Risponde
un eminente meridionalista, il professor Pasquale Saraceno, presidente
della Svimez, membro dei Consiglio di Amministrazione della Cassa per
il Mezzogiorno, e consigliere economico dell'Iri.
Il nuovo meridionalismo
delineatosi nell'immediato dopoguerra si caratterizza per quattro
posizioni: l'industrializzazione va avviata subito; lo sviluppo agricolo
va intensificato, investendo soprattutto nell'irrigazione; l'eliminazione
del divario è problema non regionale ma di modifica della struttura
dell'economia italiana; nell'area meridionale occorre effettuare un
intervento straordinario in più campi coordinati in una sede
ad hoc.
Esaminiamo brevemente le quattro posizioni:
a) Industrializzare subito: non vi sono certo più divergenze
di opinione sull'urgenza dell'industrializzazione meridionale; e se
si considera la gravità delle tensioni odierne deve giudicarsi
un grave errore non aver preso misure atte a contenere negli anni
'50 la concentrazione degli investimenti industriali in Piemonte e
in Lombardia, promuovendo fin da quegli anni lo sviluppo industriale
del Mezzogiorno.
Il problema della intensificazione degli investimenti industriali
nel Mezzogiorno non si pone oggi in termini diversi da quelli di allora:
occorre ottenere, come allora, che la quota più rilevante possibile
degli investimenti industriali del Paese abbia convenienza ad effettuarsi
al Sud. Non ha quindi senso discriminare tra impianti grandi e impianti
piccoli e medi, tra impianti ad alta intensità di capitale
e impianti ad alta intensità di lavoro, ,tra impianti che applicano
tecnologie avanzate e impianti che applicano tecnologie tradizionali,
tra impianti che inquinano e impianti che non inquinano.
Se determinati tipi di impianto - ad esempio gli impianti di media
e piccola dimensione, oppure quelli ad alta intensità di lavoro,
oppure ancora quelli dotati di tecnologie avanzate - in genere non
si localizzano nel Mezzogiorno, segno è che le varie azioni
fin qui intraprese per rendere convenienti le localizzazioni meridionali,
in primo luogo la politica degli incentivi, sono state manchevoli
nei. riguardi appunto dei settori che non sono attratti dalle ubicazioni
meridionali. Sono quelle manchevolezze che vanno identificate e ad
esse si deve porre riparo. Indipendentemente da questo fatto, possono
esservi settori per i quali gli incentivi sono eccessivi; ed in tal
caso essi vanno ridotti. Quanto agli impianti inquinanti in misura
non ammissibile, essi non vanno consentiti né nel Centro-Nord
né nel Mezzogiorno. Va in ogni caso tenuto presente che il
sistema degli incentivi surroga la protezione doganale; esso andrebbe
quindi differenziato in relazione alla varia natura dei processi che
si vogliono rendere convenienti nell'area meridionale. E invece noi
abbiamo ancora un sistema praticamente indifferenziato che può
creare rendite per talune produzioni, mentre è insufficiente
per altre.
L'odierno meridionalismo facilone che scopre oggi il ruolo delle piccole
e delle medie industrie ad alto impiego di lavoro dovrebbe piuttosto,
abituarsi all'idea che l'industrializzazione del Mezzogiorno richiede
capitali molto più rilevanti di quello che è stato possibile
destinarvi fino ad ora.
Proprio l'assimilazione dell'incentivo alla protezione doganale ci
permette di dare un giudizio sulla congruità del sistema oggi
vigente. Da tempo si è infatti mostrato che il valore economico
della protezione consentita dagli incentivi è inferiore a quello
della protezione doganale al cui riparo è sorta l'industria
delle regioni nord-occidentali del Paese. E notisi che quella industria
ha fruito di altri benefici: i profitti straordinari consentiti dalle
commesse belliche conseguenti alle due grandi guerre e poi il pratico
annullamento dei debiti delle imprese reso possibile dalle due inflazioni
postbelliche. E ciò non è neppure bastato: peril sostegno
del sistema industriale che si andava formando sono infatti occorsi
anche i ripetuti salvataggi industriali effettuati nel ventennio tra
le due guerre, un tipo di intervento che è poi continuato anche
dopo l'ultima guerra, con un ritmo e per entità che non trovano
esempi nel resto del mondo occidentale. A fronte di questa vicenda
si collocano i 1.100 miliardi, in lire 1972, di contributi in conto
capitale impegnati e ancora in parte non erogati all'industria meridionale
a tutto il 1974. Si tratta di un importo probabilmente minore dei
sopraprofitti di una sola delle due guerre conseguiti dalle industrie
del triangolo; lo stesso può dirsi per ciascuna delle due inflazioni
belliche di cui hanno beneficiato gli investitori in impianti industriali
del tempo che, come era normale, si fossero largamente finanziati
con prestiti bancari.
