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TESTIMONIANZE
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Morandi e il nuovo meridionalismo |
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Pasquale
Saraceno
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Nasce nell'immediato
dopoguerra una concezione della questione meridionale, nota come Nuovo
Meridionalismo, che si può riassumere nelle seguenti proposizioni: a) nessun rilevante problema della società italiana può trovare soluzione, se resta aperta la questione meridionale; b) l'industrializzazione del Mezzogiorno è condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché la questione meridionale sia portata a soluzione; c) industrializzare il Mezzogiorno è quindi obiettivo il cui perseguimento, nell'interesse di tutto il Paese, deve condizionare la soluzione di ogni altro problema del Paese. Questa concezione è dovuta a Rodolfo Morandi e si trova espressa compiutamente in ciascuno dei due documenti che vengono esaminati nelle pagine seguenti; sono essi il paragrafo conclusivo della "Storia della grande industria in Italia", che, come è noto, è del 1931, e la presentazione del programma della Svimez che è del 1° gennaio 1947; data la relativa brevità dei due documenti, si è ritenuto di riportarli integralmente. I due testi, pur contenendo ciascuno la concezione del nuovo meridionalismo, presentano rilevanti e significative differenze che, in buona parte mi sembra trovino spiegazione in una concreta esperienza di governo fatta da Morandi a Milano, a partire dal maggio 1945, come Presidente del CLNAI. Quell'esperienza sarà quindi pure presa in considerazione nel presente esame dei due testi. "Anche dopo questa recente fase d'espansione, rimane pur sempre il Nord la sede esclusiva della nostra attività industriale. Imprese di vario genere, siderurgiche e chimiche in special modo, sono andate sorgendo anche nel resto della Penisola, ma non per questo si è menomamente modificato il carattere della economia di quelle stesse ristrette zone dove si sono generalmente raggruppate: nella Campania, nell'Umbria ed in Toscana. L'ambiente è restato inerte, assolutamente incapace di una qualunque partecipazione a queste prove. Il dualismo, che mina insidiosamente tutta la vita italiana, s'è andato così in questo trentennio ultimo aggravando sempre più, e giganteggia oggi sulla nazione. Il fatto che fino ad oggi nel Mezzogiorno non siano sorte imprese industriali che in esiguo numero e solo in ristrette zone, senza capacità alcuna di propagazione, non vorrebbe dire di per sé che questa regione si sia mantenuta assente dalla vita moderna, dalla vita europea contemporanea, se mai l'economia meridionale potesse aver rigoglio col solo sviluppo della sua agricoltura. Non di meno, come ciò non è certamente, perché relativamente povero è il rendimento agricolo di quelle terre, perché troppo popolose sono quelle provincie per poter prosperare con un'economia puramente agricola, e neanche forse tirarsi mai dalla miseria in cui versano, e come esse sono comunque rimaste alle loro arretratissime posizioni nella conduzione delle terre, così il mancato sorgere di imprese è di per sé indizio chiaro dell'assenteismo che s'è detto. Ciò che definisce veramente nella sua reale ampiezza e portata la disposizione negativa del Sud, è la mancanza colà, se così è possibile esprimersi, dell'animo industriale caratteristico dei nostri tempi. L'"industrialismo" dell'età nostra non è da veder semplicemente nella apparizione dei grandi stabilimenti odierni, che si sostituiscono alla bottega dell'artigiano e al lavorerio, ossia da considerare solo come un passaggio dalle precedenti forme della produzione al factory system, a quella meccanica della fabbrica. Con esso non è un mero mutamento di mezzi, di metodi e d'organizzazione tecnica, che interviene nella produzione industriale, ma è, nella sua piena estensione sociale, un rivolgimento che si compie, non meno che nel processo tecnico del lavoro, nelle condizioni, nei bisogni, e quindi nelle abitudini materiali di vita dell'uomo del secolo XIX. E' così tutto un nuovo ambiente sociale che si viene formando, un nuovo mezzo, dove fiorisce l'industria capitalistica. In esso il fantolo borghese respira in fasce l'aria turbinosa di questo mondo, e si ciba crescendo dello spirito che lo agita senza requie; così si forma in lui una mentalità capitalistica, la mentalità di questo mondo per quanto esso già è divenuto e per quanto ancora è divenire. Questa mentalità si manifesta, esplicandosi con una attività pratica, in opere che recano le stimmate dei tempi, in iniziative di un nuovo ardire e di nuova possanza, che si consolidano