Ma le paludi erano il regno anche delle
sanguette, le
sanguisughe, che venivano raccolte
e vendute alle
farmacie, che
le utilizzavano
per regolare
la pressione
sanguigna.
|
|
Il chiarore dell’aurora che ti cattura. Immobilità
intorno. Qualche flebile cinguettio. Tra poco, il risveglio. Ti
senti avvolto in questa piacevole sensazione di silenzio e di leggerezza
indescrivibile. Hai voglia di rimanerci incatenato, senza pensiero.
Leggere folate di vento, il fruscio di lunghi stupefatti aghi, le
canne e… Cesarino: «Devo darmi da fare prima che il
sole…», e a testa in giù a tirar “sciuncu”,
“sciuncacchia” e “paleddri”.
Poi il sole che esplode, il ritorno alla realtà e la voglia
di fotografare la luce, il gesto, il colore; ogni attimo è
importante per documentare. La curiosità, le domande, tante,
si affastellano pian piano su Cesarino che ogni tanto, mettendosi
dritto e con una mano in fronte, scruta lontano: «Cercu na
stisa bona de paleddru...», e mi spiega che tanto tempo fa
il posto “buono” non era certo una fatica trovarlo.
Siamo nelle paludi di Torre Lapillo, a nord di Porto Cesareo, sulla
costa ionica salentina. Vi siamo giunti in auto da Acquarica del
Capo dopo un’ora circa a velocità di crociera. E’
un itinerario che Cesarino percorre sin da piccolo, quando insieme
con il padre sgambettava fino alla “Serriceddra” o alla
“Massaria”, tra Torre Lapillo e Avetrana, emigrando
sovente anche verso la costa dell’Adriatico, a Rauccio, presso
Torre Chianca, o verso la zona umida di Torre Guaceto, per rifornirsi
di giunco.
Unica risorsa per le famiglie di Acquarica era la cava di pietra
o “lu paleddru”, che il padre di Cesarino raccoglieva
nelle paludi dei Pali, di Rottacapozza e delle Mammalie, prima dell’intervento
di bonifica idraulica e fondiaria. Bonifica resasi necessaria per
migliorare le condizioni ambientali e dare le possibilità
di impianto di colture che producessero un minimo di reddito e garantissero
la presenza, non solo stagionale, dei contadini, ostacolati nella
loro fame di terra dalle difficoltà di dominare l’acquitrino
e rendere inoffensivi i miasmi e gli insetti della palude. L’infezione
malarica era sempre in agguato e tutti i comuni sottoposti all’intervento
di bonifica ne venivano colpiti. «Il paese più colpito
è Ugento, in cui, negli anni 1926 e 1931, si ebbero rispettivamente
2.416 e 2.076 casi di malaria».
Il mezzo di trasporto più usuale era il carro, “u
trainu”, molto spesso preso in fitto (poi vennero la bici
e molto più tardi il motorino), e con quello si andava ad
Avetrana e si rimaneva dai tre ai sei giorni. Era necessario approvvigionarsi
e compensare anche le spese. Ci si metteva subito al lavoro, spettando
ai più giovani il compito di preparare con le canne il riparo
per la notte, sempre come tetto il cielo, mentre i più fortunati
occupavano qualche rara pajara.
Il lavoro veniva organizzato sfruttando lo spazio di palude che
ad inizio stagione era stato preso in fitto. Le piante raccolte
venivano divise a metà tra l’affittuario e i suoi aiutanti,
dopo aver selezionato i “paleddri”, “lu sciuncu”
(il giunco masculu) e la “sciuncacchia” (il
giunco fimmana).
I più giovani nelle paludi ci sguazzavano. Intraprendenti
più che mai si addentravano tra le canne alte anche sette-otto
metri e in poco tempo ne venivano fuori con fascine di giunco, con
meraviglia degli anziani, e non prima di essersi immersi dentro
‘n’auso, una sorgente d’acqua dolce.
A tavola, il piatto più gettonato era composto da uno strato
di “pupiddri fritti” cosparso di mollica di pane, aglio,
menta e una spruzzata di aceto, poi ancora uno strato di pupiddri
e via di seguito. Non mancavano il vino e il pane.
