Anti-Risorgimento.
E' un'espressione che circolò in certi anni del fascismo come
rifiuto della rivoluzione liberale, come rifiuto dell'Italia, e dell'Europa,
moderna.
Non a caso, nel periodo del massimo consolidamento della dittatura,
operò una rivista, non priva di crismi e di incoraggiamenti ufficiali,
che si intitolò "Anti-Europa". E che tendeva ad approfondire
il fossato in tutti i sensi e in tutti i campi, fra "gli immortali
principi" della Rivoluzione francese, connessi alla soluzione risorgimentale,
e la nuova realtà - ordine, gerarchia, impero - riflessa nella
svolta del fascismo.
Nella sua essenza pragmatica e polivalente, nel suo sterminato "relativismo"
(che spiegherà poi gli equivoci di Giuseppe Rensi), il movimento
fascista fu ambiguo e ambivalente quant'altri mai rispetto all'eredità
risorgimentale. Diviso, come sempre, a metà. Un filone, quello
di Gentile, che derivava le sue ispirazioni dalla destra storica risorgimentale
e aveva per suo primo progenitore Gioberti. Un altro filone, quello
di Malaparte, che alzava la bandiera dell'"Italia barbara"
contro l'"Italia civile", che esaltava tutti i dati dell'autoctonia
pre-risorgimentale pur di rifiutare la contaminazione europea, la deviazione
giacobina, l'influenza rivoluzionaria. Fu quello di Malaparte un indirizzo
che si estese poi, in forme diverse e diversamente intonate, allo "strapaese",
al "selvaggio", a tutte le mode, artistiche o letterarie,
di contrapposizione di una primigenia realtà italiana al moto
italiano, composito e "corruttore" del Risorgimento. Rigettato
in una chiave quasi caricaturale. Respinto nei suoi grandi principi
ispiratori, l'umanità, la giustizia, la libertà: soprattutto
nell'innesto, tutto mazziniano e tutto democratico, fra patria e umanità.
"Quell'Italia antica, tradizionale, storica, ingenua, che tuttora
vive, nonostante i decreti e le ordinanze, in un'Europa civilissima,
borghese e possidente ... ". Era quell'Italia cui si richiamava
il manifesto dell'"Italia barbara" fin dal 1925.
Ed è singolare - a confermare la complessità della storia
italiana - che il volume-pamphlet di Curzio Malaparte (ancora Suckert)
sia stato pubblicato a Torino da Piero Gobetti editore ormai alle soglie
del suo sacrificio finale nella lotta contro il fascismo.
"Presento al mio pubblico il libro di un nemico", diceva Gobetti
nella sua breve avvertenza editoriale. E aggiungeva con un graffio rivelatore
dell'uomo: "confutare immagini, opporre politica a variopinta fantasia
o a stile pittoresco non è di mio gusto".
In realtà quelle fantasie e quelle immagini, al limite del paradosso,
costituiranno uno degli aspetti fondamentali della deformazione fascista
della storia del Risorgimento, di quel vero e proprio distacco dagli
ideali del riscatto nazionale che si prolungò per tutti gli anni
in cui si tentò la riabilitazione del cardinale Ruffo e delle
bande della "Santa Fede" contro Garibaldi, in cui si ripercorsero
le orme dei vecchi reazionari, come Solaro della Margarita, contro Cavour,
in cui si tessé l'elogio del "Viva Maria" e della rivolta
autoctona del contadiname italiano contro le idee giacobine importate
dalla rivoluzione francese e imposte dai soldati di Napoleone, generale
del Direttorio.
La polemica delle Leghe contro il Risorgimento - un vero e proprio processo,
Garibaldi paragonato a Renato Curcio, Mazzini associato a Toni Negri
e Cesare Battisti chiamato "avventuriero" -ci riporta a taluni
di quei motivi, in un clima e in una situazione completamente diversi,
ripropone temi e rilancia accuse, e anche invettive, e anche scomuniche,
tipiche dell'anti-Risorgimento di una volta, degli anni fra le due guerre,
ma non solo di quelli.
Il contrario del 1945-46, nel momento della liberazione. Tutto quel
rimescolio, fra destra dinastica e destra popolaresca, sembrò
spazzato via dalla Costituente e dalla fondazione della Repubblica il
2 giugno. Nella scia della lotta della Liberazione che si era ispirata
costantemente a motivi e a richiami risorgimentali, rivissuti sullo
sfondo della tragedia italiana.
Saltato a piè pari il periodo fascista, il Risorgimento tornava
d'improvviso ad imporsi nei simboli, nelle bandiere della resistenza,
nelle insegne della guerra partigiana (la "guerra combattuta"
di Pisacane). Con tutte le speranze repubblicane deluse e umiliate;
con le connesse, o di poco successive, speranze socialiste riaffioranti
all'orizzonte, in un quadro che opponeva la tristezza del presente alle
glorie del passato. E di qui, già sullo sfondo della Consulta
prima ancora di qualunque elezione libera, nel settembre 1945, lo scontro
circa l'Italia post-risorgimentale, e i limiti democratici dello Stato
liberale, fra i rappresentanti di due diverse visioni della vita e della
storia italiana, fra Benedetto Croce e Ferruccio Parri, il primo presidente
del Consiglio dell'Italia liberata, il leggendario "Maurizio"
della lotta partigiana.
In quegli anni del dopoguerra non riesplose la polemica che aveva distinto
i primi anni 30 fra Benedetto Croce e Luigi Salvatorelli. La polemica
cioè sulla continuità della storia d'Italia, così
illuminante per le future generazioni. Croce fermissimo nella sua concezione
della identità fra l'atto di nascita dello Stato italiano (marzo
1861, con la proclamazione del regno d'Italia nel Parlamento subalpino)
e l'entrata dell'Italia nella vita delle nazioni, e quindi nella vita
mondiale. Uno Stato italiano che nasceva insieme con l'unità
italiana; un quid novum che si contrapponeva a tutte le tradizioni dell'Italia
spezzettata e frantumata degli Stati regionali e assolutisti, che iniziava
una pagina completamente nuova, una pagina completamente bianca. Abbastanza
gloriosa per essere riempita da sola.
