§ CANTI DELL'EMIGRAZIONE

Amara terra mia




Enrico Surdo, Carlo Martini



E' accertato che dall'Unità d'Italia ai nostri giorni circa trentadue milioni di italiani hanno lasciato i paesi d'origine e sono andati a lavorare all'estero. Due terzi erano meridionali. La metà ha deciso di restare nelle aree verso le quali si era indirizzata o nelle quali, bene o male, aveva trovato un lavoro. Le "Little Italy" sparse nel mondo quasi non si contano più: a New York, a Boston, a Buenos Aires, a Rio de Janeiro, in Sudafrica, in Francia, in Belgio, in Svizzera, in Inghilterra, nella Germania Federale ... Trentadue milioni di persone sono un popolo che si è portato dietro un ricchissimo bagaglio di ansie, di speranze, di vitalità, di disperazione; di cultura e di tradizioni; di comportamento. Su tutti questi versanti si è dunque manifestato il suo "linguaggio", e si è -in un modo o nell'altro - realizzata la sua vita. L'impatto con la civiltà e con culture diverse fu certamente tremendo. Ne sono testimonianza lettere, poesie, canti popolari e canzoni d'autore, in lingua e in vernacolo, che come un ininterrotto philum percorrono un mosaico di vicende, permeandolo profondamente di una dolente suggestiva filigranata umanità.
La prima emigrazione fu transoceanica:

Sangue italiano
che sei ridotto così
alla tua patria nascere
e all'estero morir ...

E al di là dell'oceano c'era l'America. Non ho mai sentito una sola parola d'ammirazione per l'Oceano, scrisse De Amicis. "E ne conobbi dei personaggi singolari. Trovai gli antichi bersaglieri di Crimea con la barba bianca e dei contadini che avevano sul corpo cicatrici delle nostre battaglie dell'Indipendenza e ferite di lancia indiana ( ... ). E intesi delle biografie meravigliose d'emigranti passati per la trafila di cento mestieri -sguatteri, barcaroli, coristi, portinai, agricoltori -; d'altri che avevan già corso rischiose avventure nell'interno del Brasile o nelle Repubbliche della costa del Pacifico ( ... ). Parecchi anche mi fecero dei racconti drammatici di ritorni o meglio di fughe miserande da lontane colonie fallite, viaggia di centinaia di miglia a piedi, con le donne, coi bambini, con gli animali, sotto il flagello di piogge implacabili, o travolti da quei terribili uragani della Pampa che soffiano per lo spazio di 30 gradi di latitudine dalla vallata delle Amazzoni fino al confine della Patagonia ( ... ). Ma anche i fortunati rimpiangono non di rado il loro Paese ... ".

Mamma mia, dammi cento lire
che in America voglio andar ...

Ma una volta lì, qual'è la realtà? In un foglio volante pubblicato nel
1899, Antonio Corso, ex sottufficiale della Guardia di Finanza, scrive:

O gioventù d'Italia
abbruna la bandiera ...