nella materia sociale e fisica circostante in nuovi ordini, in nuovi istituti, scuole e seminari di nuovi adepti, di nuovi facitori in questo spirito. Dalla fabbrica cittadina, che ne è stata la culla, l'animo industriale si propaga sovvertitore all'economia agricola delle campagne. Onde si potrebbe dire che, se mai fossero le provincie dell'Italia Meridionale naturalmente chiamate ad un'esclusiva produzione agricola, il nuovo spirito industriale non avrebbe meno potuto per questo penetrare in esse, suscitarvi un rigoglio di attività, un fiorire nella campagna di imprese nuove, che loro è mancato finora, imprimere un più celere ritmo alla loro vita, attribuirle quel tono europeo che ancora oggi è ben lungi dall'improntarla. La realtà è che i fermenti del mondo borghese non avevano lievitato che a mezzo innanzi l'unificazione nella società meridionale, senza pur essere ancor pervenuti a fendere la massiccia struttura feudale della sua economia. Compiuta l'unità sarebbe occorso dar mano ad una politica coraggiosamente novatrice nel Mezzogiorno, ma si temé, allora e fino a quando quelle possibilità perdurarono, il divampare di un incendio rigeneratore in queste provincie. Se mai s'avesse voluto sollevare il Sud dalla sua inferiorità, e insieme assicurare al Paese quell'equilibrio sociale ed economico che gli mancava, non s'avrebbe avuto che da seguire un programma di opere tracciato nelle cose. Dovevasi cioè procurare che nel suo sviluppo s'estendesse il nostro sistema industriale alle provincie del Sud, dove la produzione agricola malamente può ripagare i grandi sforzi che all'uomo richiede. Queste terre, riarse da un sole che per mesi e mesi non è velato da nubi e disseccate dai venti africani, era ben facile capacitarsi che mai avrebbero potuto dare un rendimento che eguagliasse quello delle campagne del nord. Mai avrebbero potuto così coi loro frutti alimentare la popolazione numerosa che vi nasceva, permettere al contadino che le lavorava con indicibile accanimento una vita meno inumana di stenti. Per questo, conservare nella loro economia esclusivamente agricola le regioni meridionali, voleva dire condannarle alla povertà in cui versavano. Bisognava che l'industria vi sorgesse, ad eccitarvi l'accumulazione dei beni coi quali si doveva avviare la loro rinascita, a provocare una larga diffusione di quelle ricchezze che, detenute da pochissimi individui, restavano inerti, e insieme ad infondervi quello spirito di opere che aveva recato o andava recando al livello europeo le contrade del Nord. Quello che non ha fatto, né pur tentato, fino a cinquanta, fino a quarant'anni fa, la borghesia italiana non ha certo più la possibilità di intraprendere ora. Il tempo non scorre senza maturare nuove situazioni, ed oggi veramente la classe governante non può arrischiarsi, senza correre una troppo grave alea, ad un rivolgimento civile di questo genere nel Mezzogiorno. Se la striminzita borghesia meridionale non ha potuto farsi le ossa nella seconda metà del secolo scorso, in quarant'anni di vita unitaria, si può dire con certezza che non le si offre più ora alcuna responsabilità di crescenza normale. Ritardi di questa fatta la storia già non consente mai. Può invece pensarsi, come sviluppo della presente situazione, ad un'opera di colonizzazione interna, con l'afflusso dal nord al sud di capitali volti ad investimenti di speculazione? In verità, per quanto anche sia da rinvenire qualche indizio di un'azione del genere, la potenza finanziaria delle regioni del Nord risulta lungi oggi dall'essere a tal grado di crescita da poter affrontare questo compito con sistematicità di criteri e larghezza sufficiente di mezzi. E anche supponendo che a tal punto benigno debba mantenersi il tempo alle fortune della borghesia italiana, ineluttabile da ultimo pur sempre appare la rottura dell'instabile equilibrio presente. Ciò che direttamente la borghesia italiana non può più osare di tentare, e la plutocrazia settentrionale non ha il minimo interesse a promuovere, un rivolgimento civile della società meridionale, compirebbesi inevitabilmente, e certo non più in senso stabilizzatore ma sovvertitore, attraverso il sorgervi di imprese industriali e di moderne aziende agricole che il capitale finanziario vi provocasse, in condizioni d'estrema depressione dei valori così naturali che umani della produzione" (1). Il secondo testo che interessa considerare è del 1° gennaio 1947 e venne redatto da Morandi per dare ragione della creazione dell'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno -Svimez (2); il testo contiene quanto segue: "La ricostruzione della nostra economia, sollevando problemi di complessa portata quali possono