Un fulcro grecosalentino
del culto per gli antichi "autori" fin quasi alla fine del Quattrocento.
Il viaggiatore che
si lascia alle spalle Otranto per imboccare la strada litoranea che
porta a Badisco e quindi a Santa Cesarea Terme, supera lentamente, innestando
la seconda, le poche ma ripide rampe che dall'angusta valle al livello
del mare lo immettono in ampio cielo.
A sinistra rimane la chiesa di San Francesco di Paola con il fatiscente
convento, là, sul colle della Minerva, dove ottocento otrantini,
nell'agosto del 1480, finirono martiri sotto la scimitarra del Turco.
Si sale ancora un poco, cade la roccia tagliata sulla strada, e finalmente
si è al centro di un orizzonte sconfinato, fatto di timi e di
onde dì mare, di nubi sfioccate e di pietraie.
-Volgendo rapidamente lo sguardo a sinistra, si scorge solitario il
tronco scavato della Torre del Serpe tra basse linee di spiaggia. A
gonfia parabola le Orte discendono nella scogliera. Si procede lentamente
per assorbire chiarezze di colori e di immagini.
Un poco più innanzi, sempre a sinistra, la masseria " I
monaci ": galline, un cane smagrito, un volto di donna al portello,
ombrata dallo scialle di lana. Si indovina lontano Punta Palascìa.
A mezza strada l'occhio è fermato dalle strutture ingegnose del
Centro Radar dell'aviazione militare. Ma, prima di giungervi, ecco sulla
destra un corto sentiero assettato con tufo e al termine di esso la
meta. la masseria di S. Nicola di Càsole. Tutt'intorno, terre
arate di fresco, silenzio.
Scendendo dalla macchina, si ha dinanzi volto, dunque, a levante - un
fronte piuttosto basso di mura antiche, in parte franate, assai spesso
modificate da opere murarie più recenti. Un atrio coperto porta
all'ampio cortile interno, reso diseguale da costruzioni coloniche,
alcune delle quali sono riadattamento di precedenti abitazioni. Al centro,
sopra una cisterna, un puteale che annovera secoli. A sud, il cortile
confina con muri a secco e con casupole sconnesse; ad est, corre lungo
la facciata di una casa rustica a pianoterra, per poi allargarsi fra
due brani di alti muri, appartenuti ad una chiesa, che, a giudicare
da quel pochissimo che resta, dovette essere bella e maestosa. Sul muro
superstite più ampio si ammirano due poderosi pilastri polistili,
ma un'apertura colma di macerie ed una nicchia, così come altri
pochi elementi architettonici, sono indecifrabili. A nord è limite
un basso edificio agricolo, mentre ad ovest si notano avanzi compatti
di una solida costruzione, ridotta anch'essa al pianoterra, la quale
dà indizio di aver poggiato su muraglie da difesa. All'interno
la parte più antica è occupata da un lungo vano a botte
ogivale, attualmente tramezzato e fatto deposito di paglia. Poi, per
un arioso passaggio con volta a botte, aperto su questo lato, si esce
di nuovo alla campagna e si lascia subito sulla destra un complesso
colonico abbandonato. In fondo, tra erbe e rovi, una cisterna si eleva
di molto rispetto al livello del terreno, e forse fu l'antica neviera.
Quindi, attraverso i campi e il verde: laddove si declina alla vallata,
un'apertura nella roccia immette in un basso locale naturale con resti
evidenti della funzione che ebbe in tempi remoti, quella di frantoio.
Tutto il complesso e trenta ettari all'intorno sono oggi proprietà
di un'unica famiglia contadina, che cura, in particolare, con grandi
sacrifici e fatiche, l'allevamento dei bovini. Il vecchio capo di casa,
un uomo mite e scavato dalle stagioni, sente la responsabilità
che gli incombe da quei ruderi, e lascia l'aratro a forca, per accompagnare
chi viene ed introdurre, di tanto in tanto, le proprie opinioni su quello
che resta.
Qui un tempo si ergeva l'abbazia di S. Nicola di Càsole, fondata
da Giuseppe, al tempo dei Normanni, nel 1098-99, distrutta dai Turchi
nel 1480. Allorchè questi abbandonarono Otranto, poco più
di un anno dopo, pietà di superstiti e cure della chiesa idruntina
non valsero a rianimare il monumentale complesso ferito a morte, sicchè
le iniziative prese nel '500 e nel '600 ne prolungarono solo l'agonia,
durata fino ai primi anni dell'800. Non c'era più, come osserva
l'Antonaci, chi potesse ridare autentica vita a quel luogo: la comunità
monastica.