Dall'altra parte Salvatorelli, e non solo Salvatorelli, fermo nel rivendicare
una continuità della nazione Italia come comunità di lingua
e di cultura fin dalla scoperta del volgare, cioè dall'età
di San Francesco e di Dante. Quella certa idea dell'Italia che aveva
costituito il nucleo del Risorgimento nazionale e la spinta fondamentale
dello stesso Mazzini. L'Italia che si era formata come coscienza di
se stessa, della sua unità linguistica e culturale, sei o sette
secoli prima del Risorgimento, che diventava Risorgimento, e non Sorgimento
e non Nascita, proprio in virtù del nesso morale e linguistico
fra tutti gli italiani, preesistente all'unificazione materiale della
penisola, al di là delle paratie o delle barriere opposte dalle
varie frontiere, artificiali e provvisorie.
Vent'anni fa parlai di "autunno del Risorgimento", ma oggi
siamo di fronte a un fenomeno del tutto diverso. Non c'è più
l'autunno, non c'è più l'abbandono, non c'è più
neanche l'ironia che percorse quegli anni rispetto ai valori di un'Italia
discreta, l'"Italia civile" detestata da Malaparte e difesa
da Bobbio.
No. Oggi c'è un vero rifiuto, sia pure in settori limitati della
società italiana, delle tavole di valori dell'unità nazionale,
c'è un tentativo evidente di spostare le carte di fondazione
dello Stato dall'unità fra primo e secondo Risorgimento alla
esistenza di una realtà regionale preesistente allo Stato e sopravvissuta
ai centotrent'anni di regime nazionale. Quasi che l'identità
della Liguria o del Veneto avesse una preminenza su quella realizzata
nelle lotte del primo e secondo riscatto nazionale.
Quel rifiuto, che si esprime nelle Leghe, ha gravi conseguenze politiche.
Il Risorgimento non è solo il titolo di identità nazionale
per l'Italia, è il massimo titolo della sua identità europea.
L'unificazione nazionale fu realizzata in stretta correlazione con l'Europa,
contro ogni illusione autoctona. Il motto "l'Italia farà
da sé" si risolse presto nei rovesci subìti da Carlo
Alberto nel 1848 sui piani padani. E l'illusione neoguelfa si disperse
con tutte le nebbie del "primato" giobertiano.
L'Italia nacque come parte essenziale dell'Europa, sentita come civiltà
comune. Mazzini fondò la "Giovane Europa" a tre anni
di distanza dalla "Giovane Italia". La democrazia repubblicana
e garibaldina fu sempre di respiro europeo e mai chiusa in paratie nazionaliste.
Il liberalismo cavouriano respirò nell'aura dell'Occidente, guardò
al modello britannico, risentì le influenze svizzere.
Il "no" all'Italia unita è in realtà il "no"
all'Europa.
Ritratto di
una dinastia
Disastro Savoia
Quattro re: Vittorio
Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III, Umberto II. Ottantacinque
anni nella vita del Regno d'Italia, dal 1861 fino all'avvento della
Repubblica, nel 1946. Col suo stile limpido e sereno, Denis Mack Smith
pone i quattro ritratti al centro della sua vasta narrazione e le
quattro immagini turbano, deprimono, indignano. Eppure, questo storico
non è impietoso, addita ogni virtù, soprattutto negli
ultimi due monarchi: ma, poste così, fianco a fianco, le quattro
icone offrono lo spettacolo di una dinastia rozza, stolta, ambiziosa,
provinciale. Una dinastia tragica per l'Italia.
Il libro ("Italy and its Monarchy") era difficile da costruire
per la carenza di documentazione. In una prefazione alle 400 pagine
l'autore spiega: "Non è semplice calcolare l'influenza
dei quattro sovrani sulla storia d'Italia, la documentazione è
tendenziosa o inadeguato [ ... ]. Alcuni importanti uomini politici
si preoccuparono di mandare i propri diari e le proprie lettere prima
della pubblicazione, per sottrarre se stessi e gli eredi al rischio
di incriminazione qualora avessero attribuito al sovrano la responsabilità
di azioni governative. Per lo stesso motivo, e perché erano
alle dipendenze dello Stato, anche gli storici dovevano essere reticenti".
Infine, la lacuna più vistosa. Mancano tutti gli archivi della
famiglia reale, "che gli ultimi due re portarono con sé
quando andarono in esilio". Sono in Svizzera, con ogni probabilità
a Losanna.
Mack Smith allora ha aggirato l'ostacolo, attingendo ad altre fonti,
soprattutto alle relazioni degli ambasciatori inglesi in Italia e
agli archivi della famiglia reale britannica: e le ricerche sono state
fruttuose. Hanno confermato ampiamente i giudizi negativi che lo storico
aveva già pronunciato sui Savoia nei suoi testi precedenti.
"Fino a poco tempo fa, per quasi 150 anni, la classe politica
italiana non è stata all'altezza degli italiani, che erano
quasi sempre migliori dei loro leaders. Sì, vi fu un Giolitti,
uomo notevole, però vi fu un Crispi, uomo terribile. Ma, tra
i capi peggiori, erano forse i re, salvo Umberto II".
Poi va al nocciolo della questione: quasi tutti i monarchi, in quasi
tutti i Paesi, hanno modeste doti intellettuali. Purtroppo, in Italia,
avevano vasti poteri. In Inghilterra, ad esempio, dall'Ottocento in
poi, le deficienze dei re e delle regine non potevano più nuocere,
perché sulla scena nazionale c'erano nuove forze e possenti.
In Italia, invece, il re era ancora un re. Non basta.
I Savoia usarono male il loro potere. Soffrivano di "folie de
grandeur"; attribuivano all'Italia muscoli economici e militari
che non aveva; ignudi com'erano di cultura, avevano una visione sbagliata
del mondo esterno. Furono allora un "disastro", come afferma
Gilmour? "Temo proprio di sì". Vediamo un po'. Vittorio
Emanuele II voleva "e regnare e governare". Incontra la
regina Vittoria e si vanta di avere un acume politico "invariabilmente"
superiore a quello di tutti i ministri: l'assurda millanteria di un
sovrano "incapace di scrivere una sola pagina di prosa corretta".