essere la distribuzione e l'applicazione migliore delle nostre forze, lo sfruttamento più razionale delle nostre risorse, l'ammodernamento e rafforzamento del nostro complesso produttivo, ha conferito una nuova attualità alla "questione meridionale". Tutti riconoscono che la ricostruzione non potrebbe mai svolgersi nel senso di ricostituire quella situazione prebellica che aveva tra i suoi dati fondamentali la capitale arretratezza economica del Sud. Tutti avvertono l'utilità di eliminare la causa di uno squilibrio così profondo, che impedirebbe di abbracciare nella ricostruzione quegli orizzonti che ad essa deve assegnare ogni mente che abbia una visione moderna dei problemi economici. La necessità di assicurare un raggio d'azione quanto più ampio possibile alla esplicazione delle forze produttive sfruttando in tutta la sua estensione l'area economicamente unitaria dello Stato; la convenienza di elevare la capacità generale di assorbimento del mercato; l'opportunità in vista di una riduzione di costi di sfruttare localmente a ciclo pieno determinate risorse naturali; il vantaggio infine della favorevole ubicazione dei centri produttivi, tendono di per sé a rimuovere le barriere invisibili che hanno ostacolato, nella storia contemporanea d'Italia, lo sviluppo economico del Mezzogiorno. Questi naturali moventi, che avrebbero potuto essere forse alquanto lenti a maturare in tempi normali mutamenti sostanziali della nostra struttura economica, devono in ogni caso determinare il cardinale indirizzo della ricostruzione nel momento in cui si chiede al Paese, non tanto l'incremento progressivo del sistema esistente, quanto una fondamentale riorganizzazione strutturale di esso. A questo modo l'attivazione economica del Mezzogiorno, che costituisce la fondamentale premessa alla soluzione della questione meridionale, diventa il primo e più grande problema della nostra ricostruzione. Ed è su questo piano di preminente attualità nazionale che esso va affrontato dalle forze congiunte di tutto il Paese. Peraltro il problema economico del Sud è tema e materia di troppo vasta e complessa portata per essere obiettivo diretto di azione. Si tratta piuttosto di un processo che soltanto una volta messo in atto può trovare in sé forza di svolgersi, superando una serie di condizioni limitative che al suo compimento appaiono frapporsi. Per dar vita a tale processo occorre precisamente inserire nel sistema economico del Mezzogiorno una forza viva di propulsione che possa agire con pronta efficacia. Questa non può essere che l'industria. Quando si dice l'industria non si vuole intendere il trapianto di unità isolate o una vegetazione forzata di iniziative, ma un complesso di attività trasformatrici che abbia vitalità naturale e vigore creativo. Se per vincere certi svantaggi di partenza può essere necessario che lo Stato accordi compensi e facilitazioni, non possono essere questi i puntelli capaci di reggere un edificio che manchi di fondamenta. Si tratta di promuovere industrie che abbiano ragione economica di sorgere o possibilità di svilupparsi. Per corrispondere a questo scopo non è propriamente atta la legge e neanche idoneo lo Stato, se la selezione non avviene per cura di altri organi che siano espressi dagli stessi fattori della produzione. Con questi intenti e con questo carattere è sorta la "Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno" (3). Prima di passare
alle vicende che subito dopo la liberazione dovevano portare Morandi
a impegnarsi in concreto con un nuovo gruppo di amici sulla industrializzazione
del Mezzogiorno, va ricordato che caratteristica saliente del pensiero
morandiano, rilevabile nei testi riprodotti e che verrà poi accolta
dal nuovo meridionalismo è il non approfondimento del problema
agricolo. Questa posizione, che sarà poi considerata come un
difetto della riflessione di Morandi (4), non deve essere attribuita
a un disconoscimento dell'importanza dello sviluppo agricolo meridionale
o della gravità dei suoi problemi, come ancora oggi non di rado
si continua a dire nei riguardi del nuovo meridionalismo. Il fatto è
che nella identificazione di una politica volta a rendere territorialmente
equilibrata la crescita dell'economia italiana, il punto di attacco
non poteva essere che l'industrializzazione meridionale e solo quella;
lo sviluppo agricolo, pur con i suoi gravissimi problemi, non poteva
essere che un capitolo del generale progresso dell'agricoltura italiana,
nel senso che l'utilizzo delle risorse offerte dalla terra meridionale
rispondeva a calcoli di convenienza economica, che interessi e insufficiente
coltura potevano alterare, non solo nel Mezzogiorno, ma non essere contestati.
