Chiunque
consideri un po' perplesso l'attuale fioritura della poesia dialettale,
che già allinea i suoi piccoli classici, proprio quando i dialetti
tendono a sparire sulle bocche dei parlanti, con ogni probabilità
penserà a un paradosso. E in effetti si tratta di un paradosso.
Da una parte Marin, Noventa, Pierro, Buttitta, Loi, e i nostri grandi
dialettali (Pietro Gatti e Nicola G. De Donno); dall'altra il parlottìo
paesano che ha ormai i giorni contati, e quella leggera patina che ogni
regione lascia trascorrere sulla lingua nazionale. Più che altro
si tratta di accenti, di cadenze. Tuttavia la letteratura non è
nuova a questi strani miracoli, conosce queste estreme difese, tanto
vero che lungo il corso dei secoli il dialetto usato dai letterati ha
proceduto parallelamente agli eventi della letteratura nazionale. Basta
ricordarsi del Basile, del Meli, del Belli e del Porta. Oggi la rivincita
del dialetto in poesia si deve alle risorse che esso ha ancora a disposizione,
rispetto a I l'appiattimento determinato dai mass media nella lingua
d'uso. Non c'è dunque che da rallegrarsi se il dialetto viva
una seconda vita. Altro motivo di soddisfazione: pur attingendo motivi
alla poesia popolare, i poeti in dialetto non hanno mai sconfinato da
una colta e raffinata letterarietà. Insomma il dialetto in poesia
non si è mai identificato con la vera e propria poesia popolare.
Anzi, muovendo a scacchiera in ogni parte d'Italia, e perciò
anche in Puglia, è sembrato più volte che riuscisse a
profittare delle mode trionfanti (come il marinismo nel Seicento, e
l'Arcadia nel Settecento), per ridar fiato a strumenti espressivi divenuti
logori.
Fu il Croce a mettere in evidenza giustamente questo fenomeno, in un
saggio divenuto poi famoso, contenuto nel volume Uomini e cose della
vecchia Italia (1927): "La letteratura dialettale riflessa, la
sua origine del Seicento e il suo ufficio storico". Osservava il
grande critico e filosofo: "Il movente effettivo, o il movente
principale, della letteratura dialettale riflessa non che essere l'eversione
e la sostituzione della letteratura nazionale, era, per contrario, l'integrazione
di questa, la quale le stava dinanzi, non come un nemico ma come un
modello" (1).
La Puglia non iniziò questo cammino nel Seicento. In quei secolo
pochi ricordavano il prestigio di quello che Dante ricorda nel De Vulgari
Eloquentia come il volgare "pugliese", che si estendeva fuori
dai confini della regione, sublimandosi in lingua aulica e cortese nei
poeti della scuola siciliana. Nella poesia valgono assai meno che per
la prosa erudita, per i sermoni, gli atti municipali, le esperienze
in latino, che trovavano il loro centro nelle accademie, dove si coltivava
una letteratura dotta, circoscritta a gruppi culturali ben precisi.
Non sono poche le accademie che ebbero vita, sull'esempio di quelle
napoletane, a Lecce (Acc. dei Trasformati), a Bari (Le Accad. del Pigri
e dei Coraggiosi, degli Erranti e degli Incogniti), a Bitonto (Accad.
degli Infiammati), a Gravina (Accad. dei Famelici), a Monopoli (Accad.
del Venturieri), senza contare quelle di Taranto, di Nardò, di
Venosa, destinate nell'Ottocento e nel nostro secolo "a cedere
il luogo alle Reali Società Economiche ed alle Società
di Storia Patri" (2) (M. Dell'Aquila).
Diamoci delle spiegazioni fuori da un generico sguardo d'insieme. Il
ritardo che accusiamo nella nascita della nostra poesia dialettale ha
delle ragioni insite nella natura e nella specificità delle varie
parlate. Se si vuoi tracciare, almeno per momenti sommari, un quadro
della poesia pugliese in dialetto, il primo dato importante che viene
in evidenza è la sua "varietà", risultato di
divisioni etniche e storiche fra le varie parti della regione, di antica
origine. "Non erano italici, come nel sud occidentale, gli abitanti
della Puglia anteriori alla conquista grecoromanci", scrive M.
Corti, "ma Messapi, cioè di origine illirico-veneta; vari
studi antropologici e linguistici hanno provato come la civiltà
messapica avesse caratteristiche originali e di avanzato sviluppo e
soprattutto una forte capacità di lavoro. Nel Salento, al sostrato
messapico si deve aggiungere, come per il sud della Calabria, la colonizzazione
greca, alla quale i salentini amano far risalire un certo prestigio
culturale e artistico che li distingue ai restanti pugliesi. La situazione
di area laterale, quindi marginale, dell'intera Puglia non solo durante
l'occupazione romana, ma anche in epoca moderna, ha contribuito certo
a conferire alla Puglia una fisionomia inconfondibile" (3).
