Nell'immediato
dopoguerra a Lecce era facile trovare degli artigiani e qualche popolano
di cultura medio-bassa, di mezza età, che citavano versi dialettali
di Giuseppe De Dominicis imparati a memoria, senza lettura, per trasmissione
orale, dai vecchi ai giovani, da amico ad amico, specie per un riferimento
a stati fisici contingenti, ad esempio per denunziare la fame:
Na ndore te
purpette se sentìa
ca veramente a nterra te menaa! ... (1)
Voglio dire che
una quarantina di anni fa a Lecce, quando era ancora viva la "cultura
pedonale", quella della città percorsa e percorribile
a piedi o in carrozzella, perchè mancavano le automobili e
gli spazi urbani e suburbani erano a misura d'uomo e gli accadimenti
si trasmettevano nell'aria da un punto estremo all'altro: da litri
a Fondone, da "lu Tana" (la zona delle case basse di Via
Maglie) alle "tre colline", a "la capu te Santu Ronzu"
e Fondocupa, zone dove si faceva "lu riu" (la scampagnata
di pasquetta); quando la "cultura dell'arco" nell'edificazione
di abitazioni civili non aveva ceduto ancora alla "Cultura dell'architrave"
che, col cemento armato e le assordanti macchine togliatufo, avrebbe,
a metà degli anni Cinquanta, allargato la superficie urbana
fino a toccare i paesi limitrofi Cavallino e Surbo e ad inglobare
i sobborghi di S. Nicola, Aria Sana, Stalingrado e Caliò Pomponio;
Pietru Lau e Capitanu Bracca (pseudonimo dialettizzato da Capitano
Black di De Dominicis) erano nomi correnti come "lu Ronzu babbu",
la "Giulia", "don Giuliu Pampasciulu", "mesciu
Ninu nguè", personaggi viventi del folclore cittadino,
a tutti noti, grandi e piccoli, colti e incolti, bersaglio di scherzi
impietosi e della "'ngiura" (scherno) degli "aéa"
(i ragazzi che crescevano alla scuola della strada, così chiamati
dal grido che si scambiavano per radunarsi).
La cultura popolare aveva inconsciamente confuso la figura poetica
di Pietru Lau col poeta creatore, passato anch'egli alla mitologia
popolaresca come patrimonio indigeno. C'erano coloro che ben conoscevano
l'identità di De Dominicis e le sue opere, ma non potevano
far testo in una circolazione spontanea di citazioni rispondenti ad
esigenze di umorismo altrettanto spontaneo, in una cultura dialettale
che solo dopo un decennio circa, in Italia, avrebbe cominciato ad
imporsi come materia di studio sistematico, ad opera di autorevoli
filologi che pubblicarono le edizioni dei grandi poeti dialettali,
dal Belli di Vigolo nel 1953, all'edizione critica del Porta, a cura
di Isella, nel 1954-56, dopo che Pasolini e Dell'Arco avevano presentato,
nel 1952, la prima antologia di poesia dialettale del Novecento nella
quale si ritrovano nominati, ma non più che questo, i salentini
G. De Dominicis, Oberdan leone (ma con il cognome appuntato, scambiato
per nome), E. Bozzi e A. Tarro. (2)
Giuseppe De Dominicis, nato a Cavallino l'11 settembre 1869 e morto
il 15 maggio 1905, aveva pubblicato, dal 1892, Scrasce e gesurmìni,
al 1903, Spudhiculature, sette raccoltine di poesie in vernacolo;
ma solo nel 1926, ad iniziativa di Francesco D'Elia fu raccolta tutta
la sua opera, per decenni rimasta l'unica edizione raramente disponibile.
(3)
Il 12 aprile 1945, termine dal quale si è ripreso a parlare
di Capitan Black, ad iniziativa di un'associazione universitaria,
Angelo Sacquegna commemorava a Cavallino il quarantesimo della morte
del poeta. Era un riaprire un discorso interrotto da decenni di silenzio
e non si può nascondere che il flusso emotivo, e celebrativo
insieme, tolse a quell'intervento (4) la freddezza dell'analisi critica
e determinò, nell'oratore, una svista che va rettificata.
Parlando dei Canti della Vita e della Morte, sottolineata la splendida
veste poetica e il solido impianto di pensiero con una citazione di
F. D'Elia, Sacquegna la attribuiva però a Girolamo Corni del
quale riportava un brano di una conferenza, su Poesia e conoscenza:
tenuta a Roma nel 1932. Corni, poeta cresciuto e formatosi sulla poesia
francese, forse non avrà mai pronunciato una sola parola dialettale
nella sua vita, anche se può darsi abbia letto queste "laudi"
in vernacolo che esaltano la sacralità dell'amore vincente
sulla scienza a sua volta perdente con la morte.
Cce base dunque,
Adamu, lu fruttu ca mangiasti,
la scenzia de lu bene, la scenzia de lu male?
se cu fferma la morte lu fruttu tou nu mbale? (5)
La colpa di Adorno,
per De Dominicis, è l'aver preteso di possedere la scienza,
senza sapere però fermare la morte.
Allora Padreterno, prega il poeta, toglicela pure la scienza; noi
uomini possiamo fare a meno di questa "maga triste", purchè
ci resti la gioventù, lo spettacolo del creato, l'amore:
llèanilu
puru, llèanilu lu fruttu de la scenzia,
fanni turnare scemi, la mente cu sse chiua!
de quista maga trista nui ride facimu senza;
ma la gioentù, Signore, la morte cu nu strua!
Ni basta a
nnui surtantu de li fiuri la ndore
e Ila ista de lu celu, li campi de lu mare.
e nna carusa bionda cu nni tegna allu core
e cu bessa la vita amare, amare, amare! (6)
L'immagine musicale
e luminosa della vita ha, in opposizione diretta quella cupa e spaventevole
della morte:
L'uecchi ntesau
e lla idde. Lla idde affundu affundu
rande ca cu lla uarda la vista se perdìa!
Stia cu Ili piedi pierti subbra a ttuttu lu mundu;
la capu intru llu celu luntana se scundia!
Era na cosa
immenza, paurusa, spamentosa,
ca l'arcu de la fàuce e ncelu nu ccacciaa
e de subbra a stu mundu ogne cchiù bàuta cosa
cu na botta te tìscetu, de pete scrafazzaa! (7)
Amore e morte
sono temi costanti nella poesia di De Dominicis, che non si sofferma
sulla episodicità della cronaca e sui riti folclorici (argomento
corposo della poesia dialettale in genere), ma non tra loro legati
e romanticamente confluenti in esiti pessimistici. Sono anzi forze
antagonistiche, in lotta, che hanno come terreno di scontro il mondo
e oggetto della contesa gli esseri viventi. Questa lotta si risolve,
secondo il poeta, in un processo di riaggregazione di ciò che
la morte ha disperso, per effetto, non spiegabile in termini umani,
della "resurrezione" della carne, argomento di fede, che
De Dominicis ha mirabilmente visualizzato in Lu giudiziu, universale.
E ll'Angelu
a ncelu sunandu la tromba:
"O muerti, beriti ca l'ura è rriata!"
Pe mmare pe
tterra lu ritu rembomba
e ll'aria la terra se sente traugghiata.
E ogn'acenu
tantu cu nn'àutru se unisce
se cangia se scodha se gira sparisce
e ll'acqua
la terra le chiante li fiuri
cangiandu de furma sustanzia e cculuri.
La rena la
petra se cangia de cquai
e ll'aria la chianta se cangia de dhai
e utandu currendu
pe ll'aria se nd'ianu
dentandu nu pete, dentandu na manu.
Li fiuri le
fronde li iermi le cozze
su pparte de nn'uecchiu, de nasi su stozze;
e stozze de
nasi pe ll'aria currendu
se unìscenu all'uecchi e sse anu facendu
a ffurma de
facce. La facce ba ttroa
sse unisca alla capu ca prima era soa.
Nu dìscetu
enendu de migghie luntanu
se ncodha cu nn'ugna, se unisce a nna manu.
Na stozza de
carne de nn'anca de cquai
se scodha se unisce a nnu razzu de dhai,
currendu e
butandu e fissu a nnu muertu,
de nanti de coste de coste de retu
de subbra de
sutta qua nnanti a dha mmera
utandu e girandu alla stessa manera...
E ll'Angelu
all'aria sunandu la ttromba:
"O muerti, beriti" - rembomba, rembomba!
(8)
Ho voluto premettere
questi "assaggi" lirici al percorso, breve, che porterà
a dare un profilo del poeta, per sgombrare il terreno dal pregiudizio
che la poesia dialettale tratti solo temi caduchi ed effimeri, legati
alla cronaca spicciola, inchiodata ad una realtà minuta, di
borgata, di quartiere, di vicinato.
De Dominicis è poeta di robusta voce anche se la lingua che
usa è di circoscritta diffusione territoriale; ma non è
la lingua che limita la circolazione di un poeta, quanto il respiro
asfittico della sua voce.
Chi era De Dominicis?
Già negli anni finali del secolo scorso, Giovanni Canevazzi
(Fulvio Modena, pseudonimo) aveva pubblicato nella rivista tranese-barese
diretta da Valdemaro Vecchi, "Rassegna Pugliese", un lungo
articolo su De Dominicis (9), nel quale faceva il punto sugli studi
intorno al canto popolare dialettale. Dopo aver rilevato che in Italia
molte regioni avevano cultori della poesia dialettale ed amore per
il proprio vernacolo, come il Veneto, la Toscana, la Sicilia e Napoli
in specie, l'autore addebitava ai pugliesi scarso interesse per tale
espressione, fino a formulare una singolare distinzione sulla "piacevolezza"
dei dialetti pugliesi, come discrimine della produzione poetica!
