Ma davvero
è pensabile che
unarmata così
imponente
si affidasse alle
indicazioni e alle strategie paesane
di portaordini che si muovevano a dorso di mulo?
Coll.:
D. Manti
F. Gerosi
B. De Nicola
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Lo sbarco degli Alleati in Sicilia del luglio 1943 venne pianificato
con lapporto fondamentale della mafia isolana? In quella gigantesca
operazione militare, che precedette le operazioni analoghe di Salerno
e di Anzio, ebbero un ruolo di primo piano i capibastone delle cosche
siciliane? Da decenni una versione del genere viene proposta e ribadita
come verità di senso comune: libri, saggi, documentari, complesse
inchieste giornalistiche hanno dato per scontato il coinvolgimento
determinante di Cosa Nostra siciliana in questa vicenda operativa
che consentì agli americani di metter piede in terra italiana,
giungendo ad offrire suggestivi particolari, come addirittura quello
degli uomini di rispetto che, muniti di bandierine multicolori,
indicavano allesercito alleato le aree strategiche nelle quali
far sbarcare con relativa facilità le truppe alleate.
Verità come queste non sono messe in dubbio,
ma risolutamente negate da uno dei maggiori studiosi della storia
della Sicilia, Francesco Renda, intellettuale di estrazione marxista,
autore di numerosi saggi sulle vicenda dellisola. Per lui,
dunque, non verità, ma vera e propria favola,
che ha il sapore del mito, quella che è stata accreditata
fino ai nostri giorni, e contro la quale inutilmente alcuni storici
di livello hanno prodotto le loro documentate puntualizzazioni.
E dobbligo, pertanto, un ulteriore tentativo di raddrizzare
questa stortura, di ricacciare questa banalità
circolata troppo a lungo tra le memorie degli italiani. Non soltanto:
secondo lo studioso, che inserisce questa critica tra quella più
generale riservata ai canoni di rigore storico necessari per la
ricerca dei fatti accertati e, di conseguenza, del buon
giornalismo, sarebbe falso anche laccostamento (che
è possibile ritrovare persino nelle carte della Commissione
Antimafia) tra lo sbarco alleato e la ripresa mafiosa, come se non
ci sarebbe stata la folgorante ripresa della mafia senza
la troppo rapida occupazione militare alleata dellisola. A
leggende di questo genere, Renda oppone documenti ufficiali riportati
in massima parte dagli archivi di Londra e di Washington, le carte
del Foreign Office sulle attività delle truppe alleate in
Sicilia, i lavori portati a termine da numerosissimi altri storici,
e più di una riflessione contenuta in un suo volumetto dedicato
al bandito Salvatore Giuliano e più in generale al banditismo
siciliano. «Ma davvero si chiede lo storico
alla caduta del fascismo in Italia concorse la mafia, considerato
che lo sbarco in Sicilia ne fu lelemento determinante? Non
credo che si possa dar credito ad una così grossolana eresia».
Per Renda e per un nutrito gruppo di storici, i cui saggi tuttavia
hanno avuto scarsi echi a livello divulgativo, gli Alleati non potevano
non vincere, non fosse altro che a giudicare dalle forze in campo.
E fra laltro, la mafia, che era stata massacrata dal prefetto
Mori e dal regime fascista, in quel frangente non era sicuramente
allapice della sua potenza. Il che porta lo storico a chiedersi
e a chiedere: ma davvero è pensabile che unarmata così
imponente, una spedizione così accuratamente predisposta
e potentemente condotta si affidasse poi, come abbiamo ascoltato
dal racconto di Michele Pantaleone, alle indicazioni e ai consigli
e alle strategie paesane di portaordini (don Calogero Vizzini e
Genco Russo, capimafia contemporanei) che si muovevano a dorso di
mulo?