Questa mancanza di unità culturale della regione, per la quale
si può parlare di "baresità" e di "salentinità"
come di due poli a sé stanti, a parte le altre frange, destinate
a non fondersi tra loro in unità etnico-linguistica, è
alla base naturalmente della notevole diversità dei dialetti,
a differenza di altre aree italiane, storicamente più unite,
quali la Sicilia, la Toscana, il Veneto, la Lombardia, dove le varie
parlate presentano notevoli affinità. Inoltre, attraverso i suoi
dialetti la Puglia dà l'immagine della separazione determinata
dal latifondo e dalle distanze che hanno impedito l'unificazione in
gruppi omogenei linguisticamente e culturalmente. Pur tenendoci lontani
da questioni economiche e sociali, queste hanno pur qualche diritto
di essere considerate, quando si parla di dialetti. Secondo O. Parlangeli,
infatti, non si dovrebbe parlare di una, ma di più Puglie. Così
anche dai punto di vista delle parlate, questa terra non è percorsa
da un filo unico dal nord al sud. i tarantini non comprendono i dialetti
che si parlano a pochi chilometri di distanza, a Manduria o a Martina
Franca che fanno parte della loro provincia. E il fenomeno si ripete
nella Puglia adriatica, la più vessata dalle invasioni e dalle
incursioni. Ma nella Puglia ionica le differenze sono più vistose,
considerata la forte influenza greca; sicché l'area tarantina
è più vicina linguisticamente a Metaponto e a quella delle
altre città della Magna Grecia.
Ci sono altre considerazioni da aggiungere, per spiegare il ritardo
e la relativa modestia, alle origini, dei risultati poetici nei nostri
dialetti. Nel trattare degli sviluppi ottocenteschi e novecenteschi
di essi, Pier Paolo Pasolini, nel noto saggio che fece da introduzione
alla celebre Poesia dialettale del Novecento, poi pubblicato in Passione
e ideologia (Milano 1960), stabilì qualche punto di confronto
fra i nostri e i poeti della Calabria e della Sardegna -Vincenzo Ammirò
e Paolo Mossa - i principali iniziatori nell'una e nell'altra regione
dei rispettivi cursus dialettali. Essi per la poesia sono nomi importanti,
e formano una tradizione che tarda invece a crearsi in Puglia. Francesco
Paolo d'Amelio e Francesco Saverio Abbrescia, il primo salentino, il
secondo barese, ad Ottocento inoltrato, non danno che risultati mediocri,
secondo Pasolini. Il giudizio diventa più severo, se vogliamo
commisurarlo ad un periodo in cui la poesia dialettale "era un'operazione
che si potrebbe dire naturale". "Noi, naturalmente, - continua
Pasolini - giudichiamo attraverso inevitabili deformazioni, manomettiamo,
sia pure senza volerlo, il giusto equilibrio della storia: ma a questa
nostra retrodatazione di un 'gusto' siamo in parte autorizzati dai grandi
risultati di un Belli e di un Porta, prima, e poi di un Di Giacomo e
un Russo, che stanno a dimostrare in quale modo nell'Italia dei primi
moti rivoluzionari dal '21 al '48, e poi nell'Italia appena unificata,
si potesse scrivere della poesia dialettale, fuori da ogni polemica,
fuori dalla cronaca" (4).
limitiamoci a osservare che non si tratta solo, nel caso della poesia
in dialetto pugliese, di un ritardo naturale, bensì di operazioni
frammentarie che delimitano un orizzonte angusto, in cui la dialettalità
resta allo stato di emarginazione, ridotta al gusto ridanciano di satira
di costume d'un ambiente municipale, ad uso e consumo di quelle classi
medio-alte che l'hanno sempre coltivato. "Ancora nell'Ottocento,
l'immagine della Puglia più nota nel Reame era quella della maschera
(creata da Giuseppe Tavassi) di don Pancrazio Cucuzziello, detto il
Biscegliese, bersaglio preferito di burle e motteggi, una spalla che,
parlando un misto di dialetti pugliesi, perseguitata dai guai, derisa,
abbindolata, derubata, protetta invano da Tartaglia e inutilmente difesa
da Pulcinella, era il simbolo del provinciale sprovveduto, fonte di
risate per i privilegiati abitanti della capitale, frequentatori del
'San Carlino'. Ai quali, ormai, veniva meno una visione realistica della
storia" (5) (A. Bello).
Il fatto più grave da registrare, nell'Ottocento dialettale pugliese,
è la mancanza di quello spirito di protesta e di denuncia derivata
da secolari sopraffazioni, che dà un sapore tutto proprio alla
poesia calabrese. Analoghi motivi (l'arretratezza culturale, le angherie
fiscali, l'amara condizione dei contadini, il rigido rapporto tra le
classi, ecc.) esistevano anche in Puglia, dove la cultura della miseria
era l'unico fattore unificante. Ma non si ebbero che risultati irrisori
nella poesia, non tali comunque da venir segnalati.