Non vi è modo ovviamente di procedere a valutazioni anche approssimate
di tali benefici. Questa possibilità esiste però nei
riguardi dei salvataggi bancari: la perdita assunta dallo Stato a
seguito dei salvataggi bancari effettuati dopo la prima guerra mondiale
fino all'operazione di risanamento effettuata dall'Iri nel 1934 è
stata valutata in 10,5 miliardi del tempo (1), importo che si può
far corrispondere a 1.400 miliardi del 1972. I contributi in conto
capitale dati all'industria meridionale durante tutto l'intervento
straordinario, ammontanti come detto sopra a 1.100 miliardi, sono
dunque inferiori al costo dei soli salvataggi bancari, un costo, notisi,
sopportato da una economia italiana certo molto più povera
di quella odierna.
b) Intensificare lo sviluppo agricolo: dopo l'inizio dell'intervento
straordinario, la produzione agricola è aumentata nel Mezzogiorno
a un saggio del 50% superiore a quello del Nord; il Mezzogiorno, in
una situazione di clima e di terreno certo meno favorevole di quella
del resto del Paese e grazie specialmente all'intervento compiuto
nel campo dell'irrigazione, giunge oggi a fornire più del 40%
della produzione agricola nazionale. Nello stesso periodo, la forza
di lavoro agricolo è diminuita da 3,5 milioni di unità
all'inizio dell'intervento a 1,7 milioni di oggi; Il Mezzogiorno è
però ancora lontano da una situazione di pieno impiego e ciò
mostra quanto la tesi industrializzare subito non implicasse, come
invece si pretende, una scelta contro l'agricoltura.
Quanto agli sviluppi futuri, va tenuto presente che la Cassa ha costruito
invasi e altre opere di captazione per 5,6 miliardi di metri cubi,
di cui 4,1 miliardi utilizzati: una metà circa per l'irrigazione,
il resto per usi potabili e industriali. E poiché un altro
miliardo di metri cubi si renderà utilizzabile nel corso del
triennio 1976-78, si prevede che a seguito di opere già compiute
o in corso di ultimazione si possa contare, per il prossimo futuro,
su una disponibilità addizionale di acqua pari al 50% di quella
già utilizzata. Se si tiene conto che nel Mezzogiorno vi è
una forza di lavoro agricolo ancora utilizzabile non certo grande
ma superiore a quella del CentroNord, si può ritenere che,
proseguendo l'intervento straordinario, la produzione agricola meridionale
continuerà ad aumentare, ove non manchi una politica agricola
efficiente, a un tasso superiore a quello prevedibile per il Centro-Nord.
Questa prospettiva dà fondamento a valutazioni, sia pure di
grandissima approssimazione, secondo le quali, per effetto anche dell'andamento
mondiale dei prezzi agricoli, l'intervento nell'irrigazione, e in
genere in agricoltura, effettuato dalla Cassa è il più
conveniente tra tutti i grandi investimenti di settore effettuati
nel nostro Paese nel trentennio postbellico; un investimento dunque
fuori dall'area del miracolo ed estraneo alle leggi del miracolo.
c) L'eliminazione del divario è problema non regionale ma di
modifica della struttura dell'economia italiana: all'inizio dell'intervento
straordinario viveva nel Mezzogiorno il 37-38% della popolazione italiana
e vi si localizzava il 60-65% del suo incremento; provvedere ad una
quota così rilevante della nostra popolazione e del suo incremento
non poteva costituire soltanto un sia pur gravissimo problema locale.