In termini diversi si poneva il problema dell'industrializzazione, la
cui convenienza era di fatto, se non sempre esplicitamente, negata dal
pensiero politico ed economico dominante allora non meno di oggi. La
diversità delle due posizioni è ben comprensibile: che
quel tanto di progresso conseguibile nell'agricoltura settentrionale
potesse essere ottenuto anche dall'agricoltura meridionale era infatti
ipotesi non azzardata. Non così per l'industrializzazione; le
esperienze compiute in un gran numero di Paesi nello scorso trentennio
concordemente mostrano che le aree, il cui processo di industrializzazione
non aveva fatto un buon progresso prima della fine della guerra, sarebbero
state capaci di ottenere il cosiddetto decollo industriale solo se lo
Stato, con nuovi tipi di politiche, inclusa tra esse l'esercizio diretto
di imprese, non avesse promosso e poi diretto il processo. Ora, a chi
consideri sul piano mondiale le vicende dell'industria contemporanea,
appare si può ben dire stupefacente il fatto che il modello di
decollo dell'industria padana appaia a Morandi irripetibile nel Sud
già nel 1931, quando egli lo analizza dal certo eccezionale osservatorio
di cui poteva disporre a Milano. E' una constatazione che non pochi
politici ed economisti, anche del suo partito, non sono riusciti a fare
neppure oggi, a mezzo secolo dalla riflessione morandiana, pur avendo
davanti agli occhi, a differenza di Morandi, l'esperienza che si è
compiuta in un gran numero di Paesi. Non era certo questo il quadro
che offriva l'agricoltura; anzi, due condizioni necessarie, anche se
non sufficienti, per il superamento della crisi agricola meridionale,
potevano essere fornite solo dall'industrializzazione. L'una era la
formazione dei servizi pubblici e privati occorrenti per rendere conveniente
la modernizzazione dell'agricoltura, servizi che l'agricoltura, nella
situazione di quegli anni, non avrebbe mai potuto generare. L'altra
condizione era la rapida riduzione della forza di lavoro che viveva
sulla terra, ottenibile con l'industrializzazione: riduzione che sola
poteva consentire di passare da produzioni agricole di sussistenza a
più redditizie produzioni per il mercato. Insomma, il contadino
meridionale aveva tre possibilità, ma gliene erano consentite
solo due: emigrare oppure accettare la condizione miserabile in cui
il sistema lo lasciava. Con il progredire dell'industrializzazione egli
avrebbe avuto una terza scelta: trovare occupazione fuori dell'agricoltura,
però nell'area dove era nato. Deriva certo da considerazioni
di questo genere la posizione che Morandi prende sul fenomeno migratorio
nello studio sulla questione meridionale dei primi mesi del carcere,
che si è più sopra ricordato (5). In ciascuno dei due
testi prima riprodotti (6) si può identificare un nucleo che
è comune ad ambedue e che è costituito da quello che potremmo
chiamare il modello morandiano dello sviluppo economico italiano. E'
un modello che si caratterizza per il fatto che esso addita un tipo
di sviluppo che persegue il progresso ordinato dell'industria italiana
e insieme la soluzione della questione meridionale. Quel modello, che
si esprime nelle tre posizioni indicate in principio, è, come
detto, quello del nuovo meridionalismo. Nei due testi vi è però
dell'altro; e questo altro presenta rilevantissime differenze che trovano
spiegazione nel fatto che siamo in presenza di due diverse ricerche:
nel testo tratto dalla "Storia" prevale l'intento di identificare
i motivi che non rendono accettabile per Morandi l'ordinamento della
società italiana; nel testo Svimez la ricerca è invece
mossa specialmente dal fine di determinare un'azione di governo che
possa svolgersi nel sistema di rapporti esistenti in quel momento. Il
pensiero contenuto in questo testo si matura in Morandi negli incontri
che egli ha con gli uomini del primo Iri, a partire dal momento stesso
della liberazione, prima a Milano come presidente del CLNAI, poi a Roma