"Non faccio appunto di biasimo ai Foggiani e ai Baresi, perchè
il loro dialetto non offre alcuna bellezza, alcuna grazia; ma è
censurabile, è vergognoso che a Lecce, dove il dialetto è
meno ingrato alla composizione poetica, dove ha invece varietà
e piacevolezza di effetti [ ... ] si abbandoni la poesia dialettale
e non si tenti la canzone popolare, che forse potrebbe dare buoni
frutti" (10).
Non mi fermo a confutare questa singolare graduatoria della "bellezza"
dei dialetti, formulata sul parametro del campanilismo, ma tale apprezzamento
diventa ben più valido, quando sia un poeta dialettale come
Trilussa a dichiarare: "Ho potuto notare che la poesia dialettale
di Terra d'Otranto eccelle indubbiamente fra i dialetti di Puglia,
per dolcezza di linguaggio e profondità di pensiero. Posso
dire quindi, a mia modesta veduto, ch'essa occupa un buon posto nella
nostra letteratura folkloristica dopo la poesia napoletana e la romanesca.
Assai vicino al siciliano ed avendo subìto l'influsso del napoletano,
il dialetto leccese non è tanto difficile a leggersi ed a pronunciarsi,
una volta conosciute le poche, ma non sempre concordi, regole grammaticali
che lo informano.
Ho letto così le poesie del Bozzi e del Capitano Black, del
D'Amelio - primo poeta leccese - e di qualche altro.
Per ultimo ho avuta l'occasione di leggere una ottima raccolta di
versi di Francesco Morelli ..." (11)
Torniamo alla panoramica disegnata dal Canevazzi. Napoli vanta i suoi
Di Giacomo, Pagliara, Russo; Roma: Belli, Pascarella, Zanazzo; la
Sicilia: Meli; Milano: Porta, Maggi, Birago; il Piemonte: Brofferio,
Calvo; Venezia: Veniero, Gritti, Lamberti. E Lecce? "Di poeti
dialettali ne conta pochi nella sue cronache" (12), sentenzia.
A distanza di circa novant'anni da questa panoramica non esaltante
per i salentini, le cose sono un pò cambiate. Si è formato
un consistente filone salentino otto-novecentesco, senza contare i
testi dialettali "antichi e medi" che O. Parlangeli presenta
in appendice a Ottocento poetico dialettale salentino (13), e la poesia
popolare, di tradizione orale ed anonima, comprendente canti epico-lirici,
religioso-lirici, narrativi, funebri, drammatici e testi più
mediocri, come indovinelli, ninne nanne, organicamente studiati e
raccolti da Irene Maria Malecore (14). A partire, come rileva lo stesso
Canevazzi, dall'anonimo autore del poemetto Lecce strafurmata, datato
1769, si contano D. A. D'Amelio, considerato il caposcuola della poesia
in vernacolo leccese, Francesco Marangi, noto come Gamiran, Enrico
Bozzi Conte di Luna, Giuseppe De Dominicis Capitano Black, Oberdan
leone; poi c'è la pattuglia dei meno noti: De Giorgi, De Simone,
Greco - che usava lo pseudonimo Indo-Vinate - Giuseppe Silvio Vacca,
Raffaele Pagliarulo - pseudonimo, Raoul Pigla - Francesco Morelli
di Squinzano, apprezzato da Trilussa; un patrimonio di notevole consistenza.
Ad essi vanno aggiunti i poeti viventi, che continuano la tradizione
e la consolidano come provinciale, quali Erminio Caputo, Rocca Cataldi,
Franco Lupo, Niny Greco, per fare dei nomi, e due poeti che, pur nel
solco tradizionale, hanno un timbro che li porta a trovare i destinatari
fuori dai confini della municipalità dialettofona, tra lettori
che nel dialetto, anche costruito e colto, cercano di trovare i connotati
della "diversità" antropologica nei nuclei regionali
della comunità nazionale: il magliese Nicola G. De Donno e
il cegliese Piero Gatti, che sembrano delimitare l'area linguistica
dialettale nella quale si estende geograficamente e storicamente,
pur nella varietà di forma, il Salento.
Certo a seguito dell'avvenuta legittimazione, sul piano scientifico-storico
ed estetico, della poesia dialettale come letteratura non subordinata,
c'è da considerare il problema riproposto da Stefano Giovanardi:
"Se si eccettuano le tre o quattro aree che sono riuscite a costruirsi
una solida tradizione letteraria in dialetto, per il resto si è
sempre trattato, in definitiva, di dar forma all'informe, fissando
nei segni della scrittura la materia puramente fonica e assai mutevole
del "parlato" locale" (15).
Un condizionamento già messo in luce dal Canevazzi nel suo
saggio ottocentesco, che il non dimenticato Oronzo Parlangeli non
condivideva quando M. Sansone sosteneva anche lui, che "le letterature
regionali e dialettali d'Italia si sarebbero sviluppate in Sicilia,
a Napoli, a Milano e a Venezia e, infine, in Piemonte e languirebbero,
o avrebbero scarso rilievo, in regioni politicamente prive di importanza",
indicando le Marche, l'Umbria, la Puglia, la Basilicata, la Calabria
(16),
Parlangeli contestava anzitutto la liceità di "proporzionare
la vastità delle singole produzioni letterarie dialettali all'importanza
politica che le rispettive regioni hanno avuto nei secoli scorsi",
dichiarando che, per quanto "riguarda la Puglia barese, potremmo
anche accettarla (s'intende, l'inclusione), ma se invece si riferisce
a tutt'intera la nostra regione e se si vuote affermare che il Salento
non ebbe una florida, se non proprio floridissima letteratura dialettale,
allora non possiamo non manifestare il nostro dissenso. Ché,
invece, è vero proprio il contrario: la letteratura dialettale
salentina ha sempre avuto una fioritura, se non larghissima, certamente
larga" (17).E' Parlangeli, dialettologo di vasta dottrina e di
indiscussa autorità, dopo una rapida scorsa su dieci secoli
di testimonianze del dialetto salentino, a partire dal Trattato di
Farmacologia del medico ebreo Sciabbethai Donnola, oritano morto dopo
il 982, giunge alla poesia dialettale salentina illuminata soprattutto
da D'Amelio e De Dominicis, non famosi come il Porta e il Belli, ma
capaci di trarre dalla minuscola realtà sociale della provincia
salentina i motivi comuni agli uomini di ogni latitudine, esprimendoli
in una lingua preesistente a quella letteraria, che si apprende via
via che si passa dai fenomeni dell'infanzia alla incerta articolazione
delle parole "parlate", come diceva D'Amelio
Nudda lingua
aggiu studiata
E de nudda sacciu nienti:
Sulu quidda te lu tata
Me sta scioca intru a li tienti. (18)
Questi poeti dialettali
sono coscienti della limitatezza di espansione del foro "messaggio"
(anche se poi accade che Pascoli faccia oggetto di una sua lezione,
all'Università di Bologna, una poesia del D'Amelio e in particolare
quella che inizia con i versi stupendi
Luna mia d'argentu
ricca
ca lu sìmeni allu ientu;
sono consapevoli
dell'impossibilità di diffusione della poesia dialettale oltre
il territorio dove quel dialetto vive (anche se poi uno studioso come
Gerhard RohIfs ha costruito e diffuso nel mondo il Dizionario del
dialetto salentino(20)); ma sanno che ogni lingua, anche quella "de
lu tata", è ambasciatrice della mente e sa spingere ogni
cosa se detta come la sente l'anima; sanno di possedere la "forza
inimitabile di sentire e di patire per tutti, nell'unico orgoglio
di sapersi umili, nella unica grandezza di rendersi piccoli. La gloria
del provincialismo, insomma". (21)
Il lavoro di Canevazzi, che apre la bibliografia critica (se pure
di critica si possa parlare) del cavallinese, ci informa che, negli
ultimi anni dell'800, De Dominicis era notissimo, "non c'è
angolo del leccese dove non si conosca questo tipo di poeta"
(22).
Ma oggi quanti sono, tra i giovani salentini, che stanno abbandonando
il dialetto, non tanto per un malinteso riscatto sociale, quanto sulla
spinta di un massificato italiano impuro, televisivo, quelli che ne
conoscono il nome? e, tra i meno giovani, coloro che lo saprebbero
descrivere nella sua complessione somatica e nella sua ideologia?
Ben pochi, sicuramente. E allora ci vengono in soccorso Canevazzi
e la sincera, affettuosa e paterna descrizione del giovane De Dominicis,
che il duca Sigismondo Castromediano premise alla raccolta Scrasce
e gesurmìni.
Questo libretto consacrò la fama di De Dominicis tra gli amici
e i compaesani e lo rese centro di attrazione dei trattenimenti pubblici,
nei ricevimenti privati in salotti aristocratici e in ricche case
borghesi, senza che questo imponesse remore al suo graffiante spirito
o attenuasse la carica dei motivi sociali e modificasse il suo disinvolto
comportamento, il suo non impeccabile modo di vestire, o lo allontanasse
dalle abitazioni dei contadini e dalle taverne.
Così lo ritrae il Canevazzi: "Magro, bislungo quantunque
non alto, ha testa piccola, folta di capelli nerissimi, viso minuto,
occhi scuri scuri, inquieti, dai quali si sprigionano sguardi espressivi
d'inquietudine, di bontà e di malizia, voce grossa, gutturale,
memoria prodigiosa. Veste di panni modestissimi ma ficcati su alla
carlona, sicchè par che debba lasciar sempre per istrada i
calzoni. Trasandato, disordinato, usa un cappello informe, scarpe
polverose d'estate, infangate d'inverno, e immancabilmente un bastone
o piuttosto un randello di manifattura privata, tutta personale, col
quale camminando a passi lesti, fa certo bilanc'arm, da temere terribilmente
per chi per via gli va innanzi e, più, per chi gli va dietro.