Era l'intero meccanismo di sviluppo del nostro Paese che andava modificato.
Non si richiedeva quindi solo che nelle regioni meridionali venisse
svolta un'azione di grande portata; occorreva anche che le politiche
generali (ad esempio, la politica creditizia o quella fiscale) e le
stesse misure rivolte a particolari aree del Centro-Nord (ad esempio,
la politica degli incentivi) fossero conformi o quantomeno non in
contraddizione con la politica meridionalistica.
A proposito delle politiche non specifiche all'area, molto vi sarebbe
da dire, in questa sede ci si limita a ricordare che il meridionalismo
fu, dal primo momento, europeista, in considerazione del fatto che
la minor protezione doganale di cui avrebbe fruito la futura industria
meridionale per effetto dell'integrazione sarebbe stata più
che compromessa dall'impulso addizionale dato allo sviluppo italiano
da tale integrazione e alla possibilità di localizzarne una
quota rilevante nel Mezzogiorno. Come è noto, questo impulso
addizionale si verificò; mancò invece, salvo che per
la siderurgia e la petrolchimica, una diffusione al Sud dell'industria
di nuova localizzazione. E' poi da dire che la mancata accettazione
all'interno della concezione meridionalista del nostro sviluppo, rese
debole la nostra azione a Bruxelles in senso regionalistico; solo
con l'ingresso della Gran Bretagna nella Comunità ebbe un primo
avvio, a ben sedici anni dalla firma del Trattato di Roma, la politica
regionale comunitaria.
d) L'intervento straordinario: si ritiene che, l'intervento straordinario
fosse imposto da tre circostanze: dar luogo ad una spesa pubblica
aggiunta alla spesa ordinaria, garantire la copertura della spesa
per un periodo poliennale, coordinare in una sede ad hoc una molteplicità
di azioni da svolgersi in campi diversi.
L'intervento straordinario è ovviamente, per sua natura, di
carattere temporaneo; la sua utilità può cadere per
due ordini di motivi: perché l'area meridionale ha raggiunto
un grado di omogeneità con il resto del Paese tale da rendere
superfluo il complesso di azioni comprese nell'intervento straordinario,
oppure perché tali azioni possono essere svolte da altri organi.
Non è certo
nella prima situazione che ci troviamo oggi: l'eliminazione del divario
non solo economico esistente tra il Mezzogiorno e il resto del Paese
è operazione oggi più ardua che nell'immediato dopoguerra;
occorre quindi continuare a garantire al Mezzogiorno un afflusso straordinario
di risorse. Quanto alla seconda possibilità - l'intervento
straordinario può essere effettuato in altre sedi - va ricordato
che il problema si poneva già all'atto in cui si riteneva possibile
passare a un ordinamento basato su un programma. L'idea che il passaggio
a un'azione programmata rendesse superfluo l'intervento straordinario
venne allora respinta dai meridionalisti; si osservò al riguardo
che se l'intervento straordinario è imposto dal fatto che nelle
sedi ordinarie le esigenze della parte più debole del Paese
non riescono ad affermarsi nei riguardi degli interessi della più
forte, non si vede come un simile rapporto di subordinazione a danno
della parte più debole non debba costituirsi anche in sede
del nuovo tipo di azione ordinaria costituito dalla programmazione.
La possibilità che per la prima volta nella storia del nostro
Paese questa subordinazione non avesse luogo andava per lo meno verificata
in base a una prima esperienza di azione programmata, doveva quindi
essere respinta l'idea che, per il solo fatto di aver creato un organo
per la programmazione - o più precisamente di averci pensato
- la questione meridionale sarebbe stata automaticamente avviata a
soluzione con la sola azione ordinaria. L'esperienza compiuta ha dato
fin troppo ragione, come era da attendersi, alla posizione presa dai
meridionalisti.