come Ministro dell'Industria. Esaminiamo ora questa vicenda. Ai primi
di maggio 1945 giungeva a Milano una missione del Comando alleato -
nella quale io ero stato inserito dal nostro Governo - con il compito
di redigere, d'accordo il CLNAI, praticamente con la Commissione Economica
costituita nel suo ambito, un programma di importazioni di prodotti
occorrenti per la riattivazione della nostra industria, il cosiddetto
Piano di primo aiuto. Un documento avente quel nome era già stato
presentato, a fine 1944, a Roma dal Governo italiano alle autorità
alleate; da queste era stato accettato e una missione italiana si trovava
a Washington per dare inizio agli acquisti. Quel programma aveva per
scopo la riattivazione delle sole industrie ubicate a sud della linea
gotica; esso venne ovviamente annullato, appena avvenuta la liberazione
del Nord, date le diverse e enormemente più ampie possibilità
offerte dalle disponibilità degli impianti della pianura padana:
impianti che, a differenza di quelli delle regioni centro-meridionali,
non avevano subito distruzioni e, se danneggiati, erano rapidamente
riattivabili; Era quindi a un programma nazionale che si dovette porre
mano presso il CLNAI, non a un programma per l'area settentrionale soltanto.
Emerse subito dal raffronto tra i due programmi, quello redatto a Roma
e il nuovo che si doveva formulare a Milano, che, in termini di immediata
convenienza economica, gli acquisti da farsi negli U.S.A con le scarse
risorse in quel momento disponibili, andavano concentrati nei beni occorrenti
per la riattivazione degli impianti intatti o rapidamente riattivabili;
la ricostruzione degli impianti distrutti o gravissimamente danneggiati
sarebbe stato il risultato del procedere della ricostruzione del Paese,
sui cui criteri si sarebbe discusso in seguito. Per giudicare delle
reazioni che una simile impostazione, da tutti giudicata ovvia, poteva
suscitare, va tenuto conto del fatto che il gruppo che a Roma, presso
il Ministero dell'Industria, aveva redatto la prima edizione del Piano
era formato da esperti forniti dall'Iri; a Milano si costituì
un nuovo gruppo con altri esperti, pure dell'Iri, residenti in quella
città; al gruppo, il cui ufficio era presso la sede milanese
dell'Istituto, facevano capo i Comitati Tecnici costituiti dal CLNAI.
Questa ininterrotta presenza dell'Iri nel processo di formazione del
Piano di primo aiuto spiega il fatto che fin dall'inizio del lavoro
apparisse subito come problema la sorte riservata all'industria meridionale,
i cui impianti - concentrati nell'area napoletana - erano stati praticamente
distrutti nel settembre 1943 dai genieri dell'esercito tedesco in ritirata.
L'industrializzazione del Mezzogiorno era stata infatti un obiettivo
di grande impegno presso l'Iri prebellico; condotto a termine il trasferimento
all'Iri delle partecipazioni industriali possedute dalle banche, apparve
chiara, dal quadro complessivo che ne era risultato, la convenienza
economica e non solo politica di un indirizzo volto a promuovere investimenti
industriali nel Mezzogiorno. Questo indirizzo, però, ebbe modo
di manifestarsi solo per i pochi anni trascorsi tra la fine del 1934,
quando venne ultimato lo smobilizzo bancario, e, praticamente, il 1941,
quando la produzione industriale del Paese viene in breve tempo paralizzata
dalle vicende del conflitto. L'azione meridionalistica dell'Iri si svolse
così solo nell'area napoletana e fu in sostanza mossa dall'intento
di costituire a Napoli, facendo perno soprattutto sulla Società
Meridionale di Elettricità, un centro industriale e finanziario
avente dimensioni e capacità propulsive comparabili con quelle
dei maggiori centri già esistenti nel triangolo industriale.
La misura di maggior rilievo allora presa fu certo la creazione della
Navalmeccanica, nella quale vennero concentrati quattro stabilimenti,
due dei quali dipendenti da società aventi sede nel Nord (7).