Il linciaggio di cinque italiani, avvenuto quell'anno a Tallulah, Mississippi, USA, va inquadrato nella dolorosa vicenda "di violenze di cui furono protagonisti alcuni nostri emigrati notoriamente appartenenti alla mafia" (1). I cinque avevano subìto un regolare processo ed erano stati assolti. La popolazione di New Orleans accolse però con ostilità la sentenza e, trascinata da un avvocato, assaltò le carceri e impiccò i prigionieri. Questo, di fatto, non era che il culmine, con risvolto drammatico, di una serie di peripezie cui andavano incontro gli emigranti provenienti dal Mezzogiorno d'Italia. Ha scritto Erik Amfitheatrof in "I figli di Colombo"": appena la sua nave giungeva a New York, l'emigrante era spedito con il traghetto a Ellis Island, dove si metteva in fila con quelli del suo gruppo, ogni gruppo essendo elencato a manifesto e comprendendo trenta persone. Ognuno aveva il proprio cartellino con il nome, con una lettera e una cifra. (Esempio: Mario Rossi, c-5). Entrando, gli emigranti, sfilavano, un passo per volta, davanti a due file di medici che li esaminavano e che ogni due o tre minuti allungavano il braccio e scrivevano sulla loro giacca col gesso una "X". Questa "X" era seguita da un altro simbolo o simboli: "L" per lamness, voleva dire zoppo; "CT", tracoma; "G", gozzo; "H" per heart, cuore; "PG" (pregnant) per gravidanza; "S" per senilità. Chi era segnato col gesso era spinto in una camera separata per un esame più approfondito e in quel momento, com'è facile immaginare, l'emigrante era "già malato di paura se non di altro morbo". Circa il 15 per cento degli emigranti veniva trattenuto per ragioni di salute.
Poi c'era l'interrogatorio, svolto il più rapidamente possibile da ispettori infastiditi e stanchi. La domanda chiave era al numero 21 e riguardava i contratti di lavoro. Nell'intento di proteggere i lavoratori dallo sfruttamento, era stata varata una legge nel 1885 che rendeva illegale il reclutamento degli emigranti prima del loro ingresso negli Stati Uniti. Arrivato alla domanda 21, l'emigrante doveva rispondere con un "no". No, non aveva firmato un contratto di lavoro, però aveva un lavoro che lo aspettava. Terminato l'interrogatorio, si contava il denaro dell'emigrante e gli si dava una tessera con un timbro: ADMITTED, ammesso.
Nella maggior parte dei casi, quando un emigrante e sua moglie arrivavano a New York, si dirigevano senza esitare alla Battery Place a una trentina di isolati più su, nella Mulberry Street, Oggi la Mulberry Street è un quartiere come tutti gli altri nella zona meridionale di Manhattan. Il suo aspetto non ha nulla di tipicamente italiano, tranne i nomi delle botteghe; però ha un suo carattere e all'interno, dietro le vecchie facciate di mattoni dei caseggiati, vi sono appartamenti comodi e bene arredati. Tre quarti di secolo fa, quando i meridionali calavano a centinaia al giorno a New York, la Mulberry Bend, come allora si chiamava, era il peggior quartiere povero della metropoli. Almeno dodici ondate di emigranti erano già passate dalle sue fetide stanze al momento in cui erano arrivati gli italiani.