Il problema si ripropone oggi a seguito dell'attuazione dell'ordinamento
regionale. E' ovvio che l'intervento straordinario, le cui connotazioni,
del resto, sono già molto cambiate nel corso del venticinquennio
trascorso dal suo inizio, non può non mutare per il semplice
fatto che esiste l'ente regione; tale mutamento è del resto
già in corso. Ci si deve però domandare: per il solo
fatto che esiste l'ente regione e tenuto conto delle strutture che
esso oggi possiede, l'intervento straordinario centralizzato può
essere sostituito da una serie di azioni ordinarie svolte da ciascuna
regione nel territorio di propria competenza? Oppure in ogni regione
si avrà una azione ordinaria e una straordinaria? E la determinazione
dell'ammontare dell'intervento straordinario, concepito come spesa
addizionale rispetto a quella ordinaria, come e dove verrà
effettuata? Come evitare che anche quello 0,50% del reddito nazionale
che è destinato all'intervento straordinario anziché
essere aumentato, come e necessario, svanisca nella moltitudine delle
amministrazioni centrali e periferiche attraverso le quali si svolge
l'azione ordinaria? Si rinuncerà alla presenza in sede di governo,
con il ministro per il Mezzogiorno, di una voce distinta che faccia
presente in ogni momento che le leggi di sviluppo del Mezzogiorno
sono radicalmente diverse da quelle del Centro-Nord, e ottenga che
le azioni in corso nel Sud non siano neutralizzate, come è
avvenuto in passato, da altre azioni? Altre domande potrebbero essere
proposte riguardo al rapporto intercorrente tra ordinamento regionale
e intervento straordinario; le poche ora enunciate sono però
sufficienti per rilevare che non si può, in nome del regionalismo,
così come non si poteva in nome della programmazione, eludere
le questioni sollevate dalla eventuale cessazione dell'intervento
straordinario.
Il fatto è che carattere temporaneo va attribuito non genericamente
all'intervento straordinario nel suo complesso, ma a una serie di
azioni che nella situazione data si ritiene debbano essere coordinate
in una sede centrale a titolo straordinario; non ha quindi molto senso
discutere, in astratto, dell'abolizione o della continuazione dell'intervento
straordinario; ciò che importa è accertare quali azioni
non si giustificano più in quella sede e se nuove azioni vi
vanno inserite.
Si consideri il caso nelle aree di particolare depressione: questa
azione ha condotto la Cassa ad approvare oltre 5.000 progetti per
un importo medio dell'ordine di circa 70 milioni; non si comprende
proprio per quale considerazione questa grande massa di lavoro debba
essere decisa da Roma e non dalle sedi regionali; in questo campo
non vi sono certo esigenze di coordinamento o di altra natura, soddisfacibili
in una sede centralizzata, meglio che presso le regioni. E' vero probabilmente
il contrario da chi non neghi, come, salvo errore, non si deve negare
alle regioni, la capacità tecnica e amministrativa di compiere
l'intervento in questione.
Altra attività che beneficerebbe di un decentramento regionale
è quella della formazione, specie nel campo manageriale; si
giustifica sempre meno che da Roma si debba giudicare di corsi che
si tengono in gran parte nei capoluoghi di regione e che hanno un
diretto interesse per i processi di industrializzazione in corso o
sperati nelle varie aree. In una sede centrale potrà essere
eventualmente svolta un'attività di organizzazione, di scambi
di esperienze e di acquisizione di competenza non disponibili nel
complesso delle regioni.
E che dire del fatto che proprio in questi mesi ci si attende che
l'attività della Cassa, addirittura si espanda nel campo delle
costruzioni ospedaliere, cioé in uno dei campi dove l'assunzione
di compiti e di responsabilitá da parte delle regioni è
in uno stadio più avanzato?
Che l'estensione dell'intervento straordinario vada per così
dire storicizzato in riferimento al rapidissimo variare della situazione
e non vada semplicemente discusso in termini di "intervento si
- intervento no", è indicato dai seguenti dati sull'attività
della Cassa nel triennio 1972-75, successivo alla legge 853 del 1971.