Quanto a sviluppi nel restante territorio meridionale, si ritenne che
ciò potesse aver luogo in un secondo tempo, nei limiti consentiti
dalle risorse finanziarie a disposizione dell'Ente e soprattutto da
leggi e da altre misure volte a creare nell'area meridionale condizioni
che a Napoli si riteneva già esistessero. L'adozione da parte
del primo Iri di un indirizzo meridionalistico non deve far ritenere
che dell'Ente avessero preso possesso un gruppo di risoluti meridionalisti;
non erano i testi di Fortunato, di Salvemini, di Nitti o di altri eminenti
meridionalisti che ispiravano quelle decisioni, ma una riflessione sullo
sviluppo industriale italiano, una riflessione nuova, resa possibile
dalla unificazione presso l'Iri dell'attività di indirizzo, prima
frazionata presso più banche, nei riguardi di un numero rilevante
di imprese industriali. Ma ciò che più interessa sottolineare
è che quell'indirizzo non era tanto il risultato della concentrazione
nell'Iri dei centri decisionali esistenti presso le banche, quanto del
passaggio da una concezione che definirei "padano-centrica"
del nostro sviluppo industriale, quale era quella che si formava a Milano,
a una concezione che aveva davanti a sé l'intero sistema industriale
del Paese. L'indirizzo meridionalistico del primo Iri era insomma il
prodotto di un calcolo di convenienza economica, formulato però
in una sede la cui ottica era differente da quella delle sedi precedenti;
la differenza non poteva non essere piccola, dato che quella sede era
lo Stato. Il modello morandiano aveva insomma avuto una convalida in
una sede nella quale, per la prima volta nella nostra storia, le convenienze
venivano giudicate in riferimento all'intero sistema nazionale. Una
evocazione del meridionalismo del primo Iri era necessaria per comprendere
il significato dell'incontro tra Iri e Morandi, che ha luogo a Milano
a partire dal maggio 1945; incontro che, divenuto Morandi Ministro,
doveva continuare a Roma fino alla costituzione della Svimez. Milano,
nelle prime settimane successive alla liberazione, era nel pieno fervore
della ripresa, che vi aveva ovviamente determinato la liberazione; non
era però certo né il luogo, né il momento, per
aprire un discorso meridionalistico. Quel discorso era proponibile nei
seguenti termini: se la ricostruzione si svolgerà ignorando la
questione meridionale, le risorse ottenute con il Piano di primo aiuto
saranno prevalentemente utilizzate nelle regioni esterne al Mezzogiorno,
soprattutto nelle regioni della pianura padana; si sarebbe avuto subito
un accrescimento nello scarto già esistente in quel momento nelle
condizioni di vita nei due gruppi di regioni; sarebbe stato poi molto
più difficile, forse impossibile, ottenere in futuro, quando
l'industria centro-settentrionale fosse stata modernizzata in sede di
riattivazione, che il Mezzogiorno progredisse a un ritmo più
intenso di quello del resto del Paese da consentire il raggiungimento
di una certa uguaglianza nelle condizioni di vita e nella capacità
di ulteriore progresso delle due parti del Paese. Occorreva quindi ottenere
che la ricostruzione si svolgesse in modo da far progredire il Mezzogiorno
a un ritmo non minore quello del resto del Paese; e ciò poteva
essere ottenuto solo ponendo subito il problema dell'industrializzazione,
cosicché quanto sarebbe avvenuto nell'industria centro-settentrionale
fosse condizionato da un progetto meridionalistico da portarsi avanti
nella misura consentita da circostanze che in quel momento non era dato
prevedere. L'ufficio del Piano di primo aiuto era invero modesto e non
certo sede adatta per introdurre una simile questione; si doveva infatti
solo redigere una lista di merci, la cui importazione avrebbe consentito
la riattivazione dell'industria fino a tutto il 1946; il documento da
preparare era denominato Piano solo perché doveva contenere delle
giustificazioni delle scelte che erano state fatte. Come inserire in
una simile sede la questione meridionale in modo da condizionare a favore
del Mezzogiorno, anche nel settore industriale, la ricostruzione? E
come si inserì Morandi in un lavoro che era di natura prevalentemente