Nel 1886 Carlo Diehl scriveva: " All'estremità meridionale
della penisola italica, vicino alla cittadella di Otranto, si ergono,
sopra una piccola altura che domina il mare, i resti del convento basiliano
di S. Nicola di Càsole. Dal 1480 in cui i Turchi depredarono
il monastero e lo devastarono, la celebre abbazia non si è più
completamente rifatta dalla sua rovina; nel vasto recinto, occupato
oggigiorno dagli edifici di una masseria, solo una piccola cappella
ricorda l'antico splendore del convento. Pochi resti di pitture con
delle iscrizioni greche ne coprono i muri: qui S. Nicola, patrono dell'abbazia,
là S. Cosimo e Damiano, i santi medici così cari alla
chiesa greca, e infine S. Basilio, protettore dei monaci, ricordano
l'origine e le tradizioni del monastero. Eppure questi miseri resti
non tarderanno molto a scomparire: di già l'incuria dei paesani
ha trasformato la cappella in fienile, e ben presto del vecchio convento,
così celebre nel medioevo, non rimarrà che il ricordo
e il nome ".
Oggi neppure questa cappella è visibile.
Nondimeno, osservando con occhio attento tanta avarizia di resti, l'immaginazione
ricrea la solennità e la solidità delle antiche strutture,
la complessità e semplicità, insieme, degli ordinamenti
di vita di quel nucleo un tempo fervidamente abitato.
Pratiche spirituali e attività di studi, lavori agricoli e sfruttamento
della pesca, incombenze artigiane e cure amministrative, tutto era disciplinato
da norme che derivavano, sia pure con molte modifiche, dalla primiera
regola di S. Basilio e tutto era incanalato in una trama di rapporti
che faceva di quella abbazia una piccola città, E, come la città
del tempo, anche quel luogo dovette essere fortificato.
Più interessante, tuttavia, è ricostruire, oltre al fervore
spirituale, quello culturale del monastero, opera a cui si sono già
direttamente o indirettamente dedicati, sulla scorta di atti e manoscritti
rimasti, pazienti ricercatori e appassionati studiosi (in particolare
il Diehl prima citato, De Simone, Omont, Krumbacher, Cozza Luzi, A.
e O. Parlangeli, Borsari e Gigante, Devreesse, Hoeck e Loenertz, Janin,
Petta, Cezzi).
Un ricordo esaltante degli studi che si coltivavano in S. Nicola di
Càsole e della scuola che quei monaci avevano offerto ai giovani
con mirabile generosità è stato tramandato dal grande
umanista salentino Antonio De Ferrariis Galateo (1444-1517), il quale
così scriveva nel suo De situ Iapygiae, nei primi anni del '500:
" Dopo questo (porticciolo) vi è un cenobio dedicato a San
Nicola, il quale dista da Otranto millecinquecento passi. Qui viveva
in comunità una moltitudine di monaci del grande Basilio. Costoro,
degni di ogni venerazione, tutti istruiti nelle lettere greche e, la
maggior parte, anche in quelle latine, offrivano di sè un'immagine
estremamente esemplare. Chiunque desiderava dedicarsi alle lettere greche
riceveva in dono il vitto quasi per intero, il maestro, l'alloggio,
senza alcuna mercede. Così lo stato della grecità, che
ogni giorno va a ritroso, veniva sostenuto ".