Gli impegni assunti dalla Cassa sono passati, in moneta costante 1972,
da 804 miliardi nel '72 a 1.220 nel '74, con un incremento di quasi
il 30%. Il meridionalismo turistico degli inviati speciali della stampa
padana non si dà certo cura di rilevare questi fenomeni ai
fini di un esame serio della questione, non va invece dimenticato
che la Cassa ha raggiunto una capacità di azione direi unica
nella nostra sfera pubblica. Questa constatazione genera due rilievi
in un certo senso opposti: da un lato, non disperdere una struttura
la cui attività è capace di un simile ritmo di espansione;
d'altro lato, non perdere occasione per alleggerirla di compiti che
l'ordinamento regionale non giustifica più e che possono addirittura
essere svolti da parte della regione in modo più aderente alle
esigenze delle singole aree componenti la complessa realtà
meridionale
Non è però questa la sede per un esame sistematico di
questo genere di reali questioni; sia solo consentito osservare ancora
che in un Paese che ha dato così meschina prova di sé
in tema di programmazione nazionale, non si è ancora iniziata
una ricerca sistematica dei motivi di un simile fallimento e dei criteri
con cui riprendere la costruzione di uno strumento di cui oggi riconoscono
la necessità; e invece si propone di sopprimere l'unica sede
in cui un'azione coordinatrice si svolge da tempo, sia pure con risorse
inadeguate e soprattutto senza il necessario complemento di una politica
generale che, come detto sopra, eviti di neutralizzare gli effetti
che ci si attendevano dall'intervento straordinario. E non si può
non rilevare che è stato solo quando si è prospettata
l'opportunità di far cessare tale intervento che si è
manifestato un interesse per il Mezzogiorno da parte del meridionalismo
d'accatto della stampa centro-settentrionale.
In conclusione, se le posizioni caratterizzanti il meridionalismo
postbellico sono quelle indicate in principio, permane la validità
di quel sistema di pensiero; e non si vede proprio su quali basi si
parli oggi di meridionalismo in crisi, di rilancio della politica
meridionalista, di svolta da compiere, ed altro. Il fatto è
che la concezione meridionalista dello sviluppo italiano non è
stata, è vero, contestata; è stata solo ignorata. E
il nostro sviluppo si è svolto nel modo di sempre, nel senso
che il modello di sviluppo della parte più forte del Paese
viene identificato con il modello di sviluppo del Paese intero: la
questione meridionale si presenterà poi come una questione
residua nei cui riguardi si vedrà quali misure prendere. E
a questo riguardo non si può non rilevare che da molte parti
si chiede di cambiare l'attuale modello di sviluppo; salvo errore,
non si precisa mai che si debba passare a un modello di sviluppo che,
in primo luogo, prosegua sistematicamente l'unificazione economica
e sociale del Paese, si adotti cioè il modello di sviluppo
proposto dai meridionalisti.
2 - L'intervento
straordinario nella situazione attuale
Primo tra i nuovi
impegni dell'azione meridionalista è oggi quello di adeguare
le risorse dell'intervento straordinario al fenomeno dell'inflazione.
Invero, non si tratta di un impegno nuovo: il moto di aumento dei
prezzi ha caratterizzato tutto il periodo venticinquennale lungo il
quale si è svolto l'intervento; quindi esso si è sempre
concentrato in un valore reale inferiore a quello del momento in cui
il Parlamento assegnava i fondi e quindi esprimeva la volontà
politica di effettuare azioni corrispondenti al valore economico della
moneta nel momento in cui si effettuavano le assegnazioni. Durante
tutti i 25 anni dell'intervento straordinario vi è stata insomma
una continua "tosatura" delle risorse utilizzabili per le
azioni poi effettivamente intraprese. Le grandi e certo giuste battaglie
fatte sul tema della contingenza avrebbero legittimamente potuto prendere
congiuntamente in considerazione le risorse assegnate alla Cassa,
risorse il cui utilizzo, in sostanza, si risolve in gran parte, in
retribuzione diretta e indiretta di lavoro meridionale.
Il fenomeno inflazionistico ha però assunto dopo il 1972 una
tale rilevanza da incidere gravemente sulla portata, già grande,
dell'intervento. Basti pensare che il valore reale delle assegnazioni
alla Cassa disposte dalla legge 6 ottobre 1971, n. 853, era ridotto
di un terzo alla fine del 1974, e si ridurrà ulteriormente
all'atto in cui, con l'avanzamento delle opere, si utilizzeranno,
nei prossimi anni, le somme che il Tesoro verserà alla Cassa.