Il riferimento a Michele Pantaleone è necessario, dal momento
che si deve a questo scrittore, siciliano di Villalba, la rivelazione
sui presunti retroscena dello sbarco alleato, e del patto scellerato
dei servizi segreti statunitensi con Cosa Nostra siciliana, in modo
particolare con Lucky Luciano, allora boss dei boss di Cosa Nostra
americana. Solo che negli archivi storici statunitensi non cè
traccia di collegamenti del genere, né mai Luciano, che in
seguito sarebbe stato espulso dagli Stati Uniti come persona
non grata, ne fece alcun cenno. Fra laltro, avrebbe
potuto utilizzare, ai fini di una sua permanenza negli Stati Uniti,
trascorsi patriottici del genere, se in qualche modo
avessero avuto un minimo di riscontro nella realtà.
Renda utilizza questi argomenti, che sorprenderanno non poco parecchi
storici e mafiologi dei nostri giorni, ma anche del recente passato,
per contestualizzare la storia di Salvatore Giuliano, inquadrandola
in uno scenario nel quale questa volta non è
tenero con le classi dirigenti siciliane e con lo Stato italiano.
Ma prima di addentrarsi nellanalisi che consegna la
strage di Portella della Ginestra alle responsabilità (se
non giudiziarie, certamente storiche, politiche e morali) di un
sodalizio di potere partitico-mafioso volto a sorreggere la vocazione
decisamente anticomunista dei servizi segreti americani Renda
si preoccupa di sgomberare il campo da quella che, nel suo saggio,
non esita a definire unaltra «analoga deformazione della
verità».
Il riferimento polemico è riservato al «presunto appoggio
alleato al separatismo siciliano». I fatti al riguardo, sostiene
lo storico, «i fatti, e non le supposizioni o i sospetti,
declinano tutti, nessuno escluso, in senso contrario». In
altre parole, «gli Alleati neppure fecero finta di sostenere
il separatismo». E ciò perché il loro scopo
non era quello di separare la Sicilia dallItalia, ma di indurre
lItalia a separarsi dallalleanza con la Germania. E
infatti, gli americani non accolsero la richiesta dei capi separatisti
di nominare un governo siciliano provvisorio. Ribadisce lo storico:
«La sola vera colpa degli Alleati (ammesso che si trattasse
di una colpa, e non invece di un merito) fu quella di non aver voluto
e di avere impedito che nei riguardi dei separatisti, da parte delle
autorità italiane, si usasse la mano militare della repressione
a norma del codice di guerra; e, a tal fine, in vista della restituzione
dellisola allItalia e al suo governo, escogitarono,
proposero, e in un certo senso imposero a Badoglio, che recalcitrava,
listituto dellAlto Commissario, garantendo alla Sicilia
il ritorno alla madre patria italiana salvaguardia dello scudo autonomistico,
concesso in anticipo sulla stesura della Costituzione.
LAlto Commissariato per la Sicilia fu invenzione e merito
degli Alleati conferma il saggista e fu grazie a quella
invenzione che la Sicilia poté affrontare e vincere la crisi
separatista. Parole, queste, che Renda ha supportato già
con altri documenti, presenti nella sua Storia della Sicilia, ma
che non mancheranno di agitare le certezze delle tante «verità
di senso comune» che hanno costellato e sono tuttora presenti
nella liturgia dellantimafia.
Avevano proprio bisogno dei boss mafiosi, gli Alleati, per portare
avanti la loro campagna di Sicilia, poi quella salernitana,
che precedette lo sbarco ad Anzio? A dar loro una mano, è
stato sostenuto, cerano gli oriundi, dai quali trassero notizie,
ebbero consigli, e grazie ai quali disposero di uno strumento di
comunicazione (la lingua, e meglio ancora il dialetto locale) eccellente.
Due secoli fa, i nostri connazionali avevano attraversato lAtlantico
in condizioni da esodo biblico. Arrivati all isola maledetta,
Ellis Island, prima di poter toccare la terra promessa
venivano ammassati in una grande sala per essere schedati e sottoposti
ad unimbarazzante visita medica: malati cronici, storpi e
omosessuali venivano reimbarcati e rispediti ai paesi dorigine.