E un ottimo cuore, non è maligno, è prudente, ha una
certa bonaria che lo mette presto nelle altrui simpatie, possa facilmente
dal più schietto bonumore alla più profonda malinconia.
Ha danari, se ne compiace, ma non li sa tenere; non ha un soldo, il
che gli accade spesso, non si mortifica, non si dà carico,
e rassegnato, paziente, prende la vita come gli viene e il mondo come
lo trova. Fenomenalmente distratto e smemorato commette delle corbellerie
di nuovo conio e non è stato raro il caso d'averlo visto gironzare
senza colletto e senza cravatta e senza cappello ... ". (23)
L'immagine viva del poeta viene da un suo compagno di scuola fino
a che l'adolescente De Dominicis, "dato un calcio ai libri di
computisteria e di matematica, aveva dato l'addio agli studi così
detti tecnici" e si era rintanato a Cavallino, per fare vita
di vagabondo, leggere libri graditi senza nessun ordine e programma,
fare il pittore e il "puparo" dilettante, ma soprattutto
comporre e declamare, quale che fosse l'occasione, le sue poesie dialettali.
Dal ritratto a tinte forti esce fuori il personaggio, labilmente estraibile
dalle sue poesie che parlano di se stesso raramente. C'è un
autoritratto di Capitano Bracca, ma è radiografia di sentimenti:
Se edissiu
quantu è tienneru lu core,
bu lu putiu mangiare cu lu pane!
me tremulano l'osse pe tterrore
puru se cciu na musca. (24)
profilo di un
uomo non di guerra, incapace di minima violenza, quasi un pusillanime
che ha paura del sangue, tanto da ridere di se stesso:
... lu pane
a ntaula nu lu tagghiu
ca timu li curtieddi. (25)
Quanto all'aspetto
fisico, un accenno al "mustazzu" che "de deice pili
è tuttu" e
Pe lu riestu
suntu comu tutti:
portu lu nasu, l'ecchi e li capiddi;
'nzomma nu suntu de li tantu brutti,
e mancu de li megghiu. (26)
Nella suo produzione
l'autobiografismo è quasi bandito, sono le occasionali circostanze
a suggerire la materia di riferimento: un "addio" al paese
natale è nella lirica che ironizza sulla fine del mondo prevista
dall'astronomo tedesco Falb, per il 13 novembre 1899:
Addiu, Cadhinu
miu, ddunca su' natu,
ddunca a chiamare mamma me mparai!
cui segue il ricordo
di Lecce:
Addiu, o Lecce,
a ddunca aggiu studiatu,
ddunca li megghiu amici nci me truai.
(27)
Dobbiamo dunque
alla pagina di Canevazzi se possiamo delineare, con l'immaginazione,
la figura fisica di questo poeta che sta in bilico tra un picaro e
un bohémien, come conferma il brano di Castromediano, che descrive
la stanza dove il Capitano Black viveva: "Il letto stravolto,
la cassa aperta a chi piace mettervi la mano, tre sedie, una sciancato,
la seconda sfondato, la terza manca di mezza spalliera, la più
accettabile è la quarta presso lo scrittoio, pur esso impiantato
a sghimbescio. E v'è un cappotto arrotolato in un angolo, abiti
e berretti alla rinfusa, un oriolo da sacca pendente da fianco al
letto meditando i lunghi anni di suo riposo. E poi libri spaginati,
carte sgualcite, righette, lime, coltelluzzi, bulini, succhielli,
stecche di basso, scalpellini ecc.. Non vi mancano colori a polvere
o stemprati, nè pennelli d'ogni grossezza, e matite e boccette
d'olio di lino ed altre vernici. Di qua bozze di caricature, di là
pietre da litografare, e teste e figure modellate in creta, e pezzi
di legni forti con iniziate incisioni, articoli di giornali incominciati
e ben presto dimenticati, un diavoleto insomma da spaventare, poichè
l'autore di tanto disordine se ne impipa e senza badare a chi lo avvicina
prosegue a disegnare, a dipingere, a intagliare, a litografare e a
schiccherare cronache saporite che i giornali si litigano".(28)
La descrizione del Castromediano mette in risalto il temperamento
e fa corrispondere il manifestarsi pubblico del poeta con il disordine
creativo, indice di un'indole ricca di stimoli, attenta a cogliere
ogni suggerimento interiore ed esterno, senza organizzazione selettiva;
istintivamente rivolta a ridurre i casi più comuni dell'esistenza,
propria e della comunità di cui faceva parte, nel risvolto
del bonario sarcasmo tipico di tutti i grandi umoristi: una consapevole
mescolanza del tragico e del farsesco quotidiano che sempre si accompagnano.
De Dominicis sa mediare tra i due opposti, senza cadere nelle trappole
del pessimismo e del bozzettismo, mantenendo un timbro coerente e
costante in tutta la sua produzione e mutando, a seconda dei temi,
i toni della sua poesia, che vanno dal patetico di Amore e morte (I,
p. 140) al comico di Lu surdatu (II, p. 115), dallo sferzante di Don
Gaitanu (II, p. 309) al sociale di La creazzione de l'omu, (II, p.
65), dal descrittivo di Lu presepiu (II, p. 189) all'ironico di Nu
cunsigliu cumunale (I, p. 106) all'epico di Li martiri d'Otrantu (II,
p. 13).
Una mediocritas oraziana, di cui forse Black non aveva coscienza per
limitatezza di studi classici, ma che gli veniva da un sufficiente
corredo di letture che lo fanno al tempo stesso poeta popolare e colto.
Egli scriveva per destinatari predeterminati: i suoi amici, i suoi
conoscenti, i suoi paesani. Traendo gli argomenti dalla vita di ogni
giorno, i personaggi dall'ambiente familiare e provinciale, non rinunciava,
servendosi del dialetto leccese e di Cavallino mescolati liberamente,
al suo mondo interiore arricchito da poeti che egli amava e traduceva
in vernacolo: Dante, Petöfi, Baudelaire, V. Hugo, Heine, con
l'interrogativo, per noi irrisolto e irrisolvibile, se dall'originale
o da traduzioni in italiano.
Era la moda del tempo, seguita dai dialettali e dai poeti in lingua
sui coetanei e contemporanei: i modelli erano Carducci, e il suo amico
Stecchetti, in misura minore Aleardi e Prati, traduttori anch'essi
degli identici poeti, che si ritrovano in Vincenzo Ampolo di Surbo
e in A. Trifone Nutricati Briganti di Copertino, conosciuti e letti
da De Dominicis che prediligeva il D'Amelio, del quale non disdegnava
di innestare interi versi, che appaiono evidenziati in corsivo, nella
sua poesia Li sunetti:
- Beh, lu sunettu
poi te l'ha mparatu?
Jeu sacciu: "Cristu, miu, suntu lu Nniccu".
- "E ttie mò, cce cumandi,
cu dici quidhu de l'annu passatu?".
Cce diaulu
dici? cce pensieri puerti?
Fazzu biti stasira
ca sacciu: "cu lli sensi sciacchi e muerti... " -
"Se nu
llu mpari, pittule nu nd'ai" -
- "E nah, ca te nde dicu cchiui de mienzu?
"Desira, cu li sensi
tutti fràceti e muerti me curcai ... "
Dice lu striu:
"La notte de Natale
nascìu nocciu Signore
e foi na fetta ... fetta principale... ". (29)
Forse fu proprio
la lettura delle poesie di D'Amelio, negli anni in cui De Dominicis,
prima di dare un calcio alla scuola e ai libri, cominciò ad
esercitare la poesia in lingua (che si ritrova nell'edizione del '26
nel gruppo delle Poesie inedite), a farlo decidere a scegliere il
dialetto.
Montale spiega la scelta dialettale nei poeti così: "In
due modi, quando si è uomini di qualche cultura, si può
essere dialettali: o traducendo dalla lingua [ ... ] o ricorrendo
al dialetto come ad una lingua vera e propria, quando la lingua sia
considerata insufficiente o impropria ad una ispirazione" (30);
e più avanti rafforza questa sua intuizione esemplificando:
"Porta e Belli scrivono nell'unica lingua che essi avevano a
loro disposizione; se la Ninetta del Verzee fosse stata scritta in
un italiano che noi possiamo immaginare press'a poco uguale a quello
del Grossi, il capolavoro del Porta non sarebbe nato; e il Belli ci
fa dimenticare che il romanesco non è forse un dialetto ma
una diversa patina dell'italiano". (31)
Ebbene, si può dire la stessa cosa di Capitano Black, senza
alcuna reticenza per un paragone che potrebbe parere ... impertinente;
egli avvertiva in se stesso quel che Vittorio Pagano avrebbe detto
tanti anni dopo: "Certe parole dialettali, certi costrutti, certi
atavici modi di dire, sono capsule poetiche che scoppiano illuminando
ad ogni tocco di lingua, ad ogni arpeggio di labbra, ponendo per sempre
i fonemi, i sintagmi e gli stilemi di un linguaggio che costringe
a poetare, cioè ad immaginare nella specie del pianto o del
riso, ad ogni costo". (32)
Per De Dominicis fu una scelta ideologica, ma non perchè la
sua fosse una lingua di contestazione a quella dominante, come aveva
teorizzato Giuseppe Ferrari (33)che egli forse neppure conosceva,
ma per l'ambizione minima di avere un diretto e immediato destinatario,
i suoi contemporanei. A differenza di Porta e di Belli, De Dominicis
non ha lasciato nessuno scritto teorico o polemico sulle ragioni delle
sue scelte linguistiche, ma ha delineato una sua poetica nelle quartine
di Dichiarazioni:
Disse Leupardi,
ca la püesia
è comu carusedda ca àe parata:
bu nticepu ca la carusa mia
porta rrobbe de casa e bae strazzata.