L'inflazione finisce così per divenire un modo (che erroneamente
si suppone indolore) per, ridurre l'intervento straordinario e rendere
possibile di utilizzare altrove le relative risorse. Certo non èfenomeno
che abbia interessato l'enorme letteratura prodotta nel nostro Paese,
da due anni a questa parte, sul tema dell'inflazione; converrà
quindi ricordare che, secondo prime valutazioni, occorrerebbe assegnare
alla Cassa tra 2.500 e 3.000 miliardi se si volesse mantenere il valore
reale delle assegnazioni fatte dalla legge 6 ottobre 1971, n. 853,
per tutto il tempo occorrente per condurre a termine le opere finanziabili
con quella legge.
Altro impiego che sotto molti riguardi si presenta come sostanzialmente
nuovo è quello costituito dai "progetti speciali".
Si tratta, invero, di un istituto introdotto fin dal 1971, con la
legge 853; solo con ritardo e in modo non molto chiaro una direttiva
è stata data al riguardo, e solo ora il nuovo istituto comincia
a dar luogo a flussi di investimenti; è da augurare che la
nuova legge di finanziamento dell'intervento straordinario per il
periodo 1976-80 lasci che questa prima esperienza cominci a dare i
suoi frutti e non annulli il difficile lavoro di chiarimento e di
progettazione fin qui compiuto introducendo nuove denominazioni, trasferendo
competenze e. mutando, e non mai precisando, i contenuti del nuovo
istituto. Opportuno sarebbe piuttosto, nel dibattito che continua
a svolgersi intorno ai progetti speciali, cominciare a fare un pò
di conti e identificare i modi con cui coprire l'ingente fabbisogno
di capitale richiesto dai progetti speciali per un importo di 370
miliardi; il 1974 è stato però il primo esercizio in
cui gli impegni per progetti speciali hanno assunto una certa consistenza.
Prime, previsioni sulla somma impegnabile per i progetti già
decisi sembrano indicare un fabbisogno dell'ordine di 7.000 miliardi
attuali. Se altri progetti venissero deliberati dalle superiori Autorità,
il fabbisogno risulterà corrispondentemente accresciuto; va
poi tenuto conto del saggio di inflazione e del fabbisogno comportato
da quel tanto di intervento straordinario che non verrà trasferito
alle regioni.
Problemi nuovi per l'azione meridionalista sono poi sorti negli scorsi
mesi a seguito dell'inizio, da parte della Cee, di una politica regionale.
Al nostro Paese è stato assegnato il 40% delle risorse di cui
il Fondo regionale di sviluppo potrà disporre nel triennio
1975-77; noi potremo quindi ottenere nel triennio una somma che è
variabile, a seconda dell'andamento dei cambi, ma che non dovrebbe
essere minore di 75 miliardi nel 1975, e di 125 miliardi nel 1976
e nel 1977.
Data l'esistenza della Cassa, il nostro Paese è da ritenere
in grado di presentare progetti atti ad acquisire dette risorse senza
ritardi rispetto ai tempi in cui esse si renderanno esigibili. Di
altra natura e ben più gravi sono però i problemi sollevati
dall'inizio, da parte della Cee, di un'azione volta a ridurre i rilevanti
divari esistenti tra le regioni della Comunità. Proprio l'esperienza
da noi compiuta nel Mezzogiorno indica che il trasferimento di fondi
dalle aree ricche alle aree povere (trasferimento che del resto non
potrà mai avvenire per importi rilevanti tra i Paesi della
Cee) è solo un elemento di una efficiente politica di riduzione
dei divari di sviluppo esistenti all'interno di una Comunità.