La sua vita privata era "disordinata". "La regina era
morta giovane, dopo numerose maternità, ma Vittorio Emanuele
aveva avuto figli illegittimi da varie donne, una condotto che era
quasi una consuetudine anche tra i Savoia più devoti".
I sogni di gloria sono vertiginosi. Nel 1862 vuole iniziare una guerra
nei Balconi; nel 1864 insiste che l'Italia può "sconfiggere
l'Austria senza l'aiuto di nessuno"; nel 1867 "vuole mano
libera" per risolvere la questione turca.
Certo, qualche dote aveva: coraggio, astuzia, tenacia. Ma Lord Clarendon,
ministro britannico degli Esteri, dipinge questo feroce ritratto:
"Il giudizio è unanime, Vittorio Emanuele è un
imbecille (proprio così, in inglese "imbecile"),
è un disonesto, che mente a tutti; di questo passo, finirà
col perdere la corona, rovinando sia l'Italia sia la dinastia".
Mack Smith ricorda che, dopo la sua morte, venne fatto il possibile
"per proteggere la reputazione di un monarca tanto fallibile".
"Lodi postume quasi universali furono elargite al re Galantuomo,
tanto da chiamarlo il sovrano più grande della storia dell'Europa
cristiano. Quel re, secondo il quale gli italiani erano governabili
soltanto con le baionette o la corruzione, fu celebrato per la suo
impeccabile deferenza verso il Parlamento. L'incompetente comandante
supremo divenne brillante soldato e stratega".
Sotto Vittorio Emanuele II era cominciata altresì l'escalation
dell'appannaggio, una scandalosa tumefazione per un Paese povero come
l'Italia. Leggiamo: "Nel 1877, Depretis innalzò la lista
civile a oltre 14 milioni di lire all'anno, una somma superiore alla
spesa governativa per la pubblica istruzione. Nessun altro sovrano
in Europa era pagato tanto". (In aggiunta, il re chiedeva di
tanto in tanto al Parlamento di "liquidare" le sue amanti).
Anche Umberto serbò quei 1.4 milioni, esentasse: ma la stampa
cominciò a brontolare. S'indicò che il re d'Italia riceveva
più dei Kaiser o della regina Vittoria, assai più del
Presidente francese, retribuito con due soli milioni, e del Presidente
degli Stati Uniti, il cui stipendio era ancora più smilzo.
Umberto non fu migliore del padre: anzi "del padre non aveva
la robusta personalità e la sicurezza". Era - riferiamo
- "un personaggio relativamente pallido": fu chiamato Umberto
"il buono", ma buono non era né come re né
come uomo. Anche lui, come Vittorio Emanuele, "aveva soltanto
una modesta istruzione, senza interessi artistici o intellettuali,
non leggeva libri". "Scrivere era per lui così spossante
e disagevole che raramente vergava lettere e non apponeva la propria
firma se qualcuno lo guardava". Mack Smith pronuncia il suo verdetto:
sostiene che il suo regno "fu una delusione, forse un disastro".
Usò male il suo potere, perché non lo usò abbastanza.
Assistette "neutrale, passivo" al declino del Parlamento,
persino all'ascesa delle forze che minacciavano il trono stesso, socialismo
e repubblicanesimo.
Con Vittorio Emanuele III si ha un salto di qualità. L'uomo
è intelligente e, a differenza del padre e del nonno, legge,
apprezza lo studio della storia, è meno filisteo degli altri
Savoia. All'inizio, mostra moderazione e sagacia; ma, col passare
degli anni, i difetti hanno il sopravvento sulle doti, il cinismo
diviene fatalismo. Nel 1975, il re "si assunse la responsabilità
personale di trascinare alla guerra una nazione riluttante",
come ricorderà più tardi, con soddisfazione. L'Italia
era impreparata, il re lo sapeva. Ma sapeva pure che una vittoria
militare avrebbe consolidato la monarchia, mentre il neutralismo avrebbe
forse scatenato una rivoluzione e abbattuto il trono. Sono le sue
parole al vicepresidente della Camera.
Nell'ottobre 1922, esercito e polizia potevano disperdere la "Marcia
su Roma", ma Vittorio Emanuele non volle firmare la legge marziale.
Nel giugno 1940, secondo Mack Smith, un monarca più grintoso
avrebbe impedito l'entrata in guerra: e, forse, avrebbe potuto liberarsi
di Mussolini, prima del '43. Alla fine, irresolutezza e furbizia costarono
al monarca il suo trono. Chissà: avesse abdicato prima, avrebbe
lasciato più tempo ad Umberto per tentare un salvataggio della
monarchia.
Mack Smith conclude con il referendum e ricorda le accuse di irregolarità.
"Un fatto è certo. Il referendum del giugno '46 fu assai
più corretto dei plebisciti tra il 1859 e il 1860, su cui quattro
re basarono il loro diritto al trono italiano",
Dunque, 400 pagine di una cronaca ora avvilente, ora esaltante. La
si legge e si capisce subito perché l'autore insista che gli
italiani erano migliori dei loro leaders. Un esempio per tutti: la
disfatta di Adua del 1896, dove perirono seimila italiani, tanti quanti
ne erano morti in tutte quante le guerre del Risorgimento.
Leggiamo: "Il generale Baratieri cercò di giustificarsi
accusando i suoi soldati di aver ceduto al panico. Così si
era detto nel 1866 e così si sarebbe detto, nuova mente, nel
1917 e nel 1943. Ogni volta, i comandanti celarono i propri errori,
creando la leggenda di uomini che si erano rifiutati di combattere".
Ma, in quel 1896 di sangue, c'era in Eritrea un addetto militare britannico.
Il quale riferì senza mezzi termini che "i soldati italiani
si erano dimostrati combattenti di prim'ordine, come pochi in Europa".
Era stato il comandante delle truppe a sbagliare tutto: e, "durante
la battaglia, aveva abbandonato i suoi uomini al loro destino".