Ae estuta de
rrobbe de cuttone,
ci mamma a lu talaru n'ha tessute:
me le dese de quandu era uagnone
e moi de int'anni ni l'aggiu cusute.
............................
Abetu nu fa
monecu - ete nticu
lu pruerbiu; e cacciu la carusa mia,
a bui, amici miei, la benedicu,
cu nci stati nu picca a cumpagnia.
Uliti bu la
nticepu comu ete?
- Llecra de care comu simu nui,
dice de bene dunca nc'ete,
e ci mmereta male, male e cchiui.
Me siti amici:
e sulu cu pensati
ca è carusa e ca ete rrobba mia,
crisciu ca tantu nu la mmattrattati,
cu la pigghiati a cauci a su la ìa.
(34)
Nei confronti
del poeta romano e del poeta milanese c'è da tener presente
la diversità storica e culturale dell'ambiente, del contesto
sociale ed economico; mentre c'è analogia di temi (i ceti popolari
e quelli borghesi e aristocratici nei quali essi si immergono) e di
livello (né l'uno né gli altri, poeti "di getto",
ma basati su premesse culturali, con agganci, modelli e tradizioni
letterarie differenziate in valenza, ma comuni, come Dante e Byron).
Pensiamo a un Pietru Lau in italiano ed avremo il fallimento della
poesia di De Dominicis; né potremmo immaginare un Pietru Lau
sradicato dalla civiltà contadina, dalla miseria popolana,
dal paesaggio piatto e assetato del Salento. Il capolavoro costituito
dai cinquanta componimenti del poemetto Li martiri de Otrantu, fa
comprendere la reale densità epico-lirica di una poesia che
in dialetto ha raggiunto livelli da cui restano di molte lunghezze
distaccati i numerosi lavori in lingua, poesia o prosa che usino,
sull'argomento, come si può rilevare dal recentissimo saggio
di A. Vallone (L'eccidio otrantino [1480] tra canoni retorici e invenzione
narrativa dal XVII secolo ad oggi) (35), che raccoglie tutta la bibliografia
letteraria sul tema otrantino. Solo un romanzo, e non paia strano
l'accostamento, gli si avvicina per la lucida penetrazione dell'animus
popolare e per l'efficacia della tragica rappresentazione della sciagura
di un'intera popolazione omologata socialmente dalla fede e dalla
rovinosa caduta: L'ora di tutti di Maria Corti (36).
Basterebbero i già citati canti della vita, della morte, il
giudizio universale, per consentire a Giuseppe De Dominicis di superare
legittimamente i confini dei dialettofoni, per porsi a fianco dei
grandi nomi della poesia dialettale. Non mi paiono pertinenti le riserve
che Francesco Gabrieli avanza nei confronti del "macchiettismo"
di Capitano Black (37); del resto egli stesso azzarda, non avendo
però la volontà di portarlo a fondo, il paragone tra
Li martiri de Otrantu e Villa Glori di Pascarella; se l'avesse condotto,
senza nulla togliere al poeta romanesco, il nostro salentino ne sarebbe
uscito, come a mio modesto parere ne esce, largamente superiore. Questo
riconoscimento, se i morti percepiscono, avrebbe ripagato il De Dominicis
del torto che gli fu fatto, quando Pascarella venne a Lecce a leggere
la sua Scoperta dell'America, nel 1903, di non potere incontrare e
dialogare col più famoso collega.
E' analoga a questa, la posizione che molti anni prima Armando Perotti
aveva espresso quando avanzava riserve sulla "improba e inutile
fatica di scrivere in dialetto salentino una specie di Divina Commedia"
(38) a cui rispose Oberdan leone diffondendosi però su questioni
di grafia più che chiarire la questione della "traduzione"
(39).
Dante, oltre ad essere un modello, come s'è detto, comune a
tanti grandi poeti dialettali, costituisce per Black un mezzo aulico
per dare sfogo alla propria ideologia che, si badi bene, si forma
nel periodo post-unitario, all'ombra del mito risorgimentale di Castromediano,
con una coscienza politica nuova, mancata a F.A. D'Amelio morto nel
1861, in età molto avanzata, 86 anni, che non aveva raccolto
i fremiti liberali del '48 (si veda a tal proposito il bell'articolo
di P. Palumbo in Lecce vecchia (40)). Questa coscienza non impedisce
tuttavia al De Dominicis di constatare come le antinomie sociali non
siano scomparse dopo la caduta dei Borboni e l'acquisita unità
politica.
I suoi Canti di l'autra vita, in quartine di endecasillabi, 15 in
tutto, cinque per ogni "regno" d'oltretomba, più
il canto di epilogo Tiempu doppu, svolgono, allegoricamente, la storia
dell'umiliazione contadina. Il protagonista di questo viaggio ultramondano
non è il poeta, ma Pietru Lau, un cafone, splendido esempio
di scarpe grosse e cervello fino, un piccolo Masaniello che, da morto,
riesce a portar guerra, ecco la grandiosa fantasia di De Dominicis,
al Padreterno. Così si apre il poemetto:
Quandu foi
ca murìu lu Pietru Lau
era matina prestu de sciuedia
e fenca a ttantu nu sse utau sputau
rriau dha lu diaulu quasi a menzadia.
Doppu ca lu
purtune ibbe tuzzatu,
lu purtaràru te lu nfiernu essìu
nni disse: "Lu capu stae ssettatu
a ntàuIa e tocca spietti, figghiu miu".
Idhu purtaa
nna stozza te muzzune,
se enchìu la pippa e sse la mpezzecau;
subbra a nnu piezzu, a nfacce allu purtune,
straccu te lu caminu se ssettau.
Na ndore de
purpette se sentìa
ca veramente a nterra te menaa! ...
Idhu, pueriedhu miu, ca certu aìa
do giurni ca lu pane nu ssaggiaa,
ncignau: Ohimmè!
lu primu male è quistu,
tte scazzeca la ndore e cu nu pruèi!
Ulìa cu ssacciu cce nni fici a Cristu
quali su' state le peccate mei!"
(41)
Dannato all'inferno
per avere rubato uno stoppello di grano, per sfamarsi, si ribella
e suscita una rivoluzione tra i morti: per loro la libertà
diviene una molla incontenibile, che il poeta dialettale sa esaltare
senza retorica:
E dha notte
scappara. Comu? Comu?
Bedhi, la libertà nde face tante!
Nnu piccinnu cussine ddenta nn'omu,
ogne creaturu tantu nu gigante;
Nu nc'è
pparìti, nienti! na muragghia
se zumpa megghiu de nnu rapetale;
nn'omu stuccatu a ntuttu cu nu mbagghia,
ene la libertà e nni minte l'ale;
nu scemu ddenta
n'omu giudeziusu,
ogni pporta de fierru è de cartune,
la catina é nnu filu, nnu pertusu
se fece rande comu nnu purtune.
(42)
Una rivoluzione,
dicevo, per eliminare... la giustizia (uguale per tutti si dice, come
la pioggia, ma, aggiungeva maliziosamente Disraeli, c'è chi
ha l'ombrello e chi non l'ha) e sostituirla con l'amore. la teoria
sulla giustizia... ingiusta ha tocchi di "finezza" contadina:
Lu Pietru Lau
nu appena Ilucesciutu
li cumpagni allu Limbu te lassau
e pete cata pete, rresulutu,
mmeru allu Purgatoriu se nfelau.
Camenandu pensaa:
"Lu Patreternu
nc'è ccerte cose ca l'ha fatte torte!
Idhu criau lu peccatu e criau lu nfiernu,
fice dèbule l'omu e Ilu ose forte.
L'estru nu
giurnu a ncapu ni salìa
e ll'omu cu Ila fimmena te criaa.
Ci ni lu disse? Cedhi! Li ba cria
senza cu nc'essa no necessità.
Face l'omu
de tuttu rre assulutu
e nni pruibisce n'arveru, nu fruttu...
quid'autru ricchia, mienzu cannarutu
se lu ba mmangia... Beh, se rreota tuttu!
L'omu cu mangia
tocca zzappa nterra,
la fimmena cu dogghie ha parturire,
le porte de lu celu le ba nzerra,
de lu paraisu nde li face essire,
subra all'umanità
ni menesciau
tutti li uai, meserie, malatie,
fintantu Cristu de omu se cangiau
e disse: -Tata, scùntala cu mmie!
E sse la scunta
a mmodu ca murire
ncruciatu cu do latri lu facìa;
muertu de sangu ni ba fface essire
l'urtima stizza ca nni rrumanìa...
E ppe nna fica?
An fine te la fine
nna terata te ricche e ssissignore;
ma cu se mbestialisca peccussine
quista nu bè giustizia, è mmalecòre!
Non più
limbo, inferno, purgatorio, ma paradiso per tutti; non più
dannati e premiati, ma tutti fratelli. E' una predicazione che seduce
tutti e Pietru Lau, il misero che riscatta l'umanità dolente,
il popolano che parla contro la potenza meno sanguinaria, ma la più
invincibile, quella del Padreterno, convince e vince.
