Philippe Ariès
- STORIA DELLA MORTE IN OCCIDENTE, Rizzoli Editore, Milano 1978, pag.
74. |
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