Indubbiamente lo zelo dei monaci basiliani nasceva anche, e soprattutto,
da preoccupazioni politico-religiose nel contesto di quel grande conflitto
tra la chiesa greca e quella latina, che riduceva via via, nel Salento
come altrove, l'area del rito greco. Paradossale sorte, dunque, quella
toccata all'abbazia di Càsole e alla sua opera educativo-culturale,
e di essa si duole il Galateo, che forse ne avverte le ragioni e non
le dice: mentre in Italia fiorisce l'umanesimo, che esalta il mondo
antico e le lettere classiche, questo fulcro periferico di diffusione
di studi greci è sempre più impedito nella sua opera di
proselitismo, perchè scomodo alle mire egemoniche del Papato
e della chiesa di Roma. Quando a Firenze, nel '300, per opera, soprattutto,
di Coluccio Salutati, si istituiva la prima cattedra di greco nel celebre
Studio, affidata a Manuele Crisolora, in questo estremo lembo d'Italia
lo studio delle lettere greche era assai diffuso, così come dialetti
neogreci si parlavano in molte terre del Salento. E quando, successivamente,
gli studia humanitatis dovevano sempre più, a livello dotto,
propagare una nuova cultura imbevuta di classicità e una nuova
civiltà, a Càsole si aveva il tramonto, che fu affrettato,
per giunta, dall'invasione turca. Certo gli interessi educativi nell'abbazia
basiliana non erano umanistici; c'erano preoccupazioni di salvaguardia
e di conservazione d'una civiltà bizantina ormai al tracollo
(e gli Ottomani spazzarono via anche questa), così come di difesa
della liturgia greca non sempre sufficientemente apprezzata a causa
delle sue connotazioni, le quali, a volte, suscitavano il fantasma dello
scisma di quella chiesa ortodossa, che il Papato, pur tra ripetuti tentativi
di intesa, per secoli aveva contrastato con abile tattica, portandola
a scomparire per asfissia da ogni lembo d'Italia. In un contrasto di
tale natura e portata, era, per così dire, scontato che l'opera
dei basiliani dovesse rivelarsi, a lungo andare, inane.
Resta, comunque, il fatto innegabile che l'abbazia casolana per secoli
fu centro culturale e luogo d'istruzione per i giovani delle terre salentine
che vi accorrevano al fine di avviarsi alla religione e allo studio
o al perfezionamento della lingua e delle lettere greche. Essi, poi,
restavano a Càsole come monaci o tornavano nei luoghi natii,
dove generalmente intraprendevano la via del sacerdozio. Si può,
senza troppi dubbi, affermare che alla scuola dei basiliani si indirizzavano
soprattutto i figli delle genti grecosalentine che, nella maggior parte,
restarono staccate da quel processo di decisa trasformazione sociolinguistica,
per il quale nel Salento, a poco a poco, sotto la spinta della chiesa
di Roma e della corte di Napoli (specie nel periodo aragonese) e con
il favore preminente della borghesia colta e mercantile, riprendevano
il sopravvento i dialetti romanzi con tendenza a regolarsi, nella scrittura,
secondo un'ideale lingua letteraria. A Càsole, dunque, convenivano
i destinati alla casta sacerdotale di rito greco e, per alcuni nomi
che si rinvengono in antiche carte, i giovani della nobiltà grecosalentina,
la quale nella padronanza del greco riconosceva uno dei propri privilegi.
L'amore per il sapere era vivo ed austero nel cenobio casolano. Norme
precise erano date per l'amministrazione e la tutela dei manoscritti
in esso raccolti; erano previste punizioni per chi li deteriorasse ed
anche per chi li esemplasse con errori. I volumi, perciò, erano
custoditi con estrema cura e rispetto; vi era attiva una scuola scrittoria;
la biblioteca veniva continuamente arricchita di nuove opere. E queste,
in parte, finirono nel patrimonio librario degli umanisti, giovando
indirettamente alla formazione di una nuova visione del mondo. Sicchè,
anche nei riguardi dell'opera solerte e appassionata di alcuni monaci
casolani e di coloro che ne seguirono le orme in terre vicine ad Otranto,
ben si applica quel che osservava E. Norden a proposito dei precursori
del Rinascimento: " vi sono stati in ogni tempo, nel Medioevo,
uomini rinomati, che non tenevano conto dei pregiudizi della grande
massa e che, con senso liberale, avevano relazioni con gli antichi autori
".
Il Galateo ricorda ancora una grande abate " nominato Niceta "
(su questo ragguardevole personaggio, che resse l'abbazia fra il 1219
e il 1235, ha soffermato la propria attenzione il Cezzi, dimostrando
come in esso si identifichino Nicola d'Otranto e Nettario di Càsole).
" Costui, per nulla affatto risparmiando spese, raccolse in una
biblioteca, in questo cenobio, i libri di ogni genere che potè
trovare per tutta quanta la Grecia, e una gran parte di essi andò
in rovina per la negligenza dei Latini e per il disprezzo delle lettere
greche ". Ancora una volta dalle parole del Galateo emerge il grande
conflitto tra Greci e Latini, che assorbì e travolse le iniziative
culturali dell'abbazia casolana.
E l'umanista salentino aggiunge, a proposito del destino di quella stupenda
biblioteca: " Una non piccola parte di essa fu trasferita a Roma
presso il cardinale Bessarione, e di là a Venezia; la parte,
invece, che era rimasta, fu dispersa dalle azioni belliche dei Turchi,
che saccheggiarono il monastero ".