"Benissimu!
retara. Evviva! Brau!
quistu ntru Ila cucuzza porta sale!
Alli voti mo moi! Sam Pietru Lau
s'ha ffare te sta uerra generale!"
"Cce generale
e generale, santi!
- idhu ni respundiu - cquai tra de nui
simu surdati rasi, tutti quanti;
cinca pote te cchiui, fazza te cchiui!"
(44)
E c'è perfino
lo scontro con gli angeli, difensori di Dio, guidati da San Michele.
Ma:
Quandu unu
Sam Micheli a pigghia a mmira
mentre ca l'angeliedhi ncuraggiâ;
zzicca nna petra tanta, nni la tira,
mmira nni tira, lu curpisce e ppah!
ba ccate comu
fica mpassulata!
Quandu se ìddera senza generale,
l'Angeli te sunara rreterata
mmeru allu paraìsu utandu l'ale.
Quantu mbrazza
la ista cumparìa
semmenatu te muerti tuttu quantu,
e pe ll'aria mbrunuta se sentìa
e pianti ed inni e de le Parche il canto!
(45)
Il secondo grande
personaggio, analogo per contrasto, è un pescatore, Primaldo,
il quale, nell'altro vasto disegno storico-poetico (influenza di D'Amelio,
ma diversa coscienza politica, diverso scenario: non la storia romana,
ma quella salentina), la caduta di Otranto aggredita dai Turchi, guida
all'estremo sacrificio i suoi concittadini: diventano tutti giganti,
essi piccoli, poveri ignoranti, nell'"ora di tutti", quella
della morte, per testimoniare la fede.
Attraverso Pietru Lau, Capitan Black opera il riscatto, almeno fantastico,
attraverso il "comico" mai degradato a farsesco, dall'ingiustizia
della società, da una vita di soprusi patiti e di coatta subordinazione.
Pietru è il vendicatore di quanti hanno sofferto per colpa
altrui, che hanno rubato per sfamare se stessi e i propri figli. Primaldo
rappresenta la coscienza integra del fedele che con l'esempio trascina
all'olocausto i suoi otrantini. Il "riso" dialettale, ne
Li martiri d'Otrantu, si muta in tragico di rara efficacia descrittiva,
da resoconto di contemporaneo inviato di guerra:
E ccadìanu
le palle e scrafazzânu
lamie spundandu li muri cchiù ffuerti;
ccenca a nnanti se ttruaa strucunisciânu,
ddu nna palla cadìa, cadìanu muerti.
Murìanu:
intre lle case e pe lle strate
autru cca mmorte e spamientu nu se ite;
mamme cu Ili piccinni scafazzate,
ecchi, precati a sutta a nnu parite.
Sècuta
lu cannune e rembumbare
e ll'aria nde rrepete lu rrumore
e de intru Utrantu se nde sente ausare
schidhi e prechere de ci spera e more!
E lla luce
se perde chianu chianu'
pe llu fumu ca rria subbra le nule,
mentre ca a basciu, sutta Giurdignanu,
intru llu fuecu sou scinde lu sule!
(46)
l'indagine psicologica
del vincitore Achmet, vinto dal martire Primaldo, ha nella lirica
XLIII toni di narrazione orale che solo il dialetto non rende falsi:
De Agumattu
la raggia arde cchiù forte
eténduli cussì fiermi restare.
O fede cchiù putente de la morte,
quale forsa te face tremulare?
E sse storce,
se mozzeca, se danna,
se ttinchia, se precipeta, se mpica.
Cu ll'ecchi spungulati la cundanna
dae de la morte. Nngiallenisce, strica
li dienti,
mente astima, stompa a nterra,
stròzzula. Berlabei giusta la chianca.
Comu Primardu pe lla capu nferra,
a ncelu cumparìu na luce bianca
e nna nula
cu mille sarafini
ca la grolia de Diu tutti cantânu
e de subra llu celu gesurmini,
rose, parme, curune semmenanu ! (47)
De Dominicis ha,
nonostante sia impregnato di tardo romanticismo meridionale, la coscienza
della realtà, il senso delle vicende umane, perciò conclude
la grande allegoria rivoluzionaria di Pietru Lau e del paradiso per
tutti, con l'amara, ma non disperata, conclusione del canto autonomo
Tiempu doppu, nel quale sembra anticipare il cinico concetto del principe
Salina che domina l'atmosfera subdola e incantata de Il Gattopardo
di Tomasi di Lampedusa: le rivoluzioni si fanno perchè tutto
resti come prima.
Iti quandu era
a mmanu allu Signore,
buenu buenu e daveru nu sse stia;
ma nu nc'eranu poi tante palore,
na cosa comu moi nu ssuccedìa!
Ci lassa la strada ecchia pe lla noa,
sape cce Ilassa e nnu sape cce troa".
E ccussì
susperandu se nde sciu.
Lu Padreternu mentre lu uardaa,
me fice l'ecchiu rizzu - "Bedhu miu,
me disse doppu, a cquai li sta spettaa.
Cce cosa mai de buenu po' benire
de 'ntru nna casa ddu nu nc'è lu sire? (48)
...........
Se lu sire nu nc'è ttegna la ugghina
ca nde pigghia li fili spalestrati,
la casa de palore sempre ècchina,
nu stanu nnu mumentu rreggettati.
Nci ole unu cu ccumanda, a cquai è Ilu piernu;
tocca begna de neu lu Padreternu!"
ldhu intantu
stia dhai. leu, comu ntisi
ste cose, cu ccert'autri me ncucchiai.
Cu lla purtamu a ncurtu: nci me misi
e lla matina stessa cumbinai.
Cce festa! Cu lle bande lu pigghiammu,
subbra allu tronu a mbrazze lu ssettammu.
Non si può
certo dire, stando alle conclusioni della rivoluzione mancata della
Uerra a mparaìsu, che De Dominicis impartisse una lezione di
progressismo riferendo l'allegoria della rivoluzione mancata alle
beghe della politica a lui contemporanea.
Gli esiti di un quietismo conservatore avrebbero portato, qualche
decennio dopo le vicende di Pietru Lau, un "sire" che usò
la "ugghina", cioè il nerbo di bue o il manganello,
contro "li fili spalestrati" e che comandò da solo.
Ma in Capitano Black non va ricercato ciò che non c'è;
nè si può interpretare il suo messaggio con il carico
delle esigenze storiche che abbiamo oggi.
Egli seppe innestare nella sua poesia, rivestendola del sorriso, spesso
amaro, dell'umorismo e della satira, la protesta contro le ingiustizie
del mondo. Questa protesta, egli non la indirizzò contro il
"potere" degli uomini, ma la depositò, senza essere
blasfemo, nel grembo del Padreterno che fece il peccato, che "tentò"
l'uomo, che creò le differenze di classe, quasi obbedendo a
un capriccio.
Avendo creato il mondo in cinque giorni, ecco cosa ti combina secondo
il poeta:
"E' bellu
- disse - M'aggiu mmurtalatu!
ma lu penzieri miu nu ss'ha spicciatu".
Se ieu n' 'ia
statu a ncoste, largu sia!
bu parlu chiaru, nde l' 'ia scusigliatu.
N' 'ia dittu: Padreternu, ssignuria
nu ttantu mutu ca t'ha mmurtalatu:
lu mundu ca t'ha fattu a nnu mumentu,
crìsciu ca basta pe divertimentu.
L'uèmmeni
percè diaulu me l'ha ccriare?
percene? ccu tte déscianu piaceri?
Ma nu giurnu pentitu te nd'ha' ttruare,
quandu a ncapu te a binne stu pensieri! -
Ma insomma a cqua sta Terra nci ni truamu
pe ccausa soa e ttocca nci restamu.
Sciutu a ccampagna
e doppu mmuntunata
la terra, le capase se pigghiau;
doppu nc' 'ia fatta na bella sutata,
acqua de nnu pelune nci menau.
Presciatu ca n' 'ia enutu stu penzieri
cu Ila zzappa ncignau ffazza murtieri.
Se nfurdecau
le razze e de dha Iuta,
tantu nu pupu ccummenzau a mpastare;
na figura simpatica, panzuta,
àuta, bedha de facce, reculare...
Doppu l'ibbe spicciatu, lu fiatau:
"Tie si' Roscildi" disse, e lu lassau.
Zzicca Iuta
de neu, pigghia e nde fice
n'autru pupazzu, bellu, mposematu.
Lu spiccia, lu ncarizza e poi ni dice:
"Tie si' Ttorlonia". E tuttu ffacendatu
nde mpasta n'àutru e disse: "E' Ttamburrini".
N'àutru nde spiccia a llu chiamau Martini.
Ma facendu
pupazzi 'ia ncadhisciatu,
pe lla fatia superchia scia ssaccandu.
Fercuràtibu quantu nc' 'ia straccatu! ...
E ppoi a desciunu, cce tte criti! ... Quandu,
zzeccau la Iuta, all'aria la menaa
e "Alho! Facimu uèmmeni!" retaa.
(50)
Va notato tuttavia
che la satira contro i ricchi e l'aristocrazia non è nata da
odio di classe o dall'indignazione come in Giovenale, non è
carica di risentimento come nell'Aretino; è invece un misto
tra il graffio popolaresco di Pasquino e l'ironia ridanciana e gabellante
del Giusti di Sant'Ambrogio e del Brindisi di Girella. Tornando al
"macchiettismo", va detto che in ogni poeta, anche nei più
grandi, una parte, quella minore, della produzione, non può
essere messa sullo stesso piano di quella che lo ha reso grande; anche
Giove, dicevano gli antichi, di quando in quando dorme. Così,
se si lascia trasportare dall'animo nativo del barocco, Black finisce
col gareggiare col Marino; si veda in L'amore de na vergine.
