Guru?
Come è stato
possibile
sottovalutare
i sintomi di un
crac di portata
planetaria, i rischi
di contagio a
livello mondiale
e l’impatto della
crisi finanziaria
sull’economia
reale? |
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La polemica è stata innescata a cose avvenute,
e non poteva non essere così: secondo
l’economista Roberto Perotti, nessuno –
salvo Nouriel Roubini e Robert Shiller – ha
capito che la crisi stava arrivando, e in ogni
caso nessuno ha dato indicazioni sui modi
per evitarla o per uscirne; e molto probabilmente,
secondo l’economista Marco Fortis,
ce l’aveva col ministro Tremonti, che con il
suo provocatorio «Silete, economisti!» aveva
perentoriamente invitato la categoria a
tacere. In questa presa di posizione incoraggiato
da Giuliano Amato sulle colonne
de Il Sole-24 Ore, («Ha proprio ragione il
ministro, quando li invita a un pudico periodo
di silenzio»), e dal professor Giovanni
Sartori in un editoriale sul Corriere della Sera («Perché gli economisti non hanno
adeguatamente previsto e denunciato la follia
dei “subprime”, i mutui senza sufficiente
copertura?»).
Ma chi aveva capito, e chi invece no, che la
crisi stava sopraggiungendo? Per rispondere
a questa domanda cruciale, è necessario
riferirsi alle alte personalità accademiche,
politiche, economiche, che ora vanno per la
maggiore: il probabile prossimo candidato
al Nobel, Alberto Alesina, docente ad Harvard;
il docente e columnist Francesco Giavazzi;
un economista “alternativo” al pensiero
unico sul primato dei mercati finanziari,
del modello americano e della tecnoglobalizzazione,
(la corrente di pensiero di
cui gli stessi Giavazzi e Alesina sono considerati
i massimi esponenti), vale a dire
Marco Vitale; e lo stesso ministro dell’Economia,
che va preso inevitabilmente in considerazione,
dal momento che è stato al
centro del dibattito (e delle polemiche) con
gli economisti.
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Un disoccupato in una strada di Wigan, nella Contea del Lancashire, in una foto degli anni Trenta. Orwell vi ambientò un suo romanzo, dove narrò le condizioni di vita e di lavoro degli operai. |
E partiamo dal 2006. Esattamente il 25 luglio
di quell’anno, Marco Vitale pubblica
su Finanza e Mercati un articolo dal titolo
emblematico: “Via dall’America, prima che
sia troppo tardi”. E fra l’altro vi scrive: «La
depressione immobiliare potrebbe causare
una crisi dei consumi e un rallentamento di
2 punti della crescita attesa del Prodotto interno
lordo americano, con un crash landing
dell’economia globale».
Quanto sostenne due anni e mezzo fa Vitale
dimostra che non è vero che soltanto pochi
economisti stranieri avevano previsto la crisi.
Anche nel nostro Paese c’è chi l’aveva
lucidamente annunciata (e potremmo citare
altri economisti, come il professor Mario
Deaglio), mentre Alesina e Giavazzi si stavano
ancora occupando di un “instant
book”, Goodbye Europa. Cronache di un declino economico e politico, sulla superiorità
del modello americano di sviluppo rispetto
a quello europeo.
È interessante sottolineare che nel 2006 Vitale
non solo prevede la crisi statunitense,
ma si sbilancia anche sulla data (il 2007-
2008) e sulle sue dimensioni, anche se queste
peccano per difetto. Egli fornisce persinodelle ricette, se non ai politici, perlomeno agli investitori, attraverso i consigli di
un suo amico americano, da lui citato; consigli
che riassume in questo modo: «Realizzare
gli investimenti in Usa, sia mobiliari
che immobiliari, prendendo tutti i benefici
maturati. Ridurre la leva finanziaria e porsi
in una posizione più liquida possibile. Non
investire nulla per ora negli Stati Uniti».
Che dire poi del ministro italiano dell’Economia?
In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dal titolo “Come nel ‘29: rischio
crisi per l’America”, il 12 novembre
2006 affermava: «Mentre in Europa gli immobili
sono soprattutto un valore patrimoniale,
in America sono il centro dell’economia:
è sul valore degli immobili che le famiglie
americane ottengono credito dalle banche.
Oggi la crisi immobiliare negli Stati
Uniti è molto forte; e questo si riflette sui
grandi numeri dell’economia, che in un
tempo molto breve è scesa da una crescita
del 5 per cento al 2 per cento».
Ma, precisa, «il 2 per cento in America non è crescita, perché corrisponde in equilibrio
solo all’immigrazione e all’incremento della
forza lavoro. Anche qui le ipotesi sono due.