Per molti emigrati italiani, Mulberry Bend e altre analoghe isole etniche dei grandi porti, come il quartiere di North End a Boston, divennero la loro destinazione fissa negli Stati Uniti. Ma per gli altri meridionali, le "Little Italy" di Boston e di Providence, di New York e di Filadelfia, erano solo tappe provvisorie sulla via della più grande, più aperta America, quella che incominciava dopo il capolinea del tram. Dei gruppi di pugliesi, calabresi, siciliani risalirono l'Hudson e si stabilirono nelle città in riva al fiume, come Piermont, o più a nord, a Buffalo, Rochester, Rome. Decine di migliaia si sistemarono nei grandi e piccoli centri abitati del Connecticut e del Rhode Island. Generalmente, questa loro migrazione era dettata dalla disponibilità di lavoro. Fu prima di tutto la costruzione delle ferrovie che fece conoscere per la prima volta agli emigrati italiani le zone più settentrionali dello Stato di New York. Vi fu una comunità di meridionali a Barre, nel Vermont, formata dagli scalpellini e dai lavoranti delle cave di pietra. Altri trovarono impiego e si stabilirono nelle grandi città industriali, rimanendo uniti. Ciò che per anni, tuttavia, rafforzò lo spirito tribale, fu il muro del pregiudizio nel quale si imbattevano appena mettevano il naso fuori del loro quartiere. Sebbene molti meridionali facessero amicizia con gli americani, e alcuni di loro diventassero ricchi riuscendo così bene da poter superare la barriera del pregiudizio, in generale gli italiani erano considerati inferiori e persino disprezzabili. Con quattro milioni di emigranti, in massima parte "terroni", che si riversarono negli Stati Uniti nei tre decenni fra il 1891 e il 1920, voler ignorare la loro presenza diventava sempre più difficile. Oramai la figura dell'italiano, a cui tutti si riferivano, non era più quella di Garibaldi. Il pregiudizio nativista del "Know nothing" del 1840 e del 1850, che aveva risparmiato gli italiani perché erano pochi, si ritorceva ora contro di loro da parte di tutte le classi americane, e particolarmente quella degli operai, che vedevano in questi dago una minaccia al loro tenore di vita e ai loro valori.
"L'entità di questo pregiudizio non è più palese agli italo-americani di oggi, ed è cosa naturale". Ma allora era fin troppo reale. Fra il 1875 e il 1915, trentanove italiani furono linciati o uccisi a colpi di pistola dai "vigilantes" negli Usa. Gli attacchi peggiori si verificarono a New Orleans, nel 1891.
Molti americani approvarono i linciaggi di New Orleans che segnarono l'introduzione della mafia quale simbolo di paura e di minaccia, appunto, dei valori americani. Il "New York Times", pur respingendo l'azione dei fanatici e bollando "la loro condotta incivile e illegale", concluse però che "questi spioni e vigliacchi siciliani, discendenti di banditi e di assassini, che hanno portato in questo Paese gli istinti dei fuorilegge, le pratiche degli sgozzatori, l'omertà delle società segrete del loro Paese, sono per noi un flagello senza remissione". E per "siciliani" si intendevano, sì, i siciliani, ma anche quanti avevano la pelle scura e i capelli ricci: i meridionali. Tre emigranti meridionali furono linciati ad Hahnville, Louisiana, nel 1896. Cinque a Tallulah, Mississippi, nel 1899. Nel 1895 sei operai italiani furono linciati a Washington, Colorado, dopo l'uccisione del proprietario di un saloon. Altri atti di ingiustizia, se non di brutalità, furono inflitti ai nostri emigrati negli anni '80 e '90, come ad esempio gli arresti in massa dopo un accoltellamento fra bollenti operai siciliani. "Vittime dei linciaggi o degli arresti punitivi - scrive Amfitheatrof - erano quasi sempre meridionali. Non solo erano temuti perché ignoranti, ma anche perché scuri di pelle e neri di capelli. Perfino Ralph Waldo Emerson si era rallegrato che l'emigrazione dell'800 avesse portato in America "la carnagione chiara, gli occhi azzurri dell'Europa", lasciandosi dietro "gli occhi e la zazzera nera, l'Europa dell'Europa". E cantava una voce calabrese:

Cristoforo Colombo, che cosa hai fatto?
Hai rovinato la migliore gioventù.
E io che sono venuto, sto attraversando il mare
con quel legno nero di vapore.
L'America, che è ricca di denari
è circondata di palle e di cannoni,
e le mogli degli americani
piangono forte perché restarono sole.

E Francesco Màsala riecheggia, nella "Lettera della moglie dell'emigrato":

E' venuta l'estate.
Dalle spighe di nebbia, nel tuo campo,
è nato grano di cenere:
lo scirocco e la ruggine
hanno mangiato il pane di tuo figlio.
Nell'aia senza vento
temiamo le formiche.
In malora hai appeso
la falce sulla porta.
Il vento s'è levato ma sull'aia
cade soltanto paglia.
hai seminato in mare.

Caro, o caro,
quando ritorni, se ritornerai,
non chiedermi dov'è l'anello d'oro:
è diventato pane per tuo figlio.
Caro, o caro,
ti scrivo sulle onde del mare,
ti scrivo nel vento,
se sentirai queste mie parole,
ricordati di me.
Ahi! Quanti figli
volevi mi nascessero dal seno,
ma tutti sono morti
da quando sei partito:
sul letto di granturco c'è rimasto,
dalla tua parte, un solco senza seme.

Caro, o caro,
non so perché ti parlo,
i miei pensieri nascono come erba,
altri come le nuvole,
altri come le spine.
Dentro di te avevo fatto il nido,
dentro di me avevi fatto il nido.
So che non sei più nulla
ed ancora respiro.
Il mio cuore è giallo
come una vigna dopo la vendemmia.

Dalla Piana dell'Ortonese e dai monti abruzzesi della Maiella, una fedele, preziosa ricostruzione:

Nebbi' a la valle e nebbi' a la muntagne,
ne le campagne nen ce sta nesciune.
Addije, addije amore,
casch' e se coje ... la live
e casc' a l'albere li foije.

Casche la live e casche la ginestre,
casche la live e li frunne ginestre.
Addije, addije amore,
casch' e se coije.. . la live
e casc' a l'albere li foije.

("Nebbia alla valle e nebbia alla montagna/ nella campagna non c'è nessuno./ Addio, addio amore/ casca e si coglie ... l'uliva/ e cascano all'albero le foglie./ Casca l'uliva e casca la ginestra,/ casca l'uliva e le fronde della ginestra./ Addio, addio amore ... ecc.").
Questo canto, che in diverse versioni viene intitolato "Nebbia alla valle" o "Cade l'uliva", descrive dolorosamente "lo stato di desolazione delle terre abbandonate dai contadini". E' un prezioso documento sui flussi migratori dell'800, ed è uno dei componimenti più belli che siano stati tramandati sul tema dell'emigrazione. Il cantautore Domenico Modugno ne ha tratto una canzone usata come sigla di una trasmissione televisiva. L'elaborazione della musica è stata curata dallo stesso cantautore, quella del testo da Bonaccorti. Il brano, per l'occasione, è stato intitolato "Amara terra mia", ed è un buon esempio "tecnico" di "totale stravolgimento e spietata degradazione del patrimonio culturale":

Sole alla valle e sole alla collina,
alla campagna non c'è più nessuno,
addio, addio amore,
io vado via.
Amara terra mia,
amara e bella ...

Di ben altra levatura la canzone "colta", che ha per tema sempre l'emigrazione, sia pure quella più vicina ai nostri tempi, e con destinazione interna all'Italia. Valga per tutte una composizione di un cantautore, Sergio Endrigo: "II treno che viene dal Sud".

Il treno che viene dal Sud
non porta soltanto Marie
con le labbra di corallo
e gli occhi grandi così.

Porta gente gente nata tra gli ulivi
porta gente che va a scordare il sole
ma è caldo il pane
lassù nel Nord.

Nel treno che viene dal Sud
sudore e mille valigie
occhi neri di gelosia
arrivederci Maria.

Senza amore più dura è la fatica
ma la notte è un sogno sempre uguale
avrò una casa
per te e per me.

Dal treno che viene dal Sud
discendono uomini cupi
che hanno in tasca la speranza
ma in cuore sentono che

questa nuova questa bella società
questa nuova grande società
non si farà
non si farà.

E', quasi in contrappunto, il canto di chi resta:

Quanno che s'è partito lo mio amore
stietti tre giorni e non potia parlare.
Me ietti a mette sott'a 'nna frescura:
le foglie per pietà se ne cascaro.
Le stelle dello cielo a una a una
tutte quante de lutto se vestero.
Pure 'sto core mio a lutto staie,
schiavo s'è fatto chi patrone era.

(Dall'area di Castellabate, nel Cilento).

Lo sradicamento forzato costituisce il sottofondo comune a tutte le manifestazioni culturali successive: l'emigrazione è per davvero, com'è stato detto e scritto, una specie di "nuova nascita", ma negativa, involontaria, alienante, nella quale il mondo che si lascia è quello amato, mentre quello nel quale si entra rende estranei e diversi. A questa condizione dolorosa di "straniamento" vanno ricondotti i contenuti drammatici di alcuni canti, ispirati a loro volta da eventi luttuosi. "Trenta giorni di nave a vapore", dice una composizione forse fra le più note. E, durante una di queste interminabili navigazioni verso il Nuovo Mondo, la tragedia in agguato:

E da Genova il "Sirio" partiva,
per l'America il suo destin,

ed a bordo cantarsi sentiva,
tutti allegri solcando i confin.