Facci de piru!
mendula fiurita!
rasta de rosa mia! milu ngranatu!
ndore de génziu! fraùla sapurita!
pruma d'argentu! uèrtu sigillatu!
Culonna d'oru!
dàttulu fiurutu!
spiga de ranu! chianta prematia!
Lu core te asi toi stae ssaccarutu,
gigliu ddacquatu miu! parma de ulìa!
Dàmmilu
nu asu! n'àutru! n'àutru moi...!
de ntru lu piettu miu tirande l'arma...
strùscime tuttu ntru le razze toi,
torce ddumata mia! chianta de parma!
E idhu se la
asaa! Ncelu le nule
picca picca se ìddera rruccare:
tuttu de paru fore essiu lu Sule,
de luce li cuprìu e ncignau a ccantare: (51)
E' vero che nelle
"macchiette" la poesia di De Dominicis cade, ma è
vero anche che da esse traspare la capacità del poeta di essere,
quando vuole, al livello basso della cultura contadina, di penetrare
nel mondo minuscolo dell'umanità incolta ma autentica dei popolani,
di conoscere le debolezze di una psicologia semplice e di saperle
denunziare, sorridendo, con fine segreto di correggerle come diceva
Orazio, che cos'è che vieta di dire il vero con il sorriso?
De Dominicis, quando ai suoi tempi il solo viaggio che il cafone facesse
fuori dal paesello natìo era nel periodo di leva militare,
sbozza la "macchietta" de Lu surdatu.
Lu cappieddhu
alla fessiante,
lu secàru mpezzecatu,
nu nc'è cedhi cu llu para
ca ss'ha ccuetu de surdatu.
E nde mpalla
fessarei!
e ha mancatu trenta misi!
Quantu ulìa cu llu sentiti
bu crepati te li risi!
leu bu cuntu
sulamente,
tra le tante belle cose,
ccenca a sirsa ni sciu ffice
quidha sira ci se ccose.
Sirsa appena
rriatu a ccasa,
cu llu mbrazza se menau,
e idhu testu, rebambitu:
"Tu chi siete?" demmandau.
"Comu,
ohimmè! nu mme canusci
quantu bene t'haggiu fattu?!
Suntu sirda!" - "Mica no,
mi non ti canosco affattu!"
(52)
Il mondo piccolo,
familiare, dell'osteria tra giocatori di tressette, dei litigi tra
marito e moglie, delle chiacchere sulla porto di casa, della vita
nella masseria, dell'amore campagnolo, ormai cambiato, è nella
lirica paesana e popolare di De Dominicis, pur se non tocca i livelli
dell'arte. In essa resta traccia di quelle abitudini che per gli studiosi
di etnologia sono dati non più rilevabili sul campo, come oggi
si dice. Ma al suo tempo colpi profondamente gli strati meno acculturati
del popolo leccese che in quelle poesie, "sunetti", come
volgarmente si definivano, ritrovò se stesso. Vi si riconobbe
e, per la nativa dote di saper ridere di se stesso, le fece proprie
e ne diffuse la circolazione orale, come si era fatto in antico, con
le canzoni popolari, le nenie funerarie, le ninne nanne, i proverbi,
gli stornelli. De Dominicis fu quindi suscitatore di interesse culturale
per chi non aveva coscienza della cultura come espressione nativa,
per chi si considerava "affabbetu", cioè analfabeta,
convinto, come è stato fino a qualche decennio fa, che la cultura
fosse solo quella dei libri, quella dei "signori".
Questa convinzione, propria dei ceti borghesi, aristocratici e degli
intellettuali libreschi, che cioè la poesia dialettale fosse
un modo di espressione "bassa", non degna di studio, di
analisi, di seria considerazione, ma solo un aspetto dilettevole della
popolarità locale, fece sì che il buon De Dominicis
e gli altri suoi colleghi poeti, come il Bozzi, il Leone, non ricevessero
investiture di riconoscimenti ufficiali.
C'era chi aveva intuito il valore artistico di questi documenti, ma
non era ascoltato; ne è prova quanto scriveva Gino Scarfoglio
nel 1911: "Giuseppe De Dominicis, il genio della nostra poesia,
è stato dimenticato e invano con vari articoli io, con una
lettera al 'Tribuno Salentino' la colta professoressa Giulia Palumbo,
si è cercato di promuovere onoranze degne del poeta: la città
è rimasta sorda all'appello e ha tributato onori a... Paolo
Burget!" (53).
Lo sviluppo della dialettologia sollecita oggi una revisione di tutta
la storia dei poeti, magari cogliendo l'occasione di celebrazioni
e commemorazioni, in modo che esse non siano un pretesto per riparare
passate disattenzioni con un'accortezza formale. Si deve ormai passare
al vaglio critico, con rigore scientifico, l'opera di De Dominicis
che pure, nel corso degli ultimi quarant'anni, ha avuto una fortuna
editoriale che non è toccata a D'Amelio, Bozzi, Nutricati Briganti,
Leone, Marangi, Pagliarulo.
Alla stampa delle Poesie curate da Antonio Chirizzi, del 1955, sono
seguite due edizioni approntate da Ernesto Alvino, una nel 1956 a
Matino e l'altra nel 1962 a Lecce (Ed. Orsa Maggiore) e, nel 1976,
l'editore Congedo di Galatina ha ristampato l'edizione curata nel
1926 da Francesco d'Elia, contenente anche la Prefazione all'edizione
del 1892 di Scrasce e gesurmìni di Sigismondo Castromediano,
facendola precedere dalla nota Aspetti della dialettalità di
Giuseppe De Dominicis di Mario D'Elia, il quale riporta nel solco
degli studi scientifici della dialettologia un poeta sul quale la
ricerca potrà aggiungere ad una rinnovata piacevolezza di lettura,
l'indagine rigorosa sulla lingua nativa dei salentini, come acutamente
ha osservato Nicola G. De Danno, "non, com'è ovvio, sull'ala
di un affidarsi al mito illusorio e antistorico del selvaggio, ma
con una speranza e un progetto di recupero 'storico' di valori comuni".
(54).
Va notato tuttavia che non si dispone di nessuna ristampa o riedizione
di una commedia, di cui Francesco D'Elia parla nella introduzione
all'edizione del 1926, La scola te lu sire, tre atti in versi martelliani,
messa in programma, perchè fosse rappresentata, dal Circolo
Mandolinistico, ma mai andata in scena. Un campo d'indagine abbastanza
vasto che oltre ad avere, sia pur marginalmente, interessato studiosi
e critici (F. Lala, M. Prato, O. Parlangeli, M. D'Elia, D. Valli),
comincia ad attirare l'attenzione dei giovani ricercatori, come Rino
Buia che sollecita un'edizione critica delle poesie di G. De Dominicis,
con un articolo che rileva le già conosciute imprecisioni ed
omissioni nel saggio e nei testi dell'edizione del 1926, pubblicando
anche degli inediti (55), e di studenti universitari, come Nadia Fortunato,
laureatasi al Magistero di Lecce, nell'anno accademico 1980-81 con
una tesi sul poeta cavallinese.
Un segnale interessante questo, perchè se Walter Della Monica
preconizza, in base ad un'inchiesta in tutta Italia, la fine dei dialetti
"indipendentemente dai revivals dialettali che si promuovono
per un verso o per l'altro, presumendo [ ... ] di fare un'opera di
meritevole ma illusorio recupero linguistico" (56), è
vero che, sosteneva Mario Sipala, il ritorno al dialetto "è
una discesa nella vecchia miniera abbandonata in cui disseppellire
valori recuperabili, espressioni, parole, cadenze sintattiche, fonemi
avviluppati inscindibilmente alle cose e alle figure del mondo dialettale".
(57)Questa operazione di taglio antropologico, etnologico e folclorico,
elementi di cui i poeti dialettali fanno uso per contaminazione, sollecita
una ripresa coscienziale di una identità che va sempre più
sbiadendosi, sotto l'aggressione, creduta conquista autonoma, delle
mode, dei costumi, degli stereotipi linguistici altrui, nella errata
convinzione che la fratellanza universale, fatto dello spirito, si
possa attuare rinunziando al patrimonio della propria tradizione indigena.
Ritornare al dialetto, può dare la sorpresa dei sapori antichi:
"Il dialetto, che incontro di contrari - scrive Bufalino -. Più
sembra rustico e grave, più riesce a sprigionare musiche, eloquenze
e fantasie espressive che non trovano l'uguale nella parlata cortese".
(58)
Note
1) G. DE DOMINICIS, Nfiernu, C.I, vv. 13-14, I, p. 57, in Le poesie
di Capitano Black, Congedo, Galatina, 1976, voll. 2, pp. 180-324,
con nota introduttiva di Mario D'Elia; ristampa dell'edizione: Lecce,
Stab. Tipogr. Giurdignano, 1926. Si farà riferimento a questa
edizione con la sigla PCB. Trad.: "Si sentiva un odore di polpette
che veramente ti faceva cadere a terra".
2) M. DELL'ARCO - P.P. Pasolini (a cura di), Poesia dialettale del
Novecento, introd. di P.P. Posalini, Parma, Guanda, 1952.
3) Cfr. n. 1.
4) A. SACQUEGNA, Discorso commemorativo, in G.D.D., Poesie (a c. di
A. Chirizzi), Matino, Soc. Anon. Tipogr., s.d. (ma 1955), pp. LXV-LXXXVIII.
5) G.D.D., Lu cantu de la vita, vv. 19-22, in PCB, II, p. 100. Traduz.:
"Che valse, dunque, Adamo, il frutto che mangiasti, la scienza
del bene, la scienza del male? Che eredità utile lasciasti
agli uomini, se il tuo frutto non vale a fermare la morte?".