Non di rado nei cespugli di giunco capitava di sorprendere la “sacara”,
o si ammiravano i salti di piccoli cefali, soprattutto là
dove lo stagno cedeva agli apporti dell’acqua marina. Altra
caratteristica presenza della palude era la mignatta, la sanguisuga,
detta volgarmente “sanguetta”. Agli uomini costretti
a lavorare nelle paludi, le mignatte si attaccavano alle gambe.
Altri andavano di proposito negli acquitrini, per raccoglierle e
venderle nelle farmacie, che le usavano per “regolare”
la pressione sanguigna. Venivano generalmente poste dietro l’orecchio
del paziente e quando si gonfiavano del tutto, cadevano. Riportate
nelle farmacie, si depositavano in contenitori di vetro pieni di
crusca o di cenere. Una volta spurgate del sangue venivano reimpiegate.
Questo, in alternativa all’incisione, che poteva essere eseguita
dal flebotomo o dal salassatore, figure eccentriche di barbieri-cerusici
del tardo Ottocento e del primo Novecento riconosciute e compensate
dai comuni e che molto spesso venivano a lite con i medici per questioni
di salario, ritenendosi questi ultimi i depositari esclusivi della
scienza.
Di mignatte vi sono una di taglia piccola, come la sanguetta, un’altra
più grande e nera come il carbone, detta appunto craunara,
destinata alla cura degli animali.
Cesarino è intento alla raccolta del “paleddru”
che, staccato dal cespuglio, espande un profumo che sa di resina
e solletica l’olfatto. L’aria è satura di essenze,
di voli brevi e fulminei.
La vegetazione delle paludi è speculare al diverso grado
di salinità dovuto all’equilibrio dinamico tra acqua
salata e dolce. Oltre al giunco, diverse piante venivano raccolte
e usate in modo appropriato. La tifa o “penna de taju”,
la cui foglia lanceolata, detta “tuazza”, era usata
per riparare le fenditure delle botti, e la sua pannocchia per curare
le ferite. I più giovani immergevano negli acquitrini l’erba
pulicaria dopo averne pestato le radici, il cui lattice aveva la
proprietà di richiamare in superficie le anguille, che venivano
così facilmente catturate (anche nella tribù degli
Huaorani, in Ecuador, gli indios pestano le radici velenose di alcune
piante e poi le immergono nell’acqua per portare i pesci in
superficie). La pulicaria veniva inoltre impiegata come emolliente
e per tingere di giallo i vestiti.
Sciuncu e sciuncacchia formano la “sciuncacchiara”,
il cespuglio, e sono propriamente usati per l’intreccio di
corde e di fiscoli, attività un tempo prevalente a Salve,
nel Capo di Leuca.
Cesarino si dedica “allu paleddru”, vuole il meglio.
Cerca la presenza dei “maccarruni”, una pianta che alligna
nelle paludi, perché dove essi vegetano il giunco giovane
si estirpa con più facilità: «E paleddre ccote
menzu li maccarruni se ne venene belle e cu li musi janchi».
La facilità e la delicatezza dello svellimento delle piante
fanno sì che vengano definite al genere femminile: paleddre
e non paleddri.
Riposarsi vuol dire sedersi, accendersi una sigaretta, preparare
le “crocicche”, una sorta di improvvisato cordame di
fasci di giunco, per legare le fascine, facendo attenzione ad avere
intorno “paleddre” da estirpare: «Cusì
te buschi pe nu pacchettu de sigarette». Cesarino passa al
setaccio i fasci dei “paleddri” e con un veloce movimento
dal basso verso l’alto provoca uno scuotimento purificatore
degli aghi e un sibilo tintinnante nell’aria. Poi si mette
alla ricerca delle “liame”o panicastrella di palude,
una pianta con un’infiorescenza da cui si dipartono delle
foglie lanceolate (un metro circa), che seccate vengono usate per
intrecciare i manici dei cestini, e da non confondere con la “sarrazza”,
pianta simile, ma con una peluria tagliente all’interno della
foglia: «Tengono i denti...», avverte Cesarino.