La rivoluzione romantica, come ogni altro fenomeno innovativo avvenuto
in passato, giunse col dovuto ritardo (di decenni) nelle terre del Salento,
dove la cultura locale contava buone istituzioni culturali di carattere
accademico e scolastico. Fin dai secoli precedenti, col Barocco e con
l'Arcadia, Lecce aveva rafforzato il suo prestigio rispetto alle città
dell'intera regione. Così pure fu dell'espansione del dialetto
nei centri più evoluti del Salento, come Galatina, Maglie, Gallipoli,
Otranto: una tradizione che alcuni studiosi fanno risalire al 1832,
anno di pubblicazione delle Puesei a lingua leccese ("Poesie in
lingua leccese") di Francesco Antonio D'Amelio (1775-1861), impiegato
all'intendenza della sua città. "In realtà - scrive
M. Marti - questo comporta, forse già di per sé, una sorta
di freschezza stilistica, connessa alla novità [ ... ]. Per un
verso egli ha le lentezze e i languori del tardissimo arcade, e degli
arcadi prosegue i modi delle poesie d'occasione; e per altro verso si
apre una certa sensibilità romantica in qualche modo approssimativa
e impacciata, anche in relazione agli avvenimenti della sua vita e a
un certo candore religioso di carattere domestico e rituale" (6):
Passa e spassa
aggiu sciaccatu
cchiù de quiddrhi ci anu ncaccia;
lu farcune stae nserratu,
e la beddhra nu se nfaccia.
("Passa e
ripassa, mi sono stancato più di quelli che vanno a caccia:
il balcone sta chiuso e la bella non si affaccia").
Essenziale al
discorso dialettale di D'Amelio èl'accento, quel tono dimesso,
colloquiale che egli dà al suo verseggiare, privo di punte
realistiche, come di impulsi polemici e satirici: un patrimonio che
resterà costante nella lirica dialettale salentina.
Dalla contigua area tarentina nasce di lì a poco, con grazie
effusive certamente maggiori, la voce di Emilio Consiglio (1841-1905),
del quale l'unico studioso che volle occuparsene nel primo decennio
del Novecento, Vito Forleo, raccogliendo le sue Poesie italiane e
tarentine (1907), parlò di humour, anzi di "amaritudine
del motteggio". Ed è così. Prima di scrivere le
sue cose migliori d'intonazione assai diversa, il Consiglio, dietro
la maschera di Cataldo Selaride, aveva seguìto talune questioni
di politica municipale a base di epigrammi pungenti. Ma non è
là che dobbiamo ritrovare il poeta, bensì in certe felici
corrispondenze psicologiche con il paesaggio marino: una sorta di
ebbrezza che dà nel patetico, con un sottile modo di lamentarsi
che attenua le tinte e spegne i gridi, come in talune grandi liriche
di Di Giacomo. Se ne vedono i risultati nel dittico "Travagghie
de idde" e "Travagghie de iedde", oppure nella bella
sequenza in quartine "A feste 'o sciardine di Biamonte"
("La festa nel giardino di Biamonte"), dove vibra un'aria
di festa, fra cielo, alberi e mare:
U sole ha pueste
rete a li muntagne
cu tante strisce d'ore e di zaffire;
u mare no si muove e no si lagne:
l'arie èsirene, fresche e si rispire.
Sarà
ca pi rispett'a li signure
li viente one pigghiate 'nota vie:
stè cante u gridde mmiezz'a li fiure,
ma no cu tuene di malincunie...
("Il sole
s'è messo dietro alle montagne con tante strisce d'oro e di
zaffiri; il mare non si muove e non si lagna: l'aria è serena,
fresca e si respira. Sarà che per rispetto ai signori i venti
hanno preso un altra strada; sta cantando il grillo in mezzo ai fiori
ma non con tono di malinconia") (Traduz. di P. Mandrillo).
Nell'ultimo decennio
dell'Ottocento il Salento esprime la figura singolare di Giuseppe
De Dominicis, che fu buon traduttore in dialetto della grande poesia
straniera del secolo scorso, e cantore della vita contemporanea leccese.
Visse a Lecce dal 1869 al 1905; e gli aspetti caratteristici della
sua città trasferì in un'opera fra balzana e satirica,
Canti de l'autra vita, in saporose quartine divenute presto popolari
nell'ambito cittadino. Morto a soli trentasei anni, il De Dominicis,
che amò soprannominarsi Capitan Black, attende ancora oggi
chi ne rivaluti le doti, non solo nell'ambito della satira di costume
ma in quello dell'evocazione storica. E si tratta di un poemetto dedicato
ai "Martiri d'Otranto", un episodio vibrante della storia
salentina, rivissuto più tardi dalla fantasia di M. Corti,
N. De Donno e C. Bene, in modi letterari diversi, lontani tutti dalla
drammatica allure popolaresca di Capitan Black.