Senza commento.
La storia come
inganno
Quell'immobile
isola
"Una rumorosa,
romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca".
Questa dura definizione del Risorgimento si legge nel Gattopardo di
Tomasi di Lampedusa. Da Oriani a Gobetti, a Gramsci, ma ancor prima
negli intellettuali del Sud post-unitario - Pasquale Villari, Giustino
Fortunato, Gaetano Salvemini - la crisi del Mezzogiorno viene spesso
ricondotta ai limiti della "conquista" dei Nord.
La denuncio attraversa anche la letteratura che, soprattutto in Sicilia,
con il rilievo delle sue figure, ha rappresentato il più vivace
apporto fornito alla cultura della nuova Italia.
Intorno al caso offerto da tre figurechiave della letteratura non
soltanto isolana, De Roberto, Pirandello e Lampedusa, ruota un recente
studio di Vittorio Spinazzola, che prosegue l'indagine sul romanzo
ottocentesco avviata con i volumi dedicati a De Marchi e a Manzoni.
L'italianista milanese Spinazzola in "Il romanzo antistorico"
sottolinea la scelta di campo di questi autori, che si oppongono programmaticamente
al romanzo storico per eccellenza del nostro Ottocento, il capolavoro
manzoniano, ma nel contempo prendono le distanze dalla scuola verista.
Nell'arco di poco più di mezzo secolo la letteratura siciliana
produce, infatti, tre romanzi', "I viceré" (1894),
"I vecchi e i giovani" (1973), e "Il gattopardo"
(1956), che dimostrano il fallimento della rivoluzione borghese in
Sicilia.
Ciò che più colpisce uno storico della letteratura come
Spinazzola, attento alle dinamiche della ricezione, è che questo
sconcertante processo di clonazione abbia potuto compiersi a partire
da un'opera al suo apparire pressoché ignorata dai lettori
come dalla critica. E che un autentico successo di pubblico sia invece
toccato solo all'ultimo e meno provocatorio dei' tre -romanzi., "Il
gattopardo".
"La storia", scrive De Roberto ne "I vicerè",
"è una monotona ripetizione; gli uomini' sono stati, sono
e saranno sempre gli' stessi, Le condizioni esteriori mutano; certo,
tra la Sicilia di prima del '60, ancora quasi feudale, e questa d'oggi,
pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutto esteriore".
La scoraggiata diagnosi del narratore siciliano, che si sarebbe accanito
sull'aristocrazia dell'isola con una distruttività solo pari
all'apprezzamento per la capacità di rilanciarsi come "razza
padrona",ù ricorda talune pagine del Belli. In entrambi,
la storia tende a dissolversi nella natura, sullo sfondo di un universo
fissato nella sua immobilità. Tende così a comporsi
l'immagine di due letterature: l'una, nei centri più avanzati,
"organica" ai. programmi' di una borghesia riformista, l'altra
bloccato nella solitaria diagnosi dello scacco di fronte all'emarginazione
di un'irredimibile perifericità.
Non è un caso che in Pirandello e in Lampedusa, ma aggiungerei
In Brancati e in Sciascia, la letteratura siciliana non abbia cessato
di interrogarsi' sui temi di De Roberto: il potere e la società
civile, l'istituzione e il cittadino.
Da cosa nascono nell'intellighentzia siciliana l'immagine della storia
come inganno e l'irrisione delle sue conquiste come atteggiamento
sostanzialmente antiprogressista, se non dalla stagnante bipolarità
sociale, in cui pochi latifondisti dominano i volghi dispersi dei'
braccianti? I Porto e i Manzoni presuppongono una rivoluzione e una
filosofia della storia, non un vuoto drammatico in cui il potere ripete
il suo rito camaleontico.
L'Impersonalità cui molti di questi autori si votano ben rispecchia
il nudo stagliarsi degli eventi storici, al di fuori di qualsiasi
teleologia, laica o provvidenziale. Non stupisce che Il tema dell'ingiustizia
sociale si converta in quello dell'ineguaglianza naturale, né
che alla lezione dello storicismo si sostituiscono le suggestioni
dell'evoluzionismo darwiniano.
De Roberto sceglie un'età cruciale di mutamento, come il Risorgimento,
per mostrare che nulla può davvero mutare nell'uomo abbandonato
al determinismo degli spiriti. Manzoni non aveva sottovalutato, da
buon cattolico, la negatività del peccato, ma sapeva di poter
fare appello alla coscienza individuale. Per questo aveva rivolto
agli uomini' del Risorgimento l'invito a edificare istituzioni migliori.
Che a cose fatte i siciliani scrivessero romanzi come quelli di cui
si occupa Spinazzola, avrebbe costituito una smentita che andava ben
oltre l'opera manzoniana. Nella flauberticina "éternelle
misère de tout" in cui De Roberto vedeva dibattersi la
storia avvertiamo l'eco dell'infinita vanità che nel tutto
aveva avvertito un altro grande periferico del nostro Ottocento.
E quanto le cose siano oggi cambiate nella terra dei tre eccelsi "antistorici"
lo si può decidere, leggendo e riflettendo su mafie, corvi,
complicità, omicidi e affini.
Per una storia
della borghesia
Capitalismo
all'italiana
L'Italia non ha
conosciuto una vera e propria "rivoluzione borghese": né
una rivoluzione politica come in Francia, né una economica
come in Inghilterra. il ceto di mezzo, così, ha mancato la
sua legittimazione storica ad essere classe dirigente. Su questo peccato
originale della storia patria sono stati versati fiumi d'inchiostro
e di lacrime. Anche ora, in tempi distratti, non inclini ai grandi
dibattiti civili, si torna a parlare di mancata identità nazionale,
di borghesia pallida, quasi testa fragile di un corpo altrimenti vigoroso.
E ne parlano Vertone e Lanaro, Asor Rosa e Candeloro, Tranfaglia,
Bollati, Castronovo.