6) Ibid., vv. 27-34. Traduz.: "Toglicelo, toglicelo pure, il
frutto della scienza, facci ritornare scemi, si chiuda la nostra mente!
noi possiamo farne senza di questa trista maga; ma, Signore, la gioventù,
non ce la distrugga la morte! A noi basta soltanto l'odore dei fiori
e la vista del cielo, la distesa del mare e una fanciulla bionda che
ci si stringa al cuore e che la vita sia amare, amare, amare! ".
7) G.D.D., Lu cantu de la morte, vv. 25-32, in PCB, II, p. 103. Traduz.:
"Alzò gli occhi e la vide. La vide a fondo a fondo, grande
che a guardarla la vista si perdeva! Stava a piedi aperti su tutto
il mondo; la testa si nascondeva lontano dentro il cielo! Era una
cosa immensa, paurosa, speventosa, l'arco della falce non lo conteneva
il cielo e stando sopra a questo mondo, schiacciava ogni cosa con
un colpo di dito e di piede".
8) G.D.D., Lu giudizziu universale, vv. 1-28, in PCB, II, pp. 105-106.
Traduz.: "E l'Angelo in cielo, suonando la tromba: "O morti,
resuscitate perchè l'ora è arrivata! ". Il grido
rimbombo per mare e per terra e l'aria la terra si sentono in travaglio.
E ogni acino piccolo si unisce con un altro si scambia si scolla si
aggira sparisce e l'acqua la terra le piante i fiori cambia si scolla
si aggira sparisce e l'acqua le terre le piante i fiori cambiando
di forma sostanza e colori. La rena la pietra si cambia di qua e l'aria
la pianta si cambia di là e se ne vanno rigirandosi correndo
per l'aria diventando un piede, diventando una mano. l fiori le fronde
i vermi le cozze sono parti di un occhio, pezzi di naso; e pezzi di
naso correndo per l'aria si uniscono agli occhi e si vanno componendo
a forma di faccia. La faccia va cercando di unirsi alla testa che
prima era sua. Un dito, venendo da miglia lontano, si unisce con un'unghia
e con una mano. Un pezzo di carne di una gamba di qua, si stacca e
si unisce con un braccio di là, correndo e rotolando e fisso
ad un moto, davanti di lato di lato e di dietro di sopra e di sotto
qui vicino e più lontano ruotando e girando allo stesso modo...
E l'Angelo suonando la tromba nell'aria: "O morti, resuscitate!
" - rimbomba, rimbomba! ".
9) G. CANEVAZZI, Un poeta dialettale. Giuseppe De Dominicis, in "Rassegna
Pugliese", vol. XV, n. 3, giugno 1898, pp. 65-76.
10) ID. cit., p. 66.
11) TRILUSSA, Prefazione a Francesco MORELLI, Fugghiàzze sciàline,
Lecce, Ed. "Prospettive Regionali", s.d., 3.
12) G. CANEVAZZI, cit. p. 66.
13) O. PARLANGELI, Raccolta di testi dialettali salentini, in Ottocento
poetico dialettale salentino (a c. di Ribelle Roberti), Galatina,
Pajano, 1954, pp. 227-251.
14) I.M. MALECORE, La poesia popolare nel Salento, Firenze, Olschki,
1967.
15) S. GIOVANARDI, Le parole antichissime, in "La Repubblica",
Roma, 24 agosto 1982.
16) M. SANSONE, Relazioni fra la letteratura italiana e le letterature
dialettali, in AA.VV., Letterature comparate, Milano, Marzorati, 1952,
p. 278.
17) O. PARLANGELI, Considerazioni sulla letteratura dialettale salentina,
in M. CONGEDO-V.E. ZACCHINO (a c. di), Almanacco salentino 1968-69,
Galatina, Ed. Nuova Apulia, 1968, 288-9.
18) F.A. D'AMELIO, Dedeca (Dedica), vv. 13-16, in Ruesci a lingua
leccese, Lecce, Stamperia dell'intendenza, 1932, p. 1.
19) F.A. D'AMELIO, op. cit.
20) G. ROHLFS, Vocabolario dei dialetti salentini, Galatina, Congedo,
1976, voll. 3, pp. 1200.
21) V. PAGANO, Celebrazione dei poeti dialettali di Terra d'Otranto,
in T. PELLEGRINO (a c. di), Le celebrazioni salentine, Lecce, Ed.
dell'Albero, 1952, p. 26.
22) A. CANEVAZZI, cit. p. 69.
23) A. CANEVAZZI, cit. p. 70.
24) G.D.D., A cinca nu me sape, vv. 29-32, in PCB, I, p. 79. Trad.:
"Se vedeste quanto è tenero il cuore, ve lo potreste mangiare
col pane! Mi tremano le ossa per il terrore, anche se ammazzo una
mosca".
25) lbid. Trad.: "a tavola non taglio il pane perchè temo
i coltelli".
26) lbid. Trad.: "Per il resto sono come tutti: porto il naso,
gli occhi, i capelli; non sono del tanto brutti e neanche del meglio".
27) G.D.D., La fine de lu mundu, vv. 19-22, II, p. 299. Trad.: "Addio,
Cavallino mio, dove sono nato, dove imparai a chiamare mamma! Addio,
o Lecce, dove ho studiato, dove trovai i migliori amici!".
28) SIGISM. CASTROMEDIANO, Prefazione, in PCB, I, pp. 12-13.
29) G.D.D., Li sunetti, vv. 1-14, II, pp. 190-1. Tradu.: "- Beh,
l'hai imparata, poi, la poesia? Io so: "Cristo mio, sono Nnicco".
"- E tu ora, che pretendi, di dire quello dell'anno passato?"
- Che diavolo dici? che pensieri hai? Stasera ti farò vedere
che conosco: "Con i sensi fiacchi e smorti ... " - "Se
non la impari, non avrai le frittelle" - "E vuoi vedere
che te ne dico più di metà?" "Ieri sera mi
coricai con le membra fradice e smorte ... " Il bambino recita:
"La notte di Natale nacque 'noccio' Signore e fu uba 'fetta'...
'fetta' principale"...
30) E. MONTALE, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976.
31) Ibid.
32) V. PAGANO, cit. p. 22.
33) G. FERRARI, Saggio sulla poesia popolare in Italia, in Opuscoli
politici e letterari, Capolago, Tip. Elvetica, 1852.
34) G.D.D., Dichiarazioni, vv. 1-8 e 17-28, in PCB, I, pp. 73 e 75.
Trad.: "Disse Leopardi, che la poesia è come una ragazza
che va agghindata: vi anticipo che la ragazza mia indossa vesti di
casa e va strappata. E' vestita di robe di cotone, che la mamma mi
ha tessuto per lei al telaio: me le dette da quando ero ragazzo e
ora, a vent'anni, le ho cucite per lei... Abito non fa monaco - è
antico proverbio; e presento la mia ragazza, a voi, amici miei, perchè
ci stiate un poco in compagnia. Volete che vi anticipi com'è?
Allegra di cuore come siamo noi, dice bene dove ce n'è, a chi
meriti male, (dice) male e di più. Mi siete amici: e solo che
pensiate che è una ragazza e che è roba mia, credo che
non la maltratterete né la prenderete a calci per la strada".
35) A. VALLONE, L'eccidio otrantino [1480] tra canoni retorici e invenzione
narrativa dal XVII secolo ad oggi, in Nuovi studi di storia letteraria
napoletana, Napoli, Ferraro, 1982, pp. 139-174.
36) M. CORTI, L'ora di tutti, Milano, Feltrinelli, 1962.
37) F. GABRIELI, Rapsodia salentina in Presso il termine di Solon,
Napoli, Bibliopolis, 1981, p. 21.
38 ) A. PEROTTI, Un poeta quasi nostro, in "Corriere della Puglia",
Bari, 17-XI-1909.
39) O. LEONE, Per un poeta nostro, in "Corriere Meridionale",
Lecce, 30-XII-1909.
40) P. PALUMBO, Una pagina di vita leccese, in Lecce vecchia, Lecce,
Centro Studi Salentini, 1975 (1a ediz., 1912), pp. 23-30.
41) G.D.D., Nfiernu, Cantu I, vv. 1-20, in PCB, I, pp. 157-58. Trad.:
"Quando Pietru Lau morì, era un giovedì di prima
mattina, ma gira e rigira, arrivò dinanzi al diavolo quasi
a mezzogiorno. Dopo aver bussato al portone, uscì il portinaio
dell'inferno e gli disse: "Il capo è seduto a tavola e
devi aspettare, figlio mio". Egli portava una spuntatura di sigaro,
riempi la pipa e se la accese; stanco del cammino, si sedette su una
pietra di fronte al portone. Si sentiva un odore di polpette da farti
cadere a terra veramente! Egli poveretto, che di certo non assaggiava
il pane da due giorni, cominciò: Ohimé! Questa è
la prima tortura, l'odore ti stuzzica ma non puoi provare! Vorrei
sapere che cosa ho fatto a Cristo, quali sono stati i peccati miei!".
42) G.D.D., Nfiernu, Cantu V, vv. 29-44, in PCB, I, pp. 181-2. Trad.:
"E quella notte scapparono. Come? Come? Belli, la libertà
ne fa tante! Uno piccolo così, diventa un uomo, ogni giovane
così un gigante; non c'è ostacolo, niente! Un muro si
salta meglio di una siepe; un uomo è malandato da non volere
niente, viene la libertà e gli mette le ali; uno scemo diventa
un uomo di giudizio, ogni porta di ferro diventa di cartone, la catena
un filo di cotone, un buco si fa grande come un portone".