Francesco Saverio Abbrescia (Bari, 1813-1852) è il primo che
conti nella tradizione, pur essa recente, del dialetto barese. Canonico
di spiriti liberali (per la sua partecipazione ai moti del '48 e alla
Dieta di Bari, venne processato e privato dell'insegnamento) non fu
il solo ecclesiastico meridionale a unirsi ai patrioti di quell'epoca.
Ebbe anche, come altri poeti dialettali, il gusto di rappresentare
"senza falsi sentimentalismi, rasentando irriverenze e oscenità"
(M. Dell'Aquila) il mondo popolare. Il suo spirito polemico lo portò
a caratterizzazioni d'un certo estro, come l'avvocatesca denunzia
dell'avarizia nel capitolo "Au serare" ("AIl'usuraio").
Accenti di generica denunzia non mancarono alla vena disinvolta di
Davide Lopez (Bari, 1867-1957), nella quale si ritrovano, trasferiti
nell'aspro dialetto barese, temi che erano di moda nella poesia napoletana,
anche la maggiore, dal Di Giacomo al Russo, senza però il magistero
linguistico di questi, espressione di ben altra civiltà letteraria.
Il cantore più ispirato della sua città è indubbiamente
Antonio Nitti (Bari, 1886-1951), vissuto nella stagione verista e
crepuscolare fra Otto e Novecento, durante quel momento effusivo e
sentimentale che si manifestò in tutti i dialetti della penisola,
dietro l'esempio del Pascoli e del Di Giacomo. Pasolini, che lo accolse
nella sua Antologia della poesia dialettale del Novecento, unico fra
tutti i poeti pugliesi, nota che egli "pur provenendo dalla tradizione
locale appartenga già a una nuova generazione, in cui è
andato totalmente o quasi perduto il ricordo delle Puglie barboniche"
(7). Occasione, questa, per il Nitti di inserirsi nel coro nazionale,
ma anche per ricordarci il gusto paesaggistico e macchiettistico che
è costante nella lirica in dialetto del Mezzogiorno. Il teatro
della sua osservazione è Bari, vista con il taglio virtuosistico
dei digiacomiani a cui non manchino vivaci doti di rappresentazione.
E lo si nota in questo delicato pastello di "A vespre" ("AI
vespro"):
Come se strenge
u core
acchiamendanne u mare
a l'ore c'au marnare
ascenne a pezzecà;
acquanne drete
a Specchie
u vespre, chiane chiane,
se stenne e va lendane
la lusce a termedà;
a l'ore ca
se tenge
de fuoche San Catalde,
quanne sparsece u ccalde
nand'a l'Avemarì.
A june a june
tanne,
le pene e le dulure,
le larme e le pendure
te pare de sendì.
("Come si
stringe il cuore guardando il mare nell'ora in cui il marinaio scende
a pescare; quando dietro lo Specchio il vespro, pian piano, si stende
e va a tormentare lontano la luce; nell'ora in cui si tinge di fuoco
San Cataldo, quando scompare il calore davanti all'Avemaria. A uno
a uno i dolori e le pene, le lacrime e le punture ti sembra allora
di sentire") (Traduz. di P.P. Pasolini).
Rapido e commosso,
nella lirica di Nitti domina il paesaggio, che quando manca fa scadere
le sue qualità a semplice e più modesta obbedienza realistica,
con quelle piccole regole che il galateo lessicale dei dialetti ha
fissato da sempre.
Nei dialetti della Capitanata, l'ultimo poeta, per così dire,
tradizionale è Francesco Paolo Borazio (San Marco in Lamis,
1918-1953), che esercitò vari mestieri (fu spaccapietre, imbianchino,
e anche pittore a olio). Trent'anni dopo la sua morte, fu tratto dall'inedito
un suo poema in sestine, Lu trajone, scritto in dialetto garganico,
con intenti eroicomici oggi assolutamente desueti. Si tratta di una
favola che registra all'interno d'una tradizione orale (il gusto del
cantastorie) varie allusioni alla vita dell'autore e del suo paese.
E il paese ritorna nei poemetti e liriche de La preta favedda ("L'eco"),
ora con ilare e disincantata aggressività, ora sotto il profilo
d'una bonaria saggezza popolare, che la parlata locale mette a segno
con indubbia bravura.