tecnica? Morandi non aveva certo motivo e tempo di occuparsi delle complicate
procedure in base alle quali in poco più di un mese furono scelte
247 merci da importare, furono determinate le quantità occorrenti
per ognuna di esse e fu valutata in 75 milioni di dollari la somma occorrente
per acquisti che non si era stati capaci di identificare nel gran numero
di richieste non soddisfatte. Fu fuori ufficio, nel corso di discussioni
tra amici, che venne dibattuto il problema del criterio con cui avviare
una ricostruzione nella quale la convenienza economica a breve termine
- cioè l'autorità del mercato - imponeva di dare tutto
a chi già più aveva e non aveva subito danni, e nulla
a chi meno aveva e per di più, quel poco - gli impianti dell'area
napoletana - aveva avuto praticamente distrutto: non era un buon inizio
per il nuovo Stato che nasceva in quel momento! Credo di poter dire
oggi che la discussione su "Mezzogiorno e Ricostruzione" fu
dominata da uno stato di reciproco stupore in noi e in Morandi; in noi
che constatavamo esistere a Milano, in un uomo tenuto fino ad allora
isolato da ogni confronto politico ed economico, un interesse acuto
e concreto per il problema "avvio immediato dell'industrializzazione
meridionale" e una capacità di proporre con lucidità
straordinaria i criteri di una politica; stupore d'altra parte in Morandi,
che imprevedutamente apprendeva essere stata avviata nella sfera pubblica
un'azione, che doveva apparirgli conforme alla posizione da lui presa
nelle pagine del 1931, che abbiamo riportato in principio. Ma che cosa
potevano produrre le discussioni di quei giorni? Nulla per quanto riguarda
la composizione della lista delle merci da importare; la lista doveva
essere consegnata entro fine giugno e gli elementi utilizzabili erano
solo quelli elaborati dai Comitati Tecnici del CLNAI per le regioni
settentrionali e da una varietà di fonti (Camere di Commercio,
Unioni Industriali, ad esempio) per il resto del Paese, elementi tutti
che erano ricavati - e non poteva essere diversamente - dalle capacità
produttive utilizzabili. Ora, tenuto anche conto delle distruzioni dell'area
napoletana, era inevitabile che ben poco del flusso rigeneratore della
nostra economia, costituito dalle importazioni americane, andasse nel
Mezzogiorno; né poteva diminuire la preoccupazione per un simile
inizio della ricostruzione il fatto che il Mezzogiorno fruisse di importazioni
disposte dopo il settembre 1943 dalle autorità militari, secondo
criteri che però noi non conoscevamo. Sola iniziativa da prendere
in quella situazione era quella di proporre subito la questione, cosicché
almeno le importazioni del 1947, e in generale la nostra politica industriale,
tenessero conto da un lato della concezione morandiana del nostro sviluppo
industriale, dall'altro della sia pur breve esperienza compiuta dall'Iri.
Due iniziative si ritenne potessero essere prese in relazione a questo
stato di cose: rendere subito pubblico il piano di importazioni che
era stato deciso, dandone la paternità al CLNAI e facendone una
larga distribuzione in tutto il Paese; redigere una seconda edizione
del Piano, nella quale le importazioni del 1946 fossero inquadrate in
una prima, sia pure sommaria, visione dei nostri problemi. Il tutto
a spese del CLNAI. Sulla portata di queste iniziative va anzitutto fatto
presente che il Piano era un documento tecnico cui avevano concorso
uffici governativi, organi ed esperti del CLNAI e tecnici del Comando
alleato; nessuno dei tre Enti di appartenenza di questi uffici e persone
l'aveva formalmente approvato. D'altra parte il Piano sarebbe entrato
subito in esecuzione e non era modificabile; si trattava di un documento
d'ufficio i cui fini non richiedevano una pubblicazione che, certamente,
a Roma non sarebbe avvenuta. Dame la paternità al CLNAI, i cui
organi avevano invero dato un contributo preponderante, diffonderlo
e pensare a una seconda edizione ragionata erano tutte iniziative politiche
prese allo scopo di dar luogo a determinati svolgimenti: svolgimenti
che però, come vedremo, non vi furono nemmeno in minima parte.