Oggi, quelledificio ospita il Museo dellEmigrazione:
alle pareti, decine di gigantografie ritraggono volti di contadini
bruciati dal sole, lo sguardo smarrito. Fra il 1889 e il 1910, su
due milioni e trecentomila emigrati negli Stati Uniti, poco meno
di due milioni erano arrivati dalle regioni meridionali. Due milioni
di morti di fame più morti di fame di tutti: braccianti generici,
disoccupati cronici, vite espulse dal contesto produttivo del Paese,
ai margini o fuori dai circuiti civili e sociali, prolifici analfabeti,
materiali grezzi dissipati tradizionalmente dalle risacche della
nostra storia. Da questi cafoni discendono oggi Premi
Nobel, dirigenti di agenzie governative e di stazioni radiotelevisive,
capi di fabbriche, direttori di riviste di prestigio, titolari di
marchi di fashion, governatori, ministri e sindaci di città
importanti, magnati della finanza, altissimi dirigenti di banca,
esponenti del mondo accademico e dellarte, imprenditori e
proprietari di catene alimentari, cuochi e gourmet di fama, costruttori
di grattacieli, con in primo piano numerose donne. Oggi, ovviamente.
Perché sempre da costoro ieri discesero, per germinazione
spontanea alimentata dalla violenza, figlia della necessità,
e dalla lotta per la sopravvivenza, i Patriarca, i Gambino, i Genovese,
i Lucchese, i Bonanno, e tutti i capi delle grandi e sanguinarie
famiglie mafiose che lucravano sul proibizionismo, sui traffici
illegali, sul pizzo, sul gioco dazzardo, sullo sfruttamento
della prostituzione...
Gli americani, dunque, disponevano già, in casa, di materiale
brigantesco, e non sentivano certo il bisogno di entrare in contatto
con quello, terragno, arretrato, sopravvissuto in Sicilia. Ed erano
a conoscenza del tipo di rapporto che esisteva tra i boss italo-americani
e la stragrande maggioranza dei meridionali immigrati, che si erano
espressi per bocca di un poliziotto leggendario, Ralph Salerno,
il quale, alle richieste di solidarietà da parte
di un capobastone di New York, aveva risposto: «Io non sono
della vostra razza e voi non siete della mia. La sola cosa che abbiamo
in comune è che ambedue siamo di origine e civiltà
italiana, e voi siete i traditori di questa eredità e di
questa cultura delle quali io sono orgoglioso».
Cè infine da chiedersi come mai gli Alleati si sarebbero
serviti di Cosa Nostra siciliana, e non anche della camorra, a proposito
dello sbarco salernitano, sebbene negli Stati Uniti fossero presenti
da diversi decenni paranze campane, vale a dire gruppi
criminali organizzati provenienti dalle province campane, con contaminazioni
calabresi e foggiane. Eppure, proprio a nord di questarea
gli americani avrebbero trovato la prima linea di difesa tedesca:
infiltrazioni camorristiche avrebbero con tutta probabilità
informato più dettagliatamente lesercito dei liberatori,
impedendo così i bombardamenti che avrebbero distrutto, fra
laltro, labbazia di Montecassino. Lavanzata da
sud a nord fu piuttosto veloce. Alle spalle gli Alleati non si lasciarono
nemici in divisa armati. Si lasciarono tanti, troppi detriti umani,
che, come ci ha insegnato Eduardo De Filippo, la risacca della storia
avrebbe riportato alla ribalta, a Napoli, in questo caso, ma anche
a Palermo e a Reggio.
Daltronde, quella siciliana al tempo dello sbarco alleato
era ancora una mafia residua, che incombeva quasi esclusivamente
sulla campagna. Ruspante e disarticolata, provinciale, che si sarebbe
potuto assorbire nei gangli della legalità, cancellandola
definitivamente, se la classe dirigente post-bellica avesse opposto
un baluardo etico rigoroso e imprescindibile al momento della ricostruzione.
Così non fu. Una borghesia corrotta e rampante trasformò
gli aiuti per la rinascita dellisola e di altre aree del Mezzogiorno
in strumenti per larricchimento veloce, facendo ricorso alla
violenza per il predominio e al saccheggio per laccaparramento
dei fondi di ricostruzione. La mafia invase prepotentemente il campo
delledilizia, mise le mani sulle città, rastrellò
fondi e contributi, impose tangenti, distribuì lavoro nero
e stragi mirate, decretò supremazie gerarchiche, strinse
alleanze politiche e affaristiche, e dilagando ricrebbe consolidando
i condizionamenti della società.