Come è indicato dall'esperienza italiana, occorre che la componente
regionale sia presente in tutte le politiche che la Comunità
è legittimata a svolgere; e la politica agricola è quella
che più richiede, quanto meno per quanto riguarda il Mezzogiorno,
un simile cambiamento di indirizzo. Molto vi sarebbe da dire sulla
necessità di passare, in campo agricolo, da azioni comunitarie
ispirate a criteri comuni alle varie aree, ad azioni che invece partano
dalla considerazione delle condizioni particolari in cui l'agricoltura
viene esercitata in ciascuna area. L'interesse vitale per il Mezzogiorno
di un simile passaggio può essere subito colto se si ricorda
che l'apertura del Mercato comune ai Paesi mediterranei mette ovviamente
l'agricoltura meridionale in una situazione particolare che non si
ritrova in nessun Paese della Comunità.
Ancora in tema di agricoltura, va peraltro osservato che l'andamento
dei prezzi mondiali dei prodotti agricoli, mentre accresce il valore
economico degli investimenti effettuati in passato dalla Cassa nel
campo dell'irrigazione, mette sotto una luce nuova la continuazione
di una tale politica. Come è ovvio, sono le risorse idriche
di più conveniente utilizzo quelle che vengono prima utilizzate;
il passaggio alle risorse meno economiche è però oggi
reso più conveniente dal miglioramento dei prezzi; una simile
politica, peraltro, implica da un lato un aumento delle disponibilità
investibili, dall'altro l'adozione di politiche capaci di determinare
un economico e rapido utilizzo delle risorse idriche che si andranno
creando.
Quanto al tema dell'industrializzazione è da rilevare preliminarmente
che, mentre la creazione delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale
è materia di intervento straordinario, tale propriamente non
é la materia degli incentivi. Sembra del tutto ovvio che il
primo elemento di una politica di industrializzazione del Mezzogiorno
si determina in sede di formulazione di una politica industriale;
ed è questa una determinazione di carattere nazionale e non
regionale; sarà infatti in quella sede che sarà chiarito
quali sviluppi conviene abbiano, sul piano nazionale, la petrolchimica
o la siderurgia o l'elettronica o altro. Seconda fase del processo
è la formulazione di una politica di incentivazione diretta
ad ottenere che gli sviluppi preconizzati abbiano effettivamente luogo
e poi che si effettuino in certe aree e non in altre. Ed è
difficile negare che anche questa azione non costituisca un capitolo
della politica industriale; sarà però un capitolo la
cui definizione vedrà tra i massimi protagonisti il ministero
per il Mezzogiorno: questo infatti deve accertare non solo che il
complesso degli incentivi abbia, come si è detto, l'efficacia
che avrebbe una sufficiente tariffa doganale, ma deve anche vegliare
che il sistema non sia vanificato da incentivi consentiti in aree
esterne al Mezzogiorno.
Conferisce carattere nazionale alla politica degli incentivi anche
il fatto che essa incide sulla politica del costo del denaro; una
politica che non può non essere unitaria rispetto all'intera
economia del Paese (2).
Consiglia di tener distinto il problema della regolamentazione degli
incentivi da quello del finanziamento dell'intervento straordinario
anche la circostanza che tale intervento si muove secondo linee prefissabili
per periodi poliennali, nell'intento di intensificare la costituzione
di certi ordini di infrastrutture. La politica degli incentivi deve
invece essere derivata da una valutazione che le non prevedibili vicende
congiunturali avranno, sul piano nazionale, sul flusso complessivo
e sulla ripartizione settoriale degli investimenti industriali; ma
qui dovrebbe aver inizio un complesso e delicato discorso sulle incertezze
nuove che sono venute a gravare negli ultimi tempi sulla industrializzazione
del Mezzogiorno, tema non costringibile nei limiti di questo incontro
(3).
N0TE
1) P. Saraceno, L' Iri, origine e ordinamenti. UTET, 1956, pag. 15.
2) Nella politica degli incentivi, oggi è affidato alla Cassa
il compito di dare esecuzione alle decisioni prese dal Cipe. L'utilità
di questa soluzione può essere dovuta anche al fatto che la
Cassa ha acquistato credito presso organismi internazionali come la
Banca Mondiale, la Banca Europea degli Investimenti, la Comunità
Economica Europea. L'avvio dell'attività della Società
Finanziaria Meridionale, se questa attività si svolgerà
secondo i criteri in elaborazione presso la Cassa, aumenterà
ulteriormente il credito internazionale dell'ente. E lo stesso effetto
potrà produrre il modo con cui la Cassa si accinge a fare da
contropartita al Fondo Regionale Europeo. Tutto ciò però
non basta per ricondurre l'incentivazione nella logica dell'intervento
straordinario; tra l'altro va ricordato che l'incentivazione degli
investimenti industriali nel Mezzogiorno dovrà continuare molto
al di là della vita della Cassa, attualmente fissata al 1980.