Fino a poco tempo fa si discuteva volentieri di centralità
operaia nella storia recente del Paese. Ci si dovrebbe piuttosto riferire
alla centralità borghese. Tutto è passato di lì:
la rendita e il profitto, il trasformismo e il cambiamento. La piccola
borghesia è stata capace di allevare nel suo grembo e simultaneamente
futurismo, anarchismo e culto della famiglia. Che è come dire:
tutto e il contrario di tutto. Alla fine si è venuta strutturando
una società mediana, come ha lasciato scritto Rosario Romeo,
in cui "gli elementi di continuità e di rottura sono presenti
nella stessa classe, la borghesia". Secondo Gramsci questo ceto,
con responsabilità di comando, parte subito col piede sbagliato.
La classe politica risorgimentale manca al suo compito primario, non
facendo una riforma agraria in grado di portare a soluzione l'arretratezza
del Sud, trappola di sbarramento sulla strada del decollo industriale.
I conservatori al governo paventano, dietro le "nere ciminiere",
l'illegalità operaia, e mantengono coscientemente fragili le
basi dello Stato liberale, avvitando quel meccanismo perverso che
sboccherà poi nel fascismo. A questo schema vetero-marxista,
Castronovo muove una serie di obiezioni: "Dopo il 1860, la realtà
italiana è quella di un Paese poco sviluppato che dispone di
un terzo del reddito francese e di un quarto di quello inglese. Due
italiani su tre non sanno né leggere né scrivere. I
primi governi sono fatti da possidenti terrieri e liberi professionisti,
tutta gente che viene dalle guerre del Risorgimento e difende strenuamente
la libertà, anche quella dei commerci. Quando il mercato mondiale
èinondato dai cereali americani e russi a basso costo e tutti
gli Stati erigono sbarramenti daziari a loro difesa, l'Italia stenta
a varare misure protezionistiche. Arriverà, buona ultima, nel
1887. Queste misure buttano giù di sella la vecchia classe
dirigente. Nasce un nuovo tipo d'imprenditoria. Il panorama muta radicalmente".
I borghesi emergenti tirano fuori la testa con la protezione statale,
ma poi cominciano a camminare con le proprie gambe. Dazi e dogane
sono concepiti soprattutto per dar fiato all'industria pesante (con
Crispi, l'Italia produrrà navi e cannoni per dire la sua tra
le potenze imperiali), ma finiscono per forzare l'industrializzazione
della giovane Italia, e per farla uscire, anche se con un'eccessiva
e artificiosa accelerazione, dall'infantilismo economico.
E' questo il vero peccato originale della borghesia al comando. Avviato
dalle tariffe protezionistiche, lo sviluppo industriale rimane un
fenomeno estraneo all'opinione pubblica. Il liberismo, cacciato dai
centri di governo, resta a egemonizzare la cultura politica ed economica.
L'implacabile polemica condotta da Giustino Fortunato, da Maffeo Pantaleoni
e da Vilfredo Pareto contro il protezionismo doganale, reo, a loro
dire, di sacrificare la produzione agricola del Sud e di gravare di
tasse i consumatori, trova largo credito nella borghesia, sempre più
convinta che l'industrializzazione sia frutto più dell'intervento
statale che dell'iniziativa privata, e sia perciò stesso fonte
di corruzione e di privilegi. Quanto ai ceti proletari, l'industrialismo
è visto tout court come associato alle velleità militaristiche
dei "governi della sciabola" e a un regime di fabbrica non
molto diverso dai modelli di sottomissione servile tipici delle campagne
del vecchio regime. Ovviamente, molte di queste ombre corrispondevano
a limiti oggettivi del nuovo regime politico ed economico, ma si può
in tutta coscienza affermare che si trattava di costi sociali dell'industrializzazione
comuni a tutti i Paesi arrivati tardi al decollo, ai second comers,
com'era appunto l'Italia.
Solo agli inizi del Novecento l'esigenza di avviare l'Italia sulla
strada dell'industrializzazione s'impone all'interno della borghesia
dirigente. Lo Stato è una stampella d'eccezione, ma non è
quel demiurgo che la letteratura radicale descrive. Compaiono infatti
sulla scena, ai primi del secolo, gli esponenti di una classe imprenditoriale
dinamica e aggressiva. Sono i "figli del lavoro", usciti
dalle schiere dei capioperai, artigiani, risparmiatori accaniti, destinati
a fondare grosse dinastie industriali (è il caso dei Rivetti,
degli Zegna, dei Trabaldo-Togna nel Biellese).
Come scrive il sindacalista Rinaldo Rigola, sono "individui che
tengono del padrone e dell'operaio, lavorano di giorno e di notte,
nei giorni feriali e festivi, lavorano bestialmente. Agisce in essi
la molla del tornaconto individuale, fors'anche obbediscono al loro
temperamento, ma non lo sanno, e comunque non lo dicono". E come
loro lavorano le seconde generazioni, Giuseppe Venanzio Sella, per
esempio, erede di quel Pietro Sella che nel 1816 aveva per primo introdotto
le macchine nella manifattura tessile e dieci anni dopo, sentendosi
prossimo alla morte, chiederà di essere trasportato nello stabilimento
di Valle Mosso "per spirare accanto ai suoi dipendenti e in mezzo
agli strumenti della sua opera".
All'inizio del secolo, molte imprese nascono dal crescente interesse
della borghesia e della aristocrazia fondiaria non più verso
i titoli di Stato e le speculazioni immobiliari,. ma per le nuove
attività industriali e commerciali. Giovanni Agnelli, Alberto
Pirelli, Guido Donegani, Cesare Pesenti, Ettore Conti, Camillo Olivetti,
Giorgio Enrico Falck scelgono tutti settori non protetti dallo Stato
(come sono la cantieristica, la siderurgia, la manifattura tessile),
ma attività a più alto contenuto tecnologico come l'automobile,
la gomma, la chimica di base e il cemento, l'elettricità e
la meccanica di precisione. Quel che li accomuna tutti è la
convinzione d'imporre il sistema dell'impresa come modello alternativo
alla vecchia società rurale, senza finzioni, sulla base dei
principii stessi del capitalismo: etica del profitto, individualismo,
gusto per le innovazioni, concezione della fabbrica come sede strategica
dell'accumulazione economica e delle trasformazioni sociali. Il loro
stesso apprendistato è un chiaro segno del mutamento dei tempi.