A casa, la materia prima viene ulteriormente liberata dalle impurità
e messa poi a bollitura: «Nu bbonu vuju» («Una
breve bollitura», cinque minuti circa). I “paleddri”
così bolliti vengono posti ad asciugare coperti da un panno,
affinché «non costipino» e poi esposti con maestria
al sole. Dopo quindici giorni, assumono un color paglierino. In
alternativa, i “paleddri” venivano lasciati “cu
mmorgiulano” due, tre giorni al sole e poi, in altri tempi,
venivano “ncofanati”, dopo essere stati bagnati. Ora
vengono sistemati contro le pareti di un piccolo vano in cui si
accende dello zolfo, per una notte, durante la quale acquistano
morbidezza e subiscono il processo di sbiancatura.
La fase finale, ad Acquarica del Capo, frutto di un’esperienza
arcaica e ancestrale, è l’intreccio dei “culmi”,
ossia dei cestini, che le donne con mani sapienti e gesti precisi
e veloci intrecciano «a rete simpla, dupla, a nocca e a fisca»,
creando varie forme: bussolotti, sporte, saliere e fische (fiscelle)
per la ricotta. La famiglia Zonno di Acquarica del Capo è
a buon diritto rappresentativa di questa secolare attività,
come comprovato in alcuni manoscritti: «A 18 detto (novembre
1771) comprato fune rotola una, e mezo per lo stroppio dal Zonno.
Ducati 0:60»; e ancora: «In primis per resta di fiscoli
nuovi presi dal fiscolaro di Acquarica. Ducati 6:50». Le varie
forme create col giunco facevano bella mostra di sé in più
mercati e fiere campionarie e «un folto gruppo di questi manufatti
di Acquarica fu spedito ed esposto nel 1873 all’Esposizione
mondiale di Vienna, conseguendo un ambito premio ed un tale successo
commerciale […]».
Altra attività indotta della lavorazione del giunco è
quella del “funaru” o “zzucaru”, il cordaio,
prerogativa questa di Salve. Il giunco veniva lasciato a “risciuncare”,
ad ammorbidire, per due, tre giorni al sole e poi veniva battuto
“cu lu maju” (“samajatu”) e diviso a metà.
Mani esperte aggiungevano e intrecciavano il giunco precedentemente
bagnato, formando cordoni a tre capi raccolti all’altra estremità
da una ruota in movimento. Alla buona lavorazione, doveva seguire
un’ottimale asciugatura del manufatto che avveniva con il
concorso di giornate secche e ventilate. Con il cordone si intrecciavano
i fiscoli, eseguiti in circa tre ore. Il “fisculo”,
che era una vera e propria borsa aperta lateralmente, veniva poi
“mocculato” (chiuso) con la “pastorella”,
una corda realizzata con il pelo di capra.
Il commercio della “zzuca” (corda) e dei fiscoli era
molto fiorente, essendo largamente impiegati nei trappeti: «A
20 detto (ottobre 1771) comprato fisculi numero ottantadue e sei
mamme a ragione di grana venticinque, speso ducati 25:00»,
«a 21 detto (ottobre 1771) per due cavalcature e due uomini
per portarsino detti fiscoli da Salve. Ducati 0:40».
Di fronte alle troppe richieste, la materia prima presente in loco
non bastava mai, ed era necessario rifornirsi in Grecia e in Albania,
dove il giunco era di una varietà più lunga. Il giunco,
ampiamente commercializzato già in passato nel Basso Adriatico,
veniva comprato già pronto (“samajatu”) o da
battere e da passare tra due rulli. Costava dalle 4.800 alle 5.000
lire al quintale, poco meno di mezzo secolo fa. Un investimento
che presentava non pochi rischi: se la “campagna frantoiana”
non andava per il verso giusto, si rischiava di non incamerare i
crediti.
A volte il prodotto acquistato all’estero, se da una parte
compensava per la lunghezza, dall’altra poteva essere salso
e si rompeva. Essendo poco assorbente, il fiscolo di giunco veniva
utilizzato nei frantoi per la prima spremitura delle olive, quelli
fatti in cordone di cocco, invece, per la seconda. Ora, con l’avvento
delle macchine, nelle tre ore necessarie ad intrecciare un fiscolo
di giunco se ne completano settanta di rafia. E Cesarino tutto questo
lo sa.
|