Dei codici manoscritti (e sono diversi) che tramandano dati cronologici,
regolamenti, rituali, prescrizioni varie o le opere di questi monaci
basiliani, alcuni (fra i principali, il Tor. gr. 216, il Paris. gr.
1371, il Paris. Suppl. gr. 1232, il Laur. V, 10 e il Vat. gr. 1276)
attestano come, intorno a Nettario e al monastero di Càsole,
fiorì un circolo poetico grecosalentino che risentì gli
influssi della scuola siciliana. Ma Nettario fu grande anche per i suoi
scritti di natura teologica e liturgica, dai quali traspare spesso il
suo temperamento di polemista. E fu pure traduttore di testi religiosi
dal greco in latino.
E, tuttavia, ancor più ricca di suggestioni appare la sorte di
alcuni volumi usciti dalla biblioteca o dalla scuola scrittoria dell'abbazia
di Càsole e approdati in luoghi lontani. Il Diehl, ad es., forniva
interessanti informazioni: " La Biblioteca Nazionale di Parigi
possiede parecchi manoscritti provenienti da S. Nicola: un manoscritto
di Callistene, De vita Alexandri Magni (si tratta dell'opera romanzata
che oggi va sotto il nome dello pseudo-Callistene), di mano di Nettario,
ieromonaco di S. Nicola nel 1469; un manoscritto di Apollonio di Alessandria,
stilato nel 1469 da Gioacchino, monaco della stessa abbazia e priore
di S. Conon, per il celebre ellenista Costantino Lascaris ... ; e parecchi
manoscritti di Giovanni d'Otranto, senza dubbio monaco del convento
... A Madrid si conserva pure un Gregorio di Nazianze, scritto da Gioacchino...
La Laurenziana di Firenze, l'Escuriale e la Biblioteca Nazionale possiedono
inoltre manoscritti dell'igumeno Nicolò d'Otranto, provenienti
senza dubbio dalla stessa biblioteca di Càsole ".
Altri codici, come s'è visto prima, si trovano a Torino e nella
Biblioteca Vaticana, nei diversi fondi di questa. E ce ne sono pure
a Grottaferrata e in altre biblioteche italiane e straniere.
Ma nel ripercorrere con l'immaginazione gli itinerari e i destini di
questi volumi manoscritti non si può non accostare ad essi, in
pari tempo, le vicende di altri codici nati sotto l'influsso della scuola
scrittoria dei basiliani di Càsole. Questa, infatti, stimolò
almeno, quando addirittura non le regolò, la penna e le scelte
di altri copisti grecosalentini, le cui fatiche, anch'esse, migrarono
altrove, quantunque in circostanze e per cause ben diverse. Si tratta
di diecine e diecine di codici greci sparsi per il mondo. Essi sono
oggi riposti, accanto a quelli casolani, nelle stesse biblioteche innanzi
nominate, e in molte altre, come la Biblioteca Ambrosiana di Milano,
la Queriniana di Brescia, la Casanatense, la Corsiniana e la Vallicelliana
di Roma, la Nazionale di Napoli, quella del Seminario di Molfetta, il
British Museum di Londra (fondo Harleiano), la Biblioteca di Karlsruhe,
la Biblioteca di Stato di Monaco di Baviera, la Sinodale di Mosca, la
Biblioteca Nazionale di Vienna. Altri ancora potrebbero essere rinvenuti.
Una buona parte di questi manoscritti, sulla scia degli interessi casolani
e della chiesa di rito greco, contengono raccolte di canoni dei primi
concili, trattati di diritto canonico, evangeliari, manuali liturgici,
salteri, preghiere ed inni (con note musicali per il canto), omelie,
florilegi ascetici, vite di santi ed altri scritti, quanto mai vari,
di natura teologica e religiosa. Gli autori sacri che più ricorrono
sono S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Nazianzeno, Dionigi
l'Areopagita, Filogato Ceramita, Teofilatto di Bulgaria.
Tra i codici grecosalentini e casolani del XIV e del XV sec. più
di uno tramanda opere di Aristotele (ad es., le Categorie, il Dell'interpretazione,
la Fisica, la Retorica) e commenti ad esse (di Ammonio, di Psellos,
di Filopono - al trattato Dell'anima - e di altri); in uno (XV sec.)
è esemplato il Cratilo di Platone.
Diversi codici trascrivono trattati di grammatica greca.