Quando si passa alle esperienze più recenti del dialetto pugliese
in poesia, che man mano raggiungono punte d'eccezione, non si può
più parlare di tradizione, ma di dilatazione o espansione tematica
e di affinamento tecnico, derivato da una decisa autonomia del linguaggio
letterario. Così accade al dialetto di Giacomo Strizzi, a quello
di Pietro Gatti e di Nicola De Donno, ciascuno ricavato da un ambito
preciso (come accadrà ai più giovani lino Angiuli e
Francesco Granatiero), poi decisamente vòlto a una cifra personale
d'espressione. E' il rivolgimento di grande peso letterario a cui
abbiamo accennato all'inizio, quella rivincita del dialetto sulla
lingua nazionale che, in certi casi, va a coprire un vuoto di secoli
(con l'eccezione di Napoli, Sicilia, nel Mezzogiorno; Piemonte, Lombardia,
Veneto, Friuli, nel Settentrione); in altri invece è la singolare
reazione di una personalità che solo in una piccola "patria"
linguistica trova di che portarsi al livello della poesia nazionale.
E i nomi, come sappiamo, sono famosi: da Pierro a Marin.
I segni di questa maturazione espressiva non mancano in Puglia e si
avvertono specialmente nella seconda parte del Novecento, quando l'evoluzione
della lirica italiana ha già una sua fisionomia compiuto e
un alto valore esemplativo. Se si può dare un giudizio d'insieme
a esperienze fra loro molto dissimili, diremo che nessuno degli autori
ora citati (e specialmente i maggiori) rivela un modello specifico,-
ma su tutti il travaglio della lirica contemporanea ha impresso orme
e statuti che sarebbe superfluo mettere in evidenza, dal momento che
i nomi sono quelli di Ungaretti, Saba, Montale, Quasimodo, ecc. Senza
dimenticare che il rapporto con il Pascoli non èvenuto mai
meno.
Il più vecchio, e già scomparso, è Giacomo Strizzi
(Alberona, Foggia, 1888 - Torino 1961), che si servì del suo
dialetto d'origine per scandire le sue semplici riflessioni poetiche
in quadretti di vita agreste, che non esprimono la pena del lavoro,
ma solo un delicato gusto della campagna, goduta nell'interezza dei
suoi tanti particolari ad ogni ora del giorno. Più d'ogni spiegazione
può essere eloquente la lettura di "A cunigghière"
("La conigliera"):
Pare na conigghière
a casa de cummare
Bundanzie, a palettére:
tre cìtele
rampèjene
nda nache; tre zurlèjene
p'u cane 'm bocc'a pòrte;
duie fanne
a mucciarèdde
sott'o Iétte; e Bundanzie,
sempre p'u beniamine
'pezzecate
a vunnèdde,
truttéire p'a trippa 'nnanze.
("Pare una
conigliera la casa di comare Abbondanza, la panettiera: tre bimbi
dimenano le manine nella culla; tre ruzzano col cane sull'uscio; due
giocano a caponascondere sotto il letto; e Abbondanza, sempre col
beniamino appiccicato alle gonnelle, trotta 'per la casa' col ventre
gonfio avanti") (Trad. dell'autore).
Le scaltre sonorità
del dialetto di Strizzi disegnano alla fine un mondo limitato a pochi
e sicuri affetti, e a consonanze con la natura di cui si avverte la
presenza soprattutto negli animali. Avrebbe potuto nascere un nuovo
spirito arcadico, ma Strizzi seppe evitarlo mantenendosi in senso
largo dentro l'orbita del Pascoli di Myricae.
Il nome e l'opera di Pietro Gatti (Bari, 1913) ci conducono a Ceglie
Messapico (Brindisi), il cui dialetto, pur compreso nell'area salentina,
ne ha perduto vari caratteri, o, come egli dice, è diventato
parte di un'enclave, "una colonia superstite di taluno dei rudi
rustici ceppi delle popolazioni sannitiche" (8). Di questa terra
Gatti, cominciando a scrivere ad età avanzata (il primo volumetto,
Nu vecchju diarie d'amore, venne pubblicato nel 1973, quando egli
aveva sessant'anni), ha voluto "celebrare" ogni aspetto
lieto e tragico, col proposito sempre taciuto di elevarla a parte
integrale dell'uomo, della sua fatica costante, dei suoi bisogni elementari,
delle sue memorie familiari: un connubio che di idillico e georgico
non conserva che poche tracce, quelle insopprimibili, chiedendo al
contrario per essere "fissato" la presenza dello sguardo,
dell'orecchio, vicini al flusso esistenziale delle persone, degli
animali, delle cose. Ed ecco allora in questa poesia (A terra meje,
1976; Memorie d'aiere e dde iosce, 1982; 'Nguna vite, 1984) il bisogno
di andare alle radici, di scendere nel profondo, un viaggio ctonio
compiuto senza spirito d'avventura, dimesso, silenzioso, alla scoperta
di molti segreti di cui il cuore non si dò pace.