La prima: il passaggio dal boom allo
sboom non ha causato il collasso, perché il
sistema finanziario è ben equilibrato, ha assorbito
la crisi e può ripartire. La seconda è
una crisi strutturale, tipo 1929. Io spero
nella prima ipotesi, ma temo la seconda».
Dunque, anche in questo caso ci troviamo al
cospetto di una previsione molto precisa. E
non è che venga immaginata una “minirecessione”
qualsiasi: Tremonti parlava di una
crisi a breve termine, tipo ‘29, magari peccando
per eccesso, ma l’obiettivo era soprattutto
quello di far capire che stavamo andando
incontro a qualcosa di eccezionale.
Analizziamo la situazione, qual è stata esattamente
un anno dopo. Siamo nell’estate
2007. La crisi dei mutui immobiliari americani è già più che evidente. La banca britannica
Northern Rock e l’americana Bear
Stearns sono praticamente in stato fallimentare,
il che rende necessario il salvataggio
dei due istituti di credito da parte dei rispettivi
Stati. Le Borse mondiali incominciano a
scendere, poi a cadere in picchiata. Sicché è
di nuovo il momento giusto per verificare
chi avesse capito, e chi no, che cosa stava
realmente accadendo.
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ICP Milano |
Scriveva Alesina, su La Stampa del 20 agosto
2007: «Quella in atto è una correzione,
come ce ne sono state altre. No, non vedo in
arrivo lo scoppio di una bolla come quella
della New Economy. Ultimamente si era
esagerato un po’ a prestare denaro grazie a
tassi di interesse troppo bassi, ora è in atto
una forte correzione, tutto qui». E ancora lo
stesso autore, su Il Sole-24 Ore del 7 settembre
2007: «Finora non è accaduto nulla di
catastrofico, né a mio parere accadrà».
Esattamente nello stesso periodo, sul Corriere della Sera del 4 agosto 2007, anche Giavazzi
si esprimeva così: «La crisi del mercato
ipotecario americano è seria, ma difficilmente
si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata.
Nel mondo l’economia continua
a crescere rapidamente. La crescita consente
agli investitori di assorbire le perdite ed evita
che il contagio si diffonda».
Di parere del tutto opposto, l’ostinato Tremonti:«In America», dice sul Corriere della
Sera dell’11 agosto 2007, «si trovano il principio
e la fine di una crisi potenzialmente
globale. La crisi dell’economia finanziaria
diventa sempre crisi dell’economia reale. La
crisi dell’America diventa sempre crisi del mondo. La cosa positiva è che governo e autorità
monetarie, se lo capiscono e se lo vogliono,
possono ancora intervenire».
Mentre Vitale scrive sul mensile Vita del settembre
2007: «Sono preoccupato di qualcosa
di cui si parla troppo poco e cioè della dimensione
immensa che ha raggiunto il mercato
dei derivati […]. Questa eccessiva finanziarizzazione
dell’economia creerà ancora
problemi».
È evidente, dunque, che c’è stato chi ha previsto
tutto o molto per tempo, mentre c’è
stato chi non soltanto nel 2006, ma addirittura
a metà 2007, di fronte ai primi ed evidentissimi
segnali di svolta dei mercati, negava
ancora che la situazione americana potesse
in qualche modo degenerare.
Ma come è stato possibile sottovalutare fino
a questo punto i sintomi di un crac di portata
planetaria, i rischi di contagio a livello
mondiale, e il possibile impatto della crisi finanziaria
sull’economia reale?
Probabilmente – è la giustificazione addotta
dai difensori d’ufficio – gli economisti sono
stati presi alla sprovvista in gran parte perché
la conoscenza di importanti dettagli,
molto tecnici ma fondamentali, non è percolata
in tempo dagli esperti di settore ai macroeconomisti.
Storie! Questi eventi dimostrano
che il mestiere di guru dell’economia
è proprio difficile, soprattutto in tempi di
turbolenze come i nostri. Giavazzi e Alesina
hanno sbagliato in pieno. E temiamo che
anche la loro ultima profezia alla fine si rivelerà
errata.
Nel loro nuovo libro La crisi: può la politica salvare il mondo?, infatti, sostengono che i
rischi di un nuovo statalismo e di un nuovo
protezionismo, che potrebbero far precipitare
l’attuale crisi economica mondiale in un
nuovo ‘29, verranno soprattutto dalle politiche
che hanno in mente di adottare Nicolas
Sarkozy e Tremonti.
A noi sembra invece che i rischi maggiori di
un’accentuazione dello statalismo e del protezionismo
possano provenire dalle decisioni
che il presidente Barack Obama potrebbe
essere costretto a prendere per salvare l’America
(e di conseguenza il mondo occidentale)
dal baratro.
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