Ma numerosi sono pure quelli che contengono opere letterarie, scaglionati
nel tempo (XIII, XIV, XV sec.) con una frequenza che diviene notevole
agli inizi del XVI secolo, periodo conclusivo dell'attività dei
copisti grecosalentini.
Di probabile derivazione casolana è il più antico di essi
(Vat. gr. 2383), che riporta Le opere e i giorni di Esiodo con il commento
di Giovanni Tzetzes. Nell'altro, che il Diehl cita per la Vita di Alessandro
Magno dello pseudo-Callistene, si leggono pure molte favole di Esopo.
Ecco gli autori e le opere di maggiore spicco in questa serie di codici:
l'Odissea di Omero, la Batracomiomachia, versi di Focilide, le Olimpiche
di Pindaro, il Prometeo incatenato e i Sette a Tebe di Eschilo, l'Aiace,
l'Edipo re, l'Elettra e il Filottete di Sofocle, diverse tragedie di
Euripide, il Pluto e le Nuvole di Aristofane, l'Alessandra di Licofrone,
le Argonautiche di Apollonio Rodio, gli inni di Proclo, le Argonautiche
attribuite ad Orfeo. Vi si leggono pure le opere di alcuni autori bizantini.
Il Galateo, fonte preziosa, ricorda che in Nardò fiorì
un " ginnasio ", cioè una scuola superiore di studi
filosofici e letterari, che divenne celebre nell'insegnamento delle
lettere greche soprattutto quando declinò, nel Salento, la fortuna
dei Greci. E, tuttavia, senza ombra di dubbio si può affermare
che le fatiche scrittorie dei copisti grecosalentini risalgono alla
esclusiva lezione casolana. Furono quasi tutti sacerdoti di rito greco,
oltre agli stessi monaci basiliani, gli amanuensi di così grande
copia di codici.
Ma fuori delle mura dell'abbazia di Càsole non regnava la stessa
gelosa tradizione e conservazione del materiale librario. Questo, certamente,
fu più apprezzato, gustato e custodito fino a quando quel cenobio
fu fiorente. Allorchè esso venne distrutto dalla bufera turca,
mancò intorno l'esempio d'una vigile custodia della sapienza
del passato. E così quei codici divennero oggetto di mercatura,
quando non furono rapiti.
E', tuttavia, consolante, sopra tanta dispersione, ammirare l'opera
fecondatrice del vento della storia.
Sintomatica, a tal proposito, per gli effetti che ne dovevano discendere,
è la vicenda del Bessarione in visita a Càsole. Il cardinale,
basiliano anche lui e protettore dei monasteri greco-bizantini dell'Italia
meridionale, venuto nell'abbazia, ne ammirò la ben fornita biblioteca.
Ottenne di portar via con sè un buon numero di codici, tra i
più interessanti certo della raccolta casolana. Tra quelli si
ricorda il manoscritto contenente I Postomerici di Quinto Smirneo, il
Ratto di Elena di Colluto Licopolita ed altri carmi di autori del periodo
ellenistico-romano. Quel fondo andò ad arricchire la biblioteca
personale del dottissimo prelato. Questa, poi, per volontà dello
stesso Bessarione, dopo la sua morte, con il permesso del Papa, passò
a Venezia, dove costituì il primo e più prezioso nucleo
della Marciana.
Il sogno, dunque, già del Petrarca, quello, cioè, di costituire
una ricca biblioteca, da mettere poi a disposizione di chiunque avesse
voluto accostarsi alle fonti varie e feconde del sapere, veniva realizzato
da questo illustre cardinale, che dava vita alla prima biblioteca pubblica
moderna. E in quei fondo da lui donato a Venezia erano confluite le
fatiche scrittorie di alcuni monaci casolani.
Così, da questo cenacolo eccentrico di cultura e di studi, destinato
a sparire proprio quando, forse, avrebbe potuto acquistare nuove funzioni
e nuove prospettive, molteplici faville di sapere si spargevano lontano
ad accendere più giovanili fuochi su terreni già pronti.
Stasera, in quest'aria fresca di ottobre, nella luce del tramonto che
intenerisce le erbe ed ovatta il volo dei passeri, resta solo la possibilità
di fantasticare su quel che poteva essere e non fu. La storia ha, purtroppo,
nel suo corso, motivazioni sostanziali, anche quando in esse si inserisce
un accidente, come fu lo sbarco dei Turchi avvenuto qui e non altrove.
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