Donegani e Pesenti studiano in Germania, Agnelli visita la Ford in
America e ne riporta i principii del taylorismo, Camillo Olivetti
è forse quello che fa il viaggio di studio più significativo
per capire la nuova mentalità degli imprenditori. Creatore
della prima fabbrica italiana di macchine per scrivere, originario
di una famiglia che per secoli ha vissuto di piccoli commerci nelle
viuzze addossate ai piedi del castello di Ivrea, nel suo primo viaggio
negli Stati Uniti (1893) accompagna come assistente Galileo Ferraris
nel laboratorio di Edison. Lì capisce l'importanza della ricerca
applicata all'industria. Al ritorno in patria denuncia "i vivitori
di rendita", proprietari immobilisti, bottegai e notabili che
si oppongono ad ogni nuova iniziativa.
E' in questo periodo che si mettono le prime basi della democrazia
liberale. Con Giovanni Giolitti, a capo del governo ininterrottamente
dal 1903 al 1914, si organizza il sindacalismo imprenditoriale di
pari passo con quello operaio, culminato nel 1906 nella nascita della
Confederazione generale del lavoro. Mai come in questo momento è
vera l'equazione industrialismo e modernizzazione e mai come in questo
momento la borghesia è vicina all'identificazione totale con
la classe dirigente.
Non c'è dubbio che sia la nuova borghesia imprenditrice a guidare
il sorprendente boom dell'epoca giolittiana: tra il 1896 e il 1913,
il tasso di crescita effettivo è del 2,8 per cento, quando
in tutto il ventennio precedente è aumentato meno dell'uno
per cento all'anno, e insieme il prodotto delle attività manifatturiere
cresce di quasi il 150 per cento. Malgrado questi rilevanti successi,
neppure la borghesia giolittiana riesce a diventare egemone, a trasmettere
i propri valori ad altri strati della società, in sostanza
ad acclimatare una solida cultura industriale né ad allargare
in maniera durevole il consenso sociale intorno alle istituzioni liberali.
Questo storico appuntamento con ogni probabilità viene perduto
per una serie di fattori legati alla debolezza strutturale di quel
processo economico, ma soprattutto perché viene meno il tacito
patto di non belligeranza che Giolitti è riuscito a far stringere
fra grande industria e le più forti federazioni di mestiere.
I socialisti riformisti subiscono sempre più la pressione dell'anarco-sindacalismo
e del massimalismo, mentre il liberismo radicale di un'agguerrita
scuola di intellettuali si fa strada negli strati sociali, sia in
alto che in basso. La piccola borghesia si sente tagliata fuori dai
frutti del decollo economico e dai caratteri di una modernizzazione
che non rientra nelle sue tradizioni culturali umanistiche e quasi
georgiche. E' ferocemente antigiolittiana e antindustriale.
Muta anche l'atteggiamento della borghesia imprenditoriale verso Giolitti,
quando, dopo aver ricavato i benefici, si tratta di pagare i costi
dello sviluppo economico e della politica riformatrice (in materia
fiscale, di legislazione del lavoro) voluta dal "grande moderatore":
eppure è questa la sola soluzione possibile per coinvolgere
attorno ai principii della rivoluzione industriale gli interessi e
il consenso di altre classi sociali. Si chiude qui il tentativo giolittiano
di iscrivere lo sviluppo economico in un processo di democratizzazione
della società italiana senza avventure o sbandamenti. il dopoguerra
esaspera tutte le contraddizioni della fragile democrazia. Le prime
elezioni tenute col sistema proporzionale, nel 1919, segnano la perdita
della maggioranza parlamentare da parte delle forze liberali e l'avvento
dei partiti di massa, socialista e cattolico popolare. Si sviluppa
un forte movimento nazionalista di destra, dal partito socialista
si stacca la costola marxista-leninista, gli operai occupano le fabbriche,
gli imprenditori cominciano a dover fare i conti con l'ipotesi di
uno sbocco autoritario della crisi. Alla vigilia della marcia su Roma,
Alberto Pirelli, Camillo Olivetti e Antonio Benni tentano di "costituzionalizzare"
il fascismo emergente: ma non è l'alta borghesia capitalistica
ad esprimere il fascismo, quanto la piccola borghesia, messa al riparo
dalle crisi, con la compressione dei salari operai e con la rivalutazione
della lira a quota 90.
Un certo processo di modernizzazione esiste anche sotto il fascismo,
nonostante il ruralismo e l'antiurbanesimo conclamato dal regime.
Le grandi imprese imparano a conoscere i principi dell'organizzazione
scientifica del lavoro, per la prima volta nella storia italiana il
1936 vede il reddito prodotto dall'industria superare quello rappresentato
dall'agricoltura.
Ma l'Italia non diventa per questo un'autentica società industriale.
La nascita, dopo la grande crisi del 1929, dello Stato banchiere e
imprenditore con la creazione dell'Iri contribuisce a perfezionare
un capitalismo ancora primitivo, assistito e protetto. La borghesia
è presente anche in questa fase con un degno campionario di
manager pubblici e privati come Alberto Beneduce, Donato Menichella,
Raffaele Mattioli, Oscar Sinigaglia, Agostino Rocca, tecnocrati della
nuova industria e della banca a partecipazione statale, convinti che
lo Stato debba svolgere una propria funzione dinamica e regolamentatrice.
I posti di comando nell'economia rimangono tuttavia
nelle mani dei vecchi capitani d'industria, diventati nel frattempo
"grandi feudatari", come scrive nel suo "Diario di
un borghese" Ettore Conti.
La rigidità di un sistema che non prevede mediazione politica,
il culto delle tradizioni, l'antiurbanesimo, gli sbarramenti autarchici
configurano una società organica, controllata dall'alto, fondata
sulla gerarchia e sullo spirito gregario: intorno a questi principii,
che sono la negazione di una società industriale capitalistica,
il fascismo pianifica il consenso delle masse, superando la fase critica
della recessione e arrivando diritto alla guerra.