La morte della mafia terricola era stata decretata da una lapide
nel cimitero di Villalba, nella quale era inciso: Comm. Calogero
Vizzini / precorse ed attuò la riforma agraria / sollevò
le sorti di tutte le ingiustizie / fu difensore del diritto dei
deboli / raggiungendo altezze mai toccate. Questa sublime
figura di difensore del diritto dei deboli fu imputata, in vita,
quale mandante di omicidi e di un lungo rosario di reati, dalla
rapina allabigeato, dalla truffa aggravata allestorsione,
dalla corruzione di pubblici funzionari alla bancarotta fraudolenta.
Ma fu considerato uomo donore, e un magistrato
ne tessé lelogio funebre in un commosso articolo.
Nellimmediato dopoguerra, parallela al ritorno in forze dei
cartelli del crimine, cominciò a tramontare lillusione
dellItalia come alma parens frugum. Disvelata
dalla ripresa di una massiccia e drammatica emigrazione, la povertà
agricola del Sud assurse a dato incontrastato di giudizio. Povertà
naturale, aggravata persino dagli ordinamenti economici e sociali,
quasi sempre inadeguati, a volte addirittura arcaici: dapprima latifondo
e coltivazioni estensive in zone demograficamente intense; subito
dopo, il fallimento della riforma agraria; prima e dopo, agricoltura
di rapina, imprese contadine ancorate al principio della sussistenza
domestica, degrado del paesaggio agrario, scarsa produttività.
E quasi dappertutto miseria, bracciantato allo sbando, ignoranza
tecnica, immaturità civile, rurali affamati di pane e agitati
da un confuso desiderio di giustizia, e per di più taglieggiati
dalle formazioni criminali. Sicché, ancora una volta, come
scrisse Croce, il Sud si mostrava «nella storia, nelle cronache,
nei documenti, per secoli, un paese in preda alle usurpazioni e
prepotenze baronali, povero, con agricoltura primitiva, con scarsissima
ricchezza mobiliare, con diffuso servilismo e congiunta ferocia,
e, insomma, in condizioni tuttaltro che prospere, eque e benigne».
Le grandi terre della mafia tornarono ad essere quelle in cui, dal
1868, si erano verificati i più tremendi terremoti. Erano
le zone della Sicilia occidentale che avevano itinerari precisi:
Mazzarino, Agrigento, Raffadali, Mussomeli, Menfi, Corleone, Castelvetrano,
Partanna, Marsala, Trapani, Castellammare, Alcamo, Palermo, Villalba,
Termini Imerese, Montelepre, Misilmeri
La mafia delledilizia
si innestò sulle radici di quella che era stata rurale, e
seppe rifiorire, incontrastata. Ci sarebbero voluti almeno quattro
decenni perché Cosa Nostra americana venisse cancellata.
Non è stato sufficiente un tempo altrettanto lungo, anzi
più lungo, per radere al suolo Cosa Nostra siciliana, insieme
con le altre organizzazioni, comprese quelle germinate in altre
regioni del Sud, le nuove mafie, più delle prime feroci,
prive di pensiero che non sia quello della ricchezza illecita e
della supremazia territoriale. Male endogeno, dunque. Non rigenerato
dalle vicende dello sbarco alleato, né alimentato da collegamenti
durante il secondo conflitto mondiale, come hanno sostenuto in tanti,
sulla scorta degli scritti non documentati di Pantaleone e, in qualche
misura, anche di Dolci. Quello sul ritorno della mafia e delle sue
evoluzioni è lavoro di scandaglio che va fatto con altri
strumenti di ricerca, rigorosamente scientifici, non semplicemente
ideologici. Altrimenti la nostra storia resterà sempre impantanata
in una fumosa e indistinta zona grigia, nella quale possono impunemente
confluire realtà e mito, dati di fatto e strumentalizzazioni
di parte.
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