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Quanti Sud?
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Dualismo territoriale all'interno del Mezzogiorno |
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Dario
Giustizieri
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Un'analisi delle
contraddizioni che l'intervento pubblico ha creato nelle regioni meridionali:
allo storico "fossato" tra Italia meridionale e settentrionale,
si sommano i "solchi" dentro l'area meno favorita.
Ad osservarlo con
occhio attento, il Mezzogiorno si presenta molto meno omogeneo di quanto
potesse apparire ai padri della Questione Meridionale: ciò è
dovuto in massima parte allo sviluppo squilibrato che la politica d'intervento
straordinario non poteva non creare. Esistono anzitutto differenze fra
le re. gioni, e per metterle in luce occorre fare ricorso a indicatori
quantitativi delle condizioni di vita, diversi dai misuratori abituali
del mercato del lavoro e della contabilità nazionale. L'esame
degli indicatori vede quasi sempre in coda la Calabria e la Basilicata,
regioni nelle quali sono particolarmente accentuati il tasso di analfabetismo,
il quoziente nati-mortalità, e gli indicatori di carenza di servizi
abitativi. Segue subito il Molise: le tre regioni hanno avuto nel ventennio
1951-1971 il più cospicuo deflusso di popolazione verso, l'estero
o verso il Centro-Nord, e presentano, secondo le valutazioni dell'Istat,
il più basso livello di reddito per abitante. In una posizione
relativamente migliore appaiono invece gli Abruzzi e la Sardegna, cui
tende ad affiancarsi la Puglia, mentre Sicilia e Campania occupano in
media una posizione più centrale. Notevoli trasformazioni sono
certamente avvenute in tutte le regioni, anche in quelle del fanalino
di roda. Una ricerca compiuta da R. Guarini ("Divario economico
e sviluppo demografico delle regioni italiane"), per stimare il
contributo allo sviluppo del reddito apportato dai miglioramenti qualitativi
del fattore lavoro, ha trovato valori normalmente superiori alla media
nazionale per quanto concerne il grado di istruzione delle forze di
lavoro (contributo che supera il livello del 20% della variazione media
annua del reddito nelle regioni di coda) e la composizione in termini
di prestazione professionale (più quadri dirigenziali e più
lavoratori in settori meglio retribuiti). Per quest'ultimo carattere,
il contributo diventa negativo per la Campania, nella quale - si deve
probabilmente dedurre - si sono verificati fenomeni di degradazione
del fattore lavoro. Al tempo stesso, emerge un positivo apporto derivante
dalla concentrazione degli occupati nelle età centrali, più
efficienti e meglio retribuite, in una misura che solo per la Sardegna
è superiore alla media nazionale. Si può dedurre da questi
dati che anche nel Sud si è verificato il processo di segmentazione
del mercato del lavoro, per la tendenza delle imprese ad assorbire in
prevalenza forze di lavoro, giovani e possibilmente di sesso maschile. Pur nella provvisorietà
e incertezza dei giudizi che gli indicatori "oggettivi" autorizzano,
è confermato che le province più depresse sono o zone
interne svantaggiate dalla montagna, o zone agricole a carattere estensivo,
con limiti soprattutto dal punto di vista dell'irrigazione. Così,
i divari interni al Sud tendono ad ampliarsi: le zone svantaggiate non
ricevono apporti dai settori produttivi moderni, che non vi immigrano
per mancanza di convenienza, e sono ugualmente allargati dalla crisi
dell'agricoltura e delle altre attività tradizionali (soprattutto
l'artigianato), che cedono su tutta la linea. Al contrario, nelle aree
pianeggianti o irrigate sono state create strutture produttive efficienti
per l'utilizzazione delle risorse, tra cui quella del lavoro a basso
prezzo. Le conclusioni che si possono trarre sono queste: l'industrializzazione
si sviluppa in tutte le aree senza creare lavoro addizionale, forse
proprio perché le grandi imprese schiacciano le piccole, e le
industrie moderne, emarginano le attività industriali e artigianali
di tipo tradizionale.
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