Mentre il ceto medio trova occasioni di sopravvivenza nella burocrazia
statale ingigantita dal regime e coltiva l'illusione di uno status
distinto e superiore a quello del proletariato di fabbrica, qualche
voce di dissenso si leva dalle corti dei grandi feudatari. Gino Olivetti,
esponente della Confindustria (nel 1938 riparerà all'estero
per sfuggire alle leggi razziali), protesta contro la demagogia di
alcune misure economiche del regime. Giovanni Agnelli, senatore, non
nasconde la sua avversione ai principii autarchici. Il dissenziente
più clamoroso, il dandy della finanza, il magnate della seta
artificiale, Riccardo Gualino, che osa indirizzare a Mussolini una
pesante lettera di denuncia dell'isolamento in cui è destinato
a cadere il nostro sistema industriale dopo la forzata rivalutazione
della lira, viene spedito al confino e, dopo, resta tagliato fuori
(almeno formalmente) dalle posizioni di potere. in molti approfittano
dell'autarchia, in pochi si mostreranno favorevoli a un mantenimento
dell'Italia fuori dal conflitto: non belligeranza, se non neutralità,
vogliono Giovanni Agnelli, Felice Guarnieri, Alberto Pirelli. In tempo,
prima della disfatta finale, trasferiscono le loro centrali finanziarie
in Svizzera. Da lì trattano con monarchia e Alleati per un
passaggio indolore alla pace.
Si torna al regime democratico, ma non si arriva alla moderna società
industriale neppure col tumultuoso dopoguerra. Forte dei dogmi della
Terza Internazionale, la sinistra punta sul crollo finale del capitalismo
e discute a tavolino dell'andata al potere della classe operaia. La
borghesia laica perde il treno per la seconda volta. Luigi Einaudi
e la vecchia scuola liberista guidano l'economia, sulla base di un
semplice ritorno agli automatismi di mercato. La deflazione voluta
nel 1947, una volta sbarcate le sinistre dal governo, punisce la grande
industria e avvia una grave recessione. Le forze che vincono alla
distanza sono quelle cattoliche, educate all'ombra delle parrocchie
e dall'Azione cattolica, emergenti dalla piccola borghesia di provincia,
dalle catacombe di un mondo pressoché dimenticato, le vecchie
leghe bianche, le casse rurali, le cooperative.
Non esiste un progetto generale di riforma e di modernizzazione. C'è
la nuova tecnologia, prestata dall'America, ci sono le grosse riserve
di manodopera a buon prezzo. Si lascia fare alla voglia della gente,
al mercato. Pochi nella borghesia produttiva dimostrano di andare
più in là della pura ricerca di espansione del prodotto
lordo. Dietro il miracolo economico ci sono sette milioni di contadini
che si riversano in breve tempo nei principali distretti industriali.
Vengono dal precapitalismo, chiedono solo lavoro stabile e sicuro.
Non conoscono le regole del gioco democratico, come non le conoscono
nuovi ampi strati di popolazione guadagnati da rendite di posizione
e interessi corporativi. li tentativo di un nuovo indirizzo politico
e di una nuova cultura economica, fatto col centro-sinistra, ha per
unico risultato la nazionalizzazione dell'energia elettrica. La crisi
di consenso intorno all'industria e ai modelli di democrazia industriale
diventa acuta nella seconda metà degli anni '60. L'ondata di
tensione e insofferenza esplosa nelle fabbriche mette in discussione
il sistema stesso dell'impresa ed è il segno tangibile del
ritardo culturale con cui si muovono le forze sociali italiane, sia
quelle di comando sia quelle d'opposizione.
Come l'Italia sia riuscita a interrompere la spirale perversa della
conflittualità sociale sommata alla recessione economica innescata
dall'esterno, è storia di ieri e di oggi. Noi vogliamo ricordare
soltanto il ruolo decisivo della provincia italiana, delle tante piccole
e medie imprese, diffuse non più e non solo nel "triangolo
industriale", ma anche in nuove aree geografiche del Nord-Est
e del Centro-Sud. E qui c'è una sorprendente conti nuità
storica e culturale con i nostri caratteri originari. Dice Castronovo:
"Nell'Italia dei comuni, la prosperità nasceva da mille
botteghe, di artigiani e mercanti. In più, oggi chi lavora
in fabbrica spesso ha anche un pezzo di terra da coltivare, è
l'operaio-contadino di cui parla Adriano Olivetti". Nel frattempo,
si sono verificate altre due cose importanti: la sinistra ha riscoperto
l'esigenza fisiologica del profitto e delle regole del mercato; la
grande industria ha recuperato efficienza e competitività,
producendo non più disavanzi, ma reddito netto. Oggi nessuno
più dubita che si tratti di un processo evolutivo autentico
e non di un fenomeno effimero sorretto (o sorretto esclusivamente)
da evasione fiscale e da lavoro nero. Insomma: siamo più o
meno la quinta potenza industriale del mondo. Ma ancora molti ostacoli
ritardano il nostro ingresso nella democrazia adulta (la nostra società
essendo, come dice Kenneth Galbraith, uno spettacolo di "splendore
privato nel pubblico squallore"). il nostro Paese è un
centauro, con la testa in Europa e gli zoccoli nel Mediterraneo. Siamo
una società che ha gettato in un pozzo certi vincoli del passato,
ma ancora non si è allineata con l'Occidente più progredito.
Ora i tempi stringono. E i margini di manovra si restringono sempre
di più. Allora, chi ha paura di entrare nel futuro?
Sud e borghesia
Le rovine del
'99
La ricorrenza
dei bicentenario della Rivoluzione Francese non è stato soltanto
un memorabile anniversario, ma un'occasione per rimeditare una cultura
politica di grande valore storico attuale: in un mondo che sembra
avere bisogno di orientarsi verso i valori della democrazia politico
e verso una concezione non autoritaria della trasformazione sociale.