Il 4 agosto alle cinque di sera,

nessuno sapeva il suo rio destin,
urtò il "Sirio" un orribile scoglio,

di tanta gente la misera fin.

Si sentivan le grida straziate,
padri e madri nell'onde lottar,
abbracciavan piangendo i suoi figli
che sparivan nell'onda del mar.

E fra loro un Vescovo c'era,
come tutti nell'ansia e nel duol,
porgeva aiuto tanto amoroso
dando a tutti la benedizion.

E dall'urto tremendo che prese
come un lampo tra l'onde sparir.
Immaginate l'acerbo dolore
che a tutti fa spezzare il cuor.

Le onde battevan il grande vapor
in ogni cor volava il suo pensier,
chi chiamava il padre e chi la madre
e in pochi istanti la morte trovar.

Quattro barche da pesca correvan
in aiuto dei nostri fratei
e da baldi col mare lottar
e l'han portati sul fermo terren.

Ci fu pure un vapore stranier
che da lungi vide il "Sirio" perir,
con destrezza di ver marinaio
i naufraghi dall'acqua a levar.

lo di scriver tralascio che il pianto
mi dà pena e soffrire mi fa;
che nel mare la tomba funesta
non ha pace e tregua non dà".

Poi le tragedie della terra. O meglio, le tragedie sotto la terra, nelle miniere di mezza Europa: a Mattmark, a Marcinelle. E i drammi della xenofobia. Ecco una ballata di Franco Trincale:

Se vuoi veder l'inferno, amico mio,
vieni con me cheti ci porto io,
si chiama Mattmark e Marcinelle
senza lana son le pecorelle.

Ci sta l'inferno in terra, amici miei,
dove il sole non si vede mai,
dove la neve ammazza gli emigranti
e prende il colore sanguinante.

Attilio lasciò il suo paesello,
baciò la mamma sotto il chiar di luna
e all'estero andò col suo fardello
in cerca di lavoro e di fortuna.

Trovò lavoro e venne insultato,
da giovinastri svizzeri ammazzato.
Lo risparmiò la morte in miniera
ma lo colpì la man dello straniero.

Suonano al Sud le zampogne,
nell'aria c'è l'odor delle castagne.
Natale s'avvicina, e l'emigrante
dentro una baracca sta piangendo.

Gli Svizzeri che ammazzan gli Italiani
è come se ammazzassero dei cani,
perché la corte li ha giudicati
due anni agli assassini ha condannati.

Vestita a nero con gli occhi di pianto
la mamma poverina sta aspettando:
con il biglietto gratis, donato,
dentro una bara, Attilio è tornato.

C'è un treno ogni giorno alla stazione
che per l'inferno ha la destinazione.
Dell'Emigrante questa è la sorte:
in cerca di fortuna e della morte.