La prima edizione del Piano venne consegnata alle autorità alleate
a fine giugno 1945; il testo a stampa venne distribuito tra il 15 e
il 25 luglio a organi e persone ritenute interessate, in tutto il Paese,
al problema (8). La seconda edizione, molto più ampia, destinata
nelle nostre intenzioni ad aprire un dibattito interno ai fini della
redazione del Piano 1947, venne condotta a termine in soli tre mesi
utilizzando le informazioni che in gran parte non erano state ottenibili
entro giugno o aggiungendo informazioni di carattere generale: popolazione
italiana, forze di lavoro, emigrazione, distribuzione territoriale dell'industria
e quindi situazione meridionale; dati che, invero, non erano richiesti
e non erano neppure necessari per giustificare i fabbisogni di importazioni
per l'industria del solo anno 1946. Quei dati si trovano sparsi in un
volume di 285 pagine che risulta finito di stampare a Milano nell'ottobre
1945. Il volume ebbe la stessa vasta distribuzione del precedente ed
è dal materiale in esso contenuto che ci si attendeva l'apertura
di un dibattito sul tema "ricostruzione e industrializzazione del
Mezzogiorno". Da notare che autore di questa seconda edizione,
pur stampata a Milano, non è più il CLNAI, ma il Ministero
dell'Industria; il CLNAI, cui si aggiunge una Commissione Tecnica del
CLN di Napoli, sono citati come collaboratori in calce al frontespizio.
E' questo un piccolo episodio della polemica, che si era allora aperta,
sui poteri del CLNAI e sui tempi e sui modi per farli cessare; polemica
i cui termini, ovviamente, sfuggivano completamente al nostro ufficio.
Non è questa la sede per prendere di nuovo in esame il pensiero
che animava Morandi sul ruolo che i CLN potevano svolgere dopo la liberazione;
per quanto riguarda il rapporto "CLN, questione meridionale, ricostruzione"
è però interessante ricordare due posizioni da lui prese
prima del suo ingresso, nel luglio 1946, nel secondo governo De Gasperi
(9). Il 14 maggio 1945, in visita a Napoli con i componenti del CLNAI,
afferma che sarebbe stato compito del CLNAI far fruttare i fermenti
nuovi sorti nel Nord come nel Sud e favorire con ogni mezzo la ripresa
economica delle regioni meridionali. Il 9 giugno, a Roma, nel corso
di dichiarazioni sulle funzioni del CLN, compresi quelli del Sud, fa
presente che questi fino a quel momento hanno carattere "formale
ed esteriore"; in quell'occasione menziona come un successo del
CLNAI il ruolo da esso svolto per la preparazione del Piano di primo
aiuto. La distribuzione delle due edizioni del Piano non ebbe letteralmente
nessun effetto nel senso da noi preconizzato. Il documento ebbe certamente
un largo utilizzo, limitatamente però agli uffici tecnici di
organizzazioni e di aziende che vi trovavano le prime informazioni,
dopo la fine del conflitto, sullo stato dell'industria e sul senso che
poteva assumere la ripresa produttiva. Di questo impressionante insuccesso
ci si rese conto, come è ovvio, solo gradualmente nel corso del
1946; in quell'anno, precisamente nel luglio, Morandi diviene Ministro
dell'Industria e vi resta - nel secondo e nel terzo governo De Gasperi
- fino al maggio 1947, cioè per una decina di mesi. Si può
pensare che, divenuto Ministro, l'impegno di Morandi per il nostro sviluppo
industriale, e quindi per la industrializzazione del Mezzogiorno, poteva
divenire più concreto; tra l'altro è presso il suo Ministero
che sono gestiti quei piani per le importazioni industriali ai quali
aveva portato tanto interesse a Milano, come presidente del CLNAI. Egli
però non prende o forse non riesce a prendere iniziative in sede
di governo o anche solo nell'ambito del Ministero; lo stesso può
dirsi, salvo errore, per quanto riguarda il suo partito. Prendono invece
grande sviluppo i contatti con gli uomini del primo Iri: Giordani, Menichella,
Cenzato, Caglioti, Saraceno; insieme, dopo aver saggiato diversi tipi
di iniziative, ci si fermò sull'idea di dar vita a un'associazione,
i cui fini possono esattamente cogliersi dalla definizione che ne diede
Morandi l'8 novembre 1946 in una riunione tenutasi presso il Ministero,
riunione cui parteciparono personalità del mondo industriale
e del mondo finanziario (10). Secondo quanto risulta dal verbale (11),
i compiti dell'Associazione dovevano essere i seguenti:
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