Del resto - come è stato acutamente notato per le vicende italiane
- la scarsità di una lettura borghese coeva e successiva agli
sconvolgimenti provocati e indotti anche in Italia dalla Rivoluzione
Francese denuncia una sorta di rimozione collettiva delle proprie
origini, animata dalle preoccupazioni di svelare le radici storiche,
appunto, di una possibile evoluzione del sistema delle libertà
verso più diffuse eguaglianze e più ampie forme di socialità.
La rimozione è stata precoce e più radicale nel Mezzogiorno,
sintetizzata nella noto commemorazione, nel primo centenario, del
meridionale Crispi capo del governo, secondo il quale - come ricorda
Croce - quella rivoluzione apportò sconvolgimenti e danni al
Mezzogiorno e all'Italia tutta e, se essa non fosse accaduto e se
il moto riformistico, protetto dalle monarchia, fosse continuato,
le nostre sorti sarebbero state migliori, facendo risparmio di altre
rivaluzioni.
Oltre le rilevanti questioni di valore sul rapporto tra riforme e
rivoluzione, una rivisitazione della Repubblica partenopea, ad esempio,
presenta Interessi vasti e molteplici. Intanto, "la storia feudale
del Regno di Napoli si chiude con la tragedia del 1799, donde nasce
nuovo ordine di tempi e di cose" (Giustino Fortunato); e la comprensione
della transizione al moderno del Mezzogiorno, con le sue modalità,
su cui hanno lavorato, fra gli altri, con intensità il Sereni
dei residui feudali nelle campagne e il De Martino dei residui magici
della cultura meridionale, è In quella tragedia che ha il suo
snodo essenziale. Le basi, infatti, e gli stessi protagonisti decisivi
del successivo decennio francese appartengono a quel poco più
che cinque mesi di esperienza rivoluzionaria dei Governo Provvisorio
Repubblicano di Napoli.
La cui fecondità, maturità e lungimiranza di vedute
consente a ragione di attribuirgli il merito di essere stato espressione
della migliore e più europea delle borghesie che mai più
ebbe, anche dopo, il Sud d'Italia. Il Governo Provvisorio si cimentò
non solo con l'abolizione del regime feudale, della tortura e con
la codificazione di garanzie nei processi criminali, ma con la riforma
universitario e con una riorganizzazione dei poteri che, per essere
gerarchica e censitaria - per l'appunto, marcatamente borghese - valorizzò
operosità e meriti individuali, consentendo di pervenire, poi,
nel decennio francese, ad uno effettiva modernizzazione istituzionale
dello Stato nel Mezzogiorno, sulla quale siamo ben lungi dall'avere
ricevuto gli approfondimenti necessari, se si escludono le meritorie
indagini della scuola giuridica napoletano di Raffaele Ajello. Ma,
dicevamo, l'interesse è più vasto. La tragedia del 1799
apre spiragli interpretativi sul ruolo delle classi e dei loro conflitti
nel Mezzogiorno in epoca contemporanea:
- circa l'arresto di uno sviluppo borghese conseguente, con Il permanere
di una filosofia della miseria quale corrispettivo del diffuso miserabilismo
sociale e politico, dopo che quella grande borghesia era stato letteralmente
fatta a pezzi;
- circa le paure, le esitazioni, la mancanza di rodicalismo, se non
il trasformismo, di piccoli ma anche di grandi borghesi di fronte
ad ogni moto riformaforò che dalle ceneri rivoluzionarie riattizzasse
il fuoco delle rivolte contadine, rinserrandoli per molto tempo, come
sapeva Croce, nell'angustia di una duplice lotta "l'una municipale
e intestina e spesso feroce, tra famiglia e famiglia l'altra di sospetto
e di difesa contro il contadiname";
- circa la persistente valutazione, appunto, del mondo plebeo e contadino
come fuori dalla storia e capace di fuoriuscirne, ma solo per farsi
lazzaro in città o brigante nelle campagne, secondo un'equazione
cara persino a Giustino Fortunato.
La violenza e il sangue, cioè, con cui venne distrutto e spazzato
via il movimento giacobino condizionò la cultura, non solo
politica, e le iniziative di democratici e di conservatori nel Mezzogiorno.
Ben oltre la consolatoria versione e sistemazione moderato che, da
Cuoco a Croce, espungendo il radicalismo del '99, fa approdare quel
movimento nel moto risorgimentale, dopo che l'"esperienza aveva
ammaestrati quei patrioti, dissipate molte loro illusioni, screditate
le astrattezze, richiamato in onore il divario fra il desiderato e
il possibile".
Non di illusorie astrattezze, in realtà, si trattò;
ma di rivoluzione vera, che sommosse città e campagne, che
coinvolse, da una parte e dall'altra, masse organizzate - nella sola,
piccola Basilicata di 450 mila abitanti migliaia furono i morti, migliaia
i sopravvissuti rei di Stato -; in cui fu forte l'autonomia di borghesi,
plebi urbane e contadine; e il cui dramma vero non fu nell'attività
degli uni e nella passività degli altri, ma nel mancato incontro,
anzi nell'abisso che li separò.
Sulle cui ragioni si può ben partire dalla generale, e precedente,
connotazione di angustia e di separatezza di tutta la società
meridionale fatta dal Galanti ("Ogni classe ed ogni individuo
non sembra di altro sollecito che di fare dei vantaggi propri sulla
salute pubblica"), ma andando oltre. Ed esplorando, come per
fortuna si è cominciato a fare, non solo i rapporti tra riflusso
rivoluzionario in Francia e insuccessi della Repubblica Partenopeo,
ma soprattutto l'orientamento comune al roussoviano Vincenzo Russo
e al vichiano Mario Pagano che, da punti teorici opposti, approdano
all'analogo convincimento sul ruolo fondamentale del potere politico
nel riportare ad eguaglianza i rapporti fra le classi e fra gli uomini
e nel restaurare dalle Fondamenta la società.
Il quale punto di vista, dei Giacobini, ma poi' anche del movimento
socialista, è ben più produttivo di conoscenze, anche
sul 1799, e sull'abisso fra città e campagne, che non l'accusa
di astrattezza e di ingenuità.
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