E' un'altra ballata, "Per Alfredo Zardini", che riprende il tema della morte violenta per xenofobia, morte come frutto di una spaventosa e irrazionale esplosione di anti-forestierismo collettivo. La ricostruzione dell'incredibile, agghiacciante episodio è stata resa difficile dalla reticenza della polizia e dalle testimonianze contraddittorie dei testimoni. Ma poi, lentamente, la verità è venuta a galla, svelando una vicenda a fosche tinte, squallida e disumana. Ecco i fatti. Il 20 marzo 1971, alle cinque di mattina, l'emigrante italiano Alfredo Zardini, 40 anni, sposato e padre di un bimbo, esce di casa per recarsi dal suo futuro datore di lavoro. IL in Svizzera da pochi giorni. Ha un contratto che gli assicura un ottimo impiego come carpentiere. Strada facendo, trova il "Frau Stirnimaa", uno dei pochi ristoranti di Zurigo che aprono presto.
Il locale si trova nella Langsstrasse, la strada principale del Quartiere 4, famoso per essere stato prima della guerra il centro operaio e rivoluzionario della città e ora noto come la "Little Italy". Zardini entra, ordina un caffé. Prima ancora di essere servito, viene apostrofato da un certo Gerry, figura molto conosciuta della malavita zurighese. Volano gli insulti. Gerry non ha mai visto di buon occhio gli italiani. Durante il periodo della votazione Schwarzenbach contro la mano d'opera estera, aveva militato attivamente nel movimento contro l'inforestieramento. E' piuttosto alticcio. Non si lascia sfuggire l'occasione di dare fastidio allo "sporco italiano".
Gerry è grande e grosso. Si sa che è un picchiatore, conosce il karaté e i colpi proibiti. Gli avventori del locale, circa una decina, assistono divertiti alla scena e non muovono un dito in difesa dell'italiano. Gerry insiste e sfida Zardini a misurarsi con lui. "Dimostra che sei un uomo!", gli urla in faccia. Lo scontro è inevitabile. Ma per Zardini non c'è niente da fare. Ai primi pugni è a terra. Il suo avversario infierisce senza pietà, colpendolo con calci all'addome. La smetterà soltanto quando Zardini non darà più segno di vita. A questo punto accade qualcosa di paradossale. Mentre Gerry si dà alla fuga, gli avventori del locale, invece di prestare soccorso all'italiano, lo sollevano e lo trasportano sul marciapiede. E lo lasciano là. Solo dieci minuti dopo chiamano un'ambulanza. I soccorsi sono inutili. Alfredo Zardini è morto solo, come un cane, fra atroci sofferenze.
La salma dell'italiano fu fatta partire tre giorni dopo per la sua città natale. La stampa svizzera romanda (ma solo due giorni dopo) riportò il gravissimo episodio di Zurigo, sottolineando la gravità del fatto che il carpentiere italiano fosse rimasto abbandonato per strada dopo essere stato percosso a morte. Il quotidiano ginevrino "Courier" scriveva: "Inutile farsi illusioni. La Svizzera è, per una parte più grande di quanto non lo si ammetta malata di razzismo". E il "Journal de Genève": "Gesù vede, seduto sul ciglio di una strada, un uomo piangente. Cosa posso fare per te? gli domanda. Sono svizzero, gli risponde l'uomo. Ahimé, risponde il Cristo sedutosi accanto al poveretto, e allora per te non posso proprio far nulla. L'antica leggenda non lo dice, ma quello svizzero era proprio uno come noi. Come sarebbe bello se potessimo dire: soltanto uno di noi!".
Cantava Trincale:

E siete zingari, voialtri italiani,
sentiva dirsi da gente straniera,
siete randagi in cerca di pane ...

C'è ogni giorno un treno alla stazione
che per l'inferno ha la destinazione,
dell'emigrante questa è la sorte:
va in cerca di lavoro e trova morte.

I canti che seguono sono tratti da "Qui tutto bene ... e così spero di te", di Vittorio Franceschi, con musiche dell'autore e di Enzo Del Re. Uno spettacolo teatrale, con le indicazioni per la realizzazione scenica, rappresentato in prima assoluta a Neuchâtel, in Svizzera, poi portato in Benelux e altrove.

(Nel buio, il rumore prima lontano poi sempre più vicino, forte e ossessionante, di un treno. Su questo rumore, registrato, dal vivo altri rumori-ritmi d'accompagnamento come scaturissero da strumenti scordati o, fonti sonore non convenzionali. Su tutta la scena viene proiettato un filmato che mostra la partenza di un treno carico di emigranti. Mani che salutano, fazzoletti. I rumori lentamente si affievoliscono e così le immagini filmate che lentamente scompaiono mentre dietro un reticolato si intravedono ombre, figure umane, immobili. Si leva un canto, prima lontano poi sempre più forte).

CANTO.