E sarà ora il canto di un carrettiere che s'incide nella notte
serena (un'eco del "canto notturno" leopardiano?), ora la
sorpresa, camminando per un tratturo, di un muro ricoperto dai rovi,
ora la visione di un camposanto di campagna: colori, voci, odori che
non si sovrappongono formando al contrario una catena di segnali,
una magìa di cui si ignora il principio e la fine - e mascìa
èuna parola chiave nelle liriche di Gatti -; forme che avanzano
o si dissolvono dopo la prima apparizione, "no vrettìscene
de vite" - una vertigine di vita - che potrebbe soffocare ogni
altra presenza. "Sonde de terre le penziere mije" - sono
di terra i pensieri miei - riconosce il poeta, mischiando parole e
polvere, che porterà poi con sé nell'ombra della casa,
stordito e pacificato.
La poesia di Gatti procede per lasse, lunghi periodi musicali che
si dispiegano per dilatazione da verso a verso, accompagnando quelle
sorprese incantevoli, quei riconoscimenti dolorosi: un fascinoso giuoco
di suoni e assonanze in cui si riflette la contemplazione di tanta
mascìa. Perché è nella sua voce che il poeta
vorrebbe poter raccogliere l'orfico richiamo delle piante, degli animali,
mischiato a tutti i sordi rumori della terra, ai fruscii, ai silenzi
intercorrenti. Si direbbe che questo concerto, ogni volta tentatore,
rechi in sé qualcosa di mistico, ma è proprio alla sua
insorgenza che Gatti non fa caso. Il suo orecchio non sta in ascolto
di messaggi e la sua mente non va in cerca di simboli; né egli
sente il bisogno di colmare qualche vuoto dell'anima. Quei bollichìo
della vita (cudu vugghje d'a vite, di cui parla una sua poesia) gli
basta per evitare ogni spiegazione che si potrebbe dare religiosamente;
serve a conoscere solo più da vicino i motivi peculiari dell'esistenza
e anche i suoi limiti.
L'ansia religiosa di Gatti, che una delle sue raccolte più
cospicue, Memorie d'ajere i dde josce, rivela sapientemente, sembra
uno stimolo, mai un affanno, a riandare con la mente a fantasiosi
segreti della natura, ad affacciarsi al mistero della morte, ad avvertire
commossa la presenza dei vivi (tutti i personaggi della sua poesia
formano una sola famiglia), lasciando da parte il delirio della Storia,
la vicinanza e la violenza degli avvenimenti. Ed è per questo,
forse, che molti canti di Gatti rischiano di tramutarsi in messaggi
accorati pronunciati a voce bassa, a difendere il suo credo animistico.
E d'altra parte questa è l'unica risposta che egli si dà
nell'ultima raccolta, 'Nguna vite ("Qualche vita") definita
dai curatori uno "Spoon river italo-meridionale": "Sonde
nu picca d'àneme sultande/ i dde core, ca sèteche na
piste" ("Sono un poco di anima soltanto e di cuore, che
segue una pesta").
Qual è, considerando solo la tematica, l'aspetto che differenzia
la poesia di Gatti da quella di Pierro? Entrambi, indubbiamente, hanno
avvertito la vicinanza della terra come un insieme di elementi orfici,
difficilmente decifrabili; ma in Gatti non s'accende mai la nota nostalgica,
il nero fuoco dei ricordi d'infanzia che nella poesia di Pierro dà
tocchi lugubri. E in più il risultato di questo lungo viaggio
a ritroso nell'intimità terrestre non ha in lui nulla di disperato,
finisce sempre in elegia.
Un'accorta esegesi potrebbe mettere a confronto - come è stato
già fatto da M. Marti -la "terra" di Gatti al "paese"
di De Donno. L'una, espansa e perfino astorica, immateriale, sfiorata
da immedicabili tormenti spirituali, l'altro un microcosmo dai numerosi
risvolti d'attualità, uno scenario tumultuoso di passioni umane
che, conclusa la loro paradossale vicenda, sembrano viste da lontano,
additate come spettacolo, da una voce di moralista che abbia ottenuto
il dono di ricordarsi di tutto: della storia dei singoli, della vita
di un intero paese.