43) G.D.D., Purgatoriu. Cantu I, vv. 1-32, in PCB, I, pp. 185-6. Trad.:
"Pietro Lau non appena albeggia lasciò i compagni nel
Limbo e lemme lemme, ma risoluto, si infilò nel Purgatorio.
Camminando pensava: "Il Padreterno alcune cose le ha fatte storte!
Lui creò il peccato e creò l'inferno, fece l'uomo debole
e lo volle forte. Un giorno gli venne l'estro e ti creò l'uomo
con la donna. Chi glielo disse? Nessuno! Li creò senza ce ne
fosse necessità. Fa l'uomo sovrano assoluto di tutto e gli
proibisce un albero, un frutto ... quell'altro minchione, mezzo goloso
se lo va a mangiare... Beh, tutto va a rovescio! L'uomo per mangiare
deve zappare la terra, la donna deve partorire con dolore, rinserra
le porte del cielo e li fa uscire dal paradiso, riversò sull'umanità
tutti i guai, miserie, malattie, fino a che Cristo si mutò
in uomo e disse: - Padre, scontala con me! - E se la sconta in modo
da farlo morire in croce con due ladri; morto gli fece uscire l'ultima
stilla di sangue che gli restava...E'per un fico? Alla fin fine una
tirata d'orecchie, sissignore; ma che si imbestialisse o quel modo
non è giusto, è cattiveria!".
44) G.D.D., Uerra a mparaisu (Guerra in paradiso), I, Cantu III, vv.
33-38. Trad.: "Benissimo! gridarono. Evviva! Bravo! Questo ha
sale in testa! Ai voti, subito! San Pietro Lau si deve fare generale
di questa guerra!". "Che generale e generale, santi! - egli
rispose loro - qui tra di noi siamo soldati rasi, tutti quanti; chiunque
può di più, faccia di più!".
45) G.D.D., Uerra a mparaisu, Cantu IV, vv. 89-100, in PCB, I, pp.
254-5. Trad.: "Quando uno punta la mira su San Michele mentre
dava coraggio agli angioletti; prende una pietra grossa così,
per tirargliela, mira, gli tira, lo colpisce e pahf! cade come un
fico secco! Quando si videro senza generale, gli Angeli suonarono
la ritirata volgendo le ali verso il paradiso. Quanto abbraccia la
vista, tutto appariva seminato di morti e per l'aria abbrunata si
sentiva 'e pianti e inni e delle Parche il canto'".
46) G.D.D., Li martiri d'Otrantu, XI, in PCB, II, p. 23. Trad.: "E
le palle cadevano e schiacciavano tetti sfondando i muri più
saldi; stroncavano ciò che si trovavano di fronte, dove cadeva
una palla, cadevano morti. Morivano: nelle case e nelle strade non
si vede altro che morte e terrore; mamme schiacciate con i figlioletti,
vecchi, sepolti sotto una parete. Il cannone continua a rimbombare
e l'aria ne ripete il rumore e dentro Otranto si sentono alzare gridi
e preghiere di chi muore e spera! E la luce scompare piano piano per
il fumo che arriva sulle nuvole, mentre in basso, verso Giurdignano,
nel suo fuoco il sole tramonta".
47) G.D.D., Li martiri d'Otrantu, XLIII in PCB, II, p. 55. Trad.:
"La rabbia di Achmet si accende più forte vedendoli restare
così decisi. O fede più potente della morte, quale forza
ti fa vacillare? E (Achmet) si contorce, si morde, si danna, si picchia,
si abbatte, soffoca, con gli occhi sbarrati dà la condanna
a morte. Diventa giallo, digrigna i denti, mentre bestemmia, pesta
i piedi, bofonchia. Berlabei (il boia) aggiusta il cippo. Appena afferra
per il capo Primaldo, in cielo apparve una luce bianca e una nuvola
con mille serafini che cantavano tutti la gloria di Dio e seminavano
dal cielo gelsomini, rose, palme, serti di fiori".
48) G.D.D., Tiempu doppu (Tempo dopo), vv. 289-300, in PCB, I, p.
275. Trad.: "Vedi quando ero nelle mani del Signore, bene bene
davvero non si stava, ma non c'erano poi tante chiacchiere, non succedeva
una cosa come adesso! Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa
quel che lascia e non sa che cosa trova".
E così sospirando se ne andò. Il Padreterno mentre lo
guardava, mi strizzò l'occhio: - "Bello mio, mi disse
dopo, li stavo aspettando qui. Che cosa può mai venire di buono
dentro una casa dove non c'è il padre?".
49) G.D.D., Tiempu doppu, vv. 331-342, in PCB, I, p. 227. Trad.: "Se
non c'è il padre che tenga la sferza con cui prenda i figli
sbalestrati, la casa è sempre piena di litigi, non stanno un
momento tranquilli. Ci vuole uno che comandi, qui è il punto,
deve venire di nuovo il Padreterno! ". Lui intanto stava lì.
Io, appena sentii queste cose, mi accordai con certi altri. Per farla
breve: mi misi d'impegno e la mattina stessa combinai. Che festa!
Lo prendemmo con le bande musicali e a braccia lo sedemmo sul trono".
50) G.D.D., La criazzione de l'omu, vv. 11-36, in PCB, II, pp. 65-7.
Trad.: "E' bello - disse - Mi sono immortalato! Ma il mio disegno
non è completo". Se gli fossi stato a fianco, alla larga!
Ve lo dico chiaro, lo avrei sconsigliato. Gli avrei detto: Padreterno,
signoria (vos) non ti sei comportato molto bene; il mondo che ti sei
fatto in un momento, credo che basti per divertimento. Perchè
diavolo mi devi creare gli uomini? perchè? perchè ti
diano piaceri? Ma un giorno ti troverai pentito di esserti fatto venire
in testa questo pensiero! Ma insomma, noi ci troviamo qui in questa
terra per causa sua e ci tocca restarci. Andato in campagna, dopo
aver ammonticchiato la terra, prese gli otri; vi versò acqua
da una vasca dopo essersi fatta una bella sudata. Contento perchè
gli era venuto in mente questo pensiero, cominciò con la zappa
a fare un impasto. Si rimboccò le maniche e da quel fango cominciò
a impastare un pupazzo grande: una figura simpatica, panciuta, alta,
bella di viso, normale ... Dopo che l'ebbe finito, gli soffiò
sopra: "Tu sei Rotschild" disse e lo lasciò. Prende
di nuovo fango e ne fa un altro pupazzo, bello, inamidato. Lo finisce,
lo accarezza e poi gli dice: "Tu sei Torlonia". E tutto
affaccendato ne impasta un altro e disse: "E' Tamburrini".
Ne finisce un altro e lo chiamò Martini. Ma facendo pupazzi
s'era annoiato, per l'eccessivo lavoro affannava. Figuratevi come
si era stancato! E poi a digiuno, che ti credi! ... Quando, prese
il fango, lo gettava in aria e: "Alè! Facciamo uomini!"
gridava".
51) G.D.D., L'amore de na vergine, Cantu IV, vv. 17-32, II, 151. Trad.:
"Faccia di pero! mandorla fiorita! pianta di rosa mia! mela granata!
profumo d'incenso! fragola saporita! piuma d'argento! orto sigillato!
colonna d'oro! dattero fiorito! spiga di grano! pianta primaticcia!
Il cuore è assetato di tuoi baci, giglio mio imperlato! ramoscello
d'ulivo! Dammelo un bacio! un altro! un altro ora ... ! Tirami dal
petto l'anima ... consumami tutto tra le tue braccia, torcia mia accesa!
pianta di palma! E lui se la baciava! In cielo le nuvole si videro
poco poco scostare: all'improvviso uscì fuori il Sole, li coprì
di luce e cominciò a cantare:.".
52) G.D.D., Lu surdatu (il soldato), II, pp. 215-6. Trad.: "Il
cappello alla smargiassa, il sigaro acceso, non c'è chi gli
sia pari perché è tornato dal servizio di leva. E ne
spara fesserie! Ed è mancato trenta mesi! Quanto vorrei che
lo sentiste per creparvi dalle risate! Vi racconto solamente, tra
le tante belle cose, quel che andò a fare a suo padre la sera
che arrivò. Appena arrivato a casa, suo padre si gettò
per abbracciarlo, e lui intostato, rimbambito: "Tu, chi siete?"
domandò. "Come, ohimé, non mi conosci per quanto
bene ti ho fatto? Sono tuo padre!". "Mica no, mi non ti
conosco affatto!".
53) G. SCARFOGLIO, Prime battaglie. Polemica. Lecce, Bortone e Miccoli,
1911, p. 92.
54) N.G. DE DONNO, Dieci sonetti in dialetto magliese e una nota sulla
cultura popolare, in Note e documenti di Storia e Cultura Salentina,
Maglie, Società di Storia Patria per la Puglia, 1976, p. 139.
55) R. BUJA, Per un'edizione completa e critica delle poesie di G.
De Dominicis, in "Rassegna Salentina", A. V, n. 1, gennaio
1980.
56) W. DELLA MONICA, I dialetti e l'Italia, Milano, Pan, p. 3.
57) M.P. SIPALA, Memoria lirica e condizione dialettale, in AA.VV.,
Culture regionali e letteratura nazionale, Bari, Adriatica, 1973,
p. 396.
58) G. BUFALINO, Museo d'ombre, Palermo, Sellerio, 1982, p. 65.