Povera gente ...
vengono dal paese mio
due giorni e una notte
in treno ...
Sempre in treno
le valigie di cartone
i figli, la moglie
e 'sta creatura appena nata
che vomita tutto quello che ha mangiato
e qualche volta arriva già morta ...
Povera gente ...
arrivano a Torino
alla stazione c'è il solito imbroglione
che li ingaggia nella carovana
manovale, sterratore,
12 ore senza contratto,
giornaliero, un quinto al procuratore,
dormitorio: in quaranta
300 lire a letto
la mutua nemmeno li paga
lavorare tanto per campare
per non morire ...

Povera gente ...
vengono dal paese mio
un mese, due mesi: finito!
Torna al paese
col foglio di via!
Ma che ci torno a fare?
In questo paese
non c'è nessuno:
un vecchio, due donne
un prete, una capra
e un cane ...
Piglia il treno!
Addio, amore ...
In Svizzera c'è lavoro!
Herrià ià
herrià ià
herrià ià!

In Svizzera: in un cantiere!
In Germania: alla ghisa!
In Belgio: in galleria!
Scoppia la mina!
Che disastro!
Sono 50, 70, 100!
Tutti emigranti!
Muoiono come mosche
questi emigranti!
LA MINA!! LA MINA!!

(Si ode un urlo disumano. Su quel grido s'accende si colpo la luce al centro della scena dov'è ricostruita, ma non realisticamente, una baracca. Luce solo per pochi istanti, il tempo di vedere un emigrante seduto sul letto, la bocca spalancata e gli occhi sbarrati. Contemporaneamente, furioso il latrare di cani a sostituire i rumori di prima. La luce si spegne di colpo. Scompaiono le figure immobili, scompare il latrare dei cani. Per pochi istanti si ode un dolce cri-cri di grilli. Poi, un secondo grido. Luce di nuovo: ora su ognuno dei tre letti c'è un emigrante seduto. I due emigranti che si sono alzati per ultimi guardano l'emigrante pazzo, che è ancora seduto, bocca spalancata ed occhi sbarrati). ( ... )
(L'emigrante pazzo ride in modo incontrollato, isterico. Gli altri emigranti, insieme, buttano all'aria le coperte e si siedono sul bordo del letto, protesi vero il pazzo che ora parla cantilenando.

EMIGRANTE PAZZO.

Maria, apri la porta
che arriva il vaglia.
Maria apri la porta
che arriva il vaglia.
Ho detto al vaglia che partiva
bacia Maria per me
dille di stare allegra
il Console m'ha detto
che i cani poliziotto
mordono solo gli spagnoli.
Quindi tutto bene
quindi tutto bene
quindi tutto bene
e così spero di te.

Maria, apri la porta.
E' quasi primavera
hai pagato il salumiere?
E' quasi primavera
come stanno i bambini?

Ridi Maria, è quasi primavera.
Centomila casse di birra
entreranno dalla porta
per darti la "Buona Pasqua".
In una di quelle casse
Maria, ci sono io.

Maria, puoi aprire la porta
fai entrare le casse
apri quelle casse, Maria,
son solo centomila.
In una di quelle casse, Maria,
ci sono io.

Ho detto alle casse che partivano
siate gentili con Maria
a lei non piace la birra
ma fatevi aprire lo stesso
altrimenti come farà a trovarmi?

Maria, apri la porta
fai entrare il vaglia
le casse, la primavera.
Maria apri la porta
fai entrare tuo marito.

(Si ode nuovamente il latrare furioso dei cani).


MARIA.

Ho aperto la porta al vaglia, Vincenzo.
Ho aperto la porta al vaglia.
Il vaglia mi ha dato un bacio
da parte tua.
E dalla porta aperta
tutto il paese ha visto questo bacio.

Allora il farmacista e il salumiere
hanno bussato a tutte le porte.
Tutto il paese è venuto alla finestra.
I bambini correvano: "Evviva il vaglia!"
I vecchi salutavano con la mano.
La banda ha intonato l'inno
"Quando arriva il vaglia in paese"
e Rosina ha partorito un maschio.
Gli metterà il nome del postino
che ha portato il vaglia.

Ho aperto la porta al vaglia, Vincenzo.
E subito il panettiere mi ha consegnato il pane
e subito ho comprato le scarpe al bambino
e subito il prete ha detto una messa.
E al suono della banda
tutto il paese si è radunato in piazza
e il sindaco ha deciso
che si farà un monumento al vaglia.
Lo pagheremo noi, famiglie d'emigranti
così vi sentiremo più vicini.

Ho aperto la porta al vaglia, Vincenzo.
Ho aperto la porta al vaglia.
Quindi tutto bene
quindi tutto bene
quindi tutto bene
e così spero di te.

(Buio. Quando la luce si riaccende, vediamo sulla scena una folla di paese, che al ritmo di un banditore, come destata dal sonno, dà vita a una sorta di processione grottesca dove si mescolano l'elemento profano e quello religioso. Il pazzo è in proscenio e la processione deve apparire come una proiezione della sua mente).


BANDITORE.

Il vaglia!
E' arrivato!
Aprite le finestre
spalancate le porte
scoprite i monumenti
inaugurate le lapidi
correte, spose
chiamate i bambini!
Campane, suonate!

Ridete, vecchi!
Slegate le capre, i porci, le vacche!
Popolo del paese!
Superstiti del paese!
Uscite dalle tane
lasciate cadere
la secchia nel pozzo
oggi si beve birra! Birra! Birra!

Il vaglia!
E' arrivato!
Aprite le banche
spalancate i cuori
slegate la banda
intonate l'inno.


FOLLA.

Quando arriva il vaglia in paese
tutte la gente corre per le strade
tutte le donne gridano: anch'io!
tutte le donne: anch'io l'ho ricevuto!

Oggi è giorno di vaglia! Gloria!
Oggi i figli mangiano carne! Gloria!
Oggi ridono i negozianti! Gloria!
Oggi le culle traboccano! Gloria!

Gloria al vaglia
che puntella
le nostre mura
pericolanti
che accende i camini
da tempo spenti
che accarezza
le mogli nel sonno
non c'è uomo più uomo
del vaglia!
Sacro per tutti è il vaglia
ma soprattutto per l'economia
tornano le rimesse
al posto dei parenti che son via.
Viva l'Italia!

Viva l'Italia!

Inesauribile la vena degli autori; e dovremmo aggiungere che tanta parte dei canti si deve ad autori anonimi. Anche per questo, dunque, autentica cultura popolare, patrimonio che ora si sta riscoprendo, con i suoi preziosi documenti musicali accuratamente ricostruiti; con il linguaggio recuperato come per miracolo; con la poesia ingenua, o profonda, sempre emergente dagli abissi dell'anima meridionale con le sue rabbie improvvise e perentorie, con gli slanci, con le nostalgie, con i ricordi, con un plafond drammatico di memoria greca, con la semplicità patetica; ma anche con le sue maledizioni, con gli anatemi, con la rattenuta violenza di una disperazione senza nome. Scrive Piazza, traducendo dal dialetto i versi cantati da Rosa Balistreri:

Maledetto il momento
che aprivo gli occhi in terra
in quest'inferno.

Quanti anni di tormento
con il cuore sempre in guerra
notte e giorno!

Terra che non senti
che non vuoi capire
che non dici niente
vedendomi morire.

Terra che non tieni
chi non vuole partire
e non gli dai niente
per farlo tornare.

E piangi
ninna oh!
E piangi
ninna oh!

Maledetta questa condanna
che t'inchioda sopra la croce
della speranza!
Maledetto chi t'inganna
promettendoti la luce
e la fratellanza!
Terra che non senti
che non vuoi capire
che non dici niente
vedendomi morire.

Terra che non tieni
chi vuole partire
e non gli dai niente
per farlo tornare.

E piangi
ninna oh!
ninna oh!

(1) Savona - Straniero, Canti dell'emigrazione, Garzanti, p. 105.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000