Il dettato di Nicola G. De Donno non poteva svilupparsi - dati i precedenti
umanistici dell'autore (nato a Maglie nel 1920, ma laureatosi alla
Normale di Pisci) se non attraverso modelli ideali. E quello da lui
scelto, il Belli, gli è parso poter ancora incarnarsi quale
voce giudicante nel fitto intrecciarsi degli interessi umani, non
ultimi gli interessi politici. La maggior parte dei suoi sonetti (e
ricordiamo le principali raccolte: Cronache e paràbbule, 1972;
Paese, 1979; Mumenti e ttrumenti, 1986) nascono come scommessa di
un intellettuale che si è trovato a far da testimone: una condizione
analoga a quella del grande poeta romanesco. Di quest'ultimo conservano
il ritmo intenso, la clausola mordente, e sono dedicati a personaggi
reali o immaginari, dal senatore al fiscolaro, dal miliardario al
seminarista, la cui vita però non è seguìta nel
frastuono cittadino o paesano, bensì sembra apparire come proiettata
da una lanterna magica sul bianco di un muro. Ciò che si vede
ha il guizzo d'una apparizione illusionistica e insieme l'evidenza
di qualcosa che "c'è stato". Alcuni abitanti di questo
paese parlano di un episodio saliente della propria vita, da "epitaffi"
(9) nei quali nessuno si mostra pentito o in colpa: la vita si ripete
nell'aldilà tale e quale. De Donno aggiunge di suo il piacere,
naturalmente ironico, di "non" partecipare. E' raro che
i suoi sonetti si caratterizzino per una trovata comica, per uno sberleffo,
o altro di caustico com'è nella tradizione satirica e nello
stesso Belli. Più che personaggi, questi "epitaffi"
ci disegnano dei caratteri, che si esprimono secondo una tipologia
particolare. E ciò che li unisce è un dialetto, una
parlata domestica, talvolta regolata da sottigliezze causidiche. E'
il dialetto puro salentino, quello di Maglie, che l'autore in un "a
parte" ci indica anche come "catina de bbarcune ca ne ttacca,
/ mente e carne, e stu pizzu de biccocca / de paese perdutu, ca lu
scacca / lu sule e lli rrifiata bboccabbona / distini chiusi come
ciralacca" ("catena di barcone che ci lega, mente e carne,
a quest'angolo di bicocca di paese perduto, che il sole percuote e
gli respira bocca a bocca destini chiusi come ceralacca").
Dunque destini, che ogni carattere reca in sé per costituzione.
Chi parla di destino non può avere che una visione pessimistica
della vita. Così De Donno che, prendendo atto della nascita
del "suo" paese, con le case degli uomini, i sindaci, le
chiese, conclude: "jeu parlu e pparlo, e Iloru persuvase /rrèstane,
ca lu ciucciu lu carrese / sana a Ila varda, e òutru nu Ili
trase" ("io parlo e parlo, e loro persuase restano, che
l'asino sano il garrese sotto il basto, e altro non gli entra in testa").
Egli, infatti, non ha parlato di qualcuno in particolare, ma di quanti
sono fatti in un certo modo. Un giuoco letterario? Si direbbe piuttosto
il frutto di una lunga riflessione sulla condizione umana, trasferita
in un paese, peggiorata dalle abitudini e dai suoi vizi, ma non per
questo meno rispondente all'idea dell'uomo.
Di fronte a questa irreparabile condizione di fatto, non è
meno evidenziata, nei sonetti di De Donno, la violenza della natura,
un sole, un'estate che stende "a tradimento" il paese che
senza resistere si lascia piantare nella sua nuca una bandiera di
stoppie. E' l'immagine prevalente di "Friscura d'acque",
una delle numerose poesie dove all'impatto umano subentra quello fisico
di una realtà da sempre minacciosa. Ad esse l'autore ha dato
una spinta fantastica che di per sé è sconvolgente,
con invenzioni lessicali, ritmiche, e di immagini, mescolando ricordi
e speranze, furori e abbattimenti che rimandano alla sua vita.
E' stato De Donno qualche anno fa a rivelare l'intensa vena eticoreligiosa
di Erminio Giulio Caputo (Campobasso, 1921), un poeta di formazione
autonoma che affida al dialetto salentino le sue ansie e le sue traversie
spirituali aperte ai più drammatici interrogativi. Non senza
motivo, "speciale rilievo" ha nella sua poesia - scrive
De Donno nel l'introduzione a La chesùra (1980) - "la
posta passiva dell'emigrazione, tragedia devastante in ogni suo aspetto
umano e sociale, strettamente collegata con l'altra dello scoramento
e della disoccupazione dei giovani". Ma, a parte i contenuti,
è il tono accorato, l'appassionata scansione dei suoi versi
a restituirci la fisionomia di questo poeta, sfuggito alla considerazione
di vari critici e antologisti, pur in un periodo di grande attenzione
ai fermenti della poesia dialettale. Ecco un tratto del paesaggio
della campagna salentina da lui rappresentato:
Rìtanu
jùtu
le razze desperate de le ulìe
ca lu faùgnu junduliascia e pàrenu
li nanni nesci,
li nanni de li nanni ca la carne
qua subbra se squartàra
beèndu l'acqua mara de li puzzi,
calmandu a stientu
la fame ntica.
("La chesùra")
("Gridano
aiuto le braccia disperate degli ulivi che agita il favonio e sembrano
i nostri nonni, i nonni dei nonni che la carne qui sopra si lacerano
bevendo l'acqua amara dei pozzi, calmando la fame antica").