3) Si veda, su questo tema, il forte intervento di Novacco, presidente
dell'Iasm, al Convegno di Napoli del 13-14 marzo 1975.
Il futuro del
Mezzogiorno può dipendere dai progetti speciali (circa 480
miliardi stanziati su deliberazione del Cipe, più 324 miliardi
aggiunti dalla Cassa, per attuazione di programmi diversi e già
compresi negli impegni settoriali). Ecco come si articolano i progetti
speciali approvati fino a questo momento, (tra parentesi, in milioni
di lire, le somme impegnate a tutto il 1974, più quelle aggiunte
dalla Cassa):
I - Primo lotto funzionale del Porto-Canale industriale di Cagliari,
(17.347 milioni + 0);
II - Infrastrutture nella zona sud-orientale della Sicilia, (52.811
milioni + 38.229 milioni);
III - Disinquinamento del Golfo di Napoli, nella Regione Campania,
(28.260 milioni + 31.571 milioni);
IV/X - Produzione intensiva di carne nel Mezzogiorno continentale,
riguardante le regioni Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise,
Abruzzi e Basso Lazio, (3.519 milioni + 0);
XI - Sviluppo dell'agrumicoltura nelle Regioni Sicilia, Calabria e
Basilicata, (1.856 milioni + 0);
XII - Strada Mediana Transcollinare Aprutina nelle Regioni Marche,
Abruzzo e Molise, (21.779 milioni + 4.254 milioni);
XIII - Utilizzazione intersettoriale delle acque del fiume Tirso,
in Sardegna, (2.773 milioni + 17.170 milioni);
XIV - Utilizzazione intersettoriale delle acque degli schemi idrici
nelle Regioni Puglia e Basilicata, (184.200 milioni + 186.942 milioni);
XV - Utilizzazione intersettoriale delle acque del Bifermo, nel Molise,
(10.892 milioni + 4.950 milioni);
XVI - Approvvigionamento idrico delle isole Elba e Giglio, in Toscana,
(987 milioni + 1.596 milioni);
XVII/XVIII - Realizzazione di approdi turistici sul Tirreno meridionale
e sull'Adriatico meridionale, (4 milioni + 0);
XIX - Sviluppo agroturistico della Sila e dell'Aspromonte, in Calabria,
(1.081 milioni + 0);
XX - Valorizzazione turistica dei monti della Duchessa e dei Velino,
nel Lazio, (6.000 milioni + 0);
XXI - Sistema viario a carattere interregionale per l'integrazione
e lo sviluppo della Campania interna, (18 milioni + 5.149 milioni);
XXII - Attrezzatura dei territorio dei versante Tirrenico della provincia
di Reggio Calabria, (152.454 milioni + 33.463 milioni).
1951 - Politica delle infrastrutture
Reddito pro-capite:
122.106 lire
Occupati in agricoltura: 3.679.000 unità
Occupati negli altri settori: 2.780.000 unità
Investimenti pubblici e privati ('51-'60): 800 millardi l'anno
Consumi pro-capite: 50% della media nazionale
Emigrazione complessiva ('51-'57): 1.010.050 unità
- Della creazione
della Cassa per il Mezzogiorno De Gasperi parlò (era al suo
sesto ministero) in una conferenza stampa del 14 marzo 1950. Nel mese
di maggio iniziò il dibattito parlamentare sulla legge istitutiva,
che venne definitivamente approvata il 10 agosto. La legge portava
il numero 646: per la prima volta nella tormentata storia del Sud,
uno strumento tecnico ad alto livello avviava un tentativo di politica
meridionalistica a largo raggio. Le condizioni dei beni civili e dei
servizi sociali nelle regioni meridionali