In "Sta terra",
echeggia lo strazio nostalgico dell'emigrante, che casi la ricorda:
terra de stracchi
silenzi
de suènni prufunni
ca nu còniuga verbi allu futuru.
("terra di
stracchi silenzi di sonni profondi che non coniuga verbi al futuro").
Dei due poeti
più giovani, Angiuli e Granatiero (l'uno nato a Valenzano,
Bari, nel 1946, l'altro a Mattinata, Foggia, nel 1949), si attende
- dopo varie prove felici - quel momento conclusivo in cui la loro
poesia, proveniente da due diverse aree pugliesi, possa risultare
un'esperienza compiuta. Entrambi, ma il primo in particolare per la
sua poesia in lingua, hanno avvertito il richiamo alle proprie radici,
e il dialetto risponde a una tale esigenza vivificandosi nel cuore
di una civiltà contadina, quella pugliese, dai mille risvolti
mitici e rituali. L'incontro di Angiuli con il dialetto di Valenzano
risale ai primi anni Sessanta, e ha dato frutti considerevoli in June
la lune (1979) e nella bella sequenza E àrue dei crestiene
("L'albero dei cristiani"), apparsa nella rivista "Il
Belpaese" (1985). "L'ironia", come è stato detto,
diventa in lui "correttivo della pena e dell'elegia" (10)
(A. Motta). Per Granatiero, invece, vale "lo scavo di un dialetto
arcaico, ritrovato per forza di studio e di memoria nella parola morta"
(11) (G. Tesio). Esso lo rende partecipe della memoria contadina,
come alternativa alla solitudine e al vuoto provocato dalla lontananza.
Note
1) Cfr. Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927.
2) Cfr. La letteratura dialettale in Italia, v. II, Paler mo 1984.
3) Amare contee, a cura di A. Bello, Rimini 1985.
4) Cfr. Passione e ideologia, Milano 1960.
5) Amare contee, cit.
6) Cfr. La letteratura dialettale in Italia, v. II, cit.
7) Passione e ideologia, cit.
8) Cfr. A terra meje, Fasano di Puglia 1976.
9) Pitaffi è una sezione del vol. Paese, Cavallino di Lecce
1979.
10) Prefaz. a June la luna, Fasano di Puglia 1979.
11) "Diverse lingue", a.I., n. 2, ott. 1986.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
ANTOLOGIE
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1°; R.
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STUDI DI CARATTERE
GENERALE
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id., I dialetti di Puglia, Roma 1970;
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regionale, in "Lingua e Storia in PugIia", Siponto (Manfredonia),
n. 1, 1974;
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dopoguerra", Atti del Convegno Nazionale, Lanciano 1970, 1971,
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dialettale in Italia, a cura di P. Mazzamuto, cit., v. 2°;
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G. Custodero, Puglia letteraria del Novecento, Ravenna 1982.
PER GLI AUTORI
CITATI VEDI:
FRANCESCO A. D'AMELIO. M. Dell'Aquila, Parnaso di Puglia nel '900,
Bari 1983.
FRANCESCO S. ABBRESCIA. F.S. Abbrescia, volume commemorativo, a cura
di A. Nitti ed altri, Bari 1913; M. Dell'Aquila, Parnaso di Puglia
nel '900, cit.
EMILIO CONSIGLIO. V. Forleo, prefaz. a Poesie italiane e tarentine,
Taranto 1907. GIUSEPPE DE DOMINICIS. F. D'Elia, prefaz. a Le poesie
di Capitano Black, rist. dell'ediz. Lecce 1926, Galatina 1976, vv.
2; M. Marti, "N. De Donno e P. Gatti: per una linea della poesia
dialettale salentina", in La letteratura dialettale in Italia,
cit. v. 2°.
ANTONIO NITTI. P.P. Pasolini, Introduz. a La poesia dialettale del
Novecento, cit.; M. Dell'Aquila, Parnaso di Puglia nel'900, cit.
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di Puglia" (Fasano), n. 3, 15 mar. 1977; R. Nigro, "Quaderni
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salentina", in La letteratura dialettale in Italia, cit., v.
2°; "Il Quaderno di Viaporticella", Omaggio a P. Gatti,
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1987.
Funerale del
poeta
Francesco Saverio
Dodaro
ad Enzo Panareo
nel retro della
camera mortuaria
fra i pini rinsecchiti
la polvere
il sole
un applauso
al verso
al canto
ed all'amico
poi il silenzio
lunghissimo
la commozione
ed il viatico
nel ventre cimiteriale
tra i carrelli ferrosi
la pece
ed altri pianti
ancora un applauso
al verso
al canto
ed all'amico fuggito
ancora il silenzio
lunghissimo
la commozione
e l'arrivederci
sulle pagine del
desiderio
tra i segni della disperazione
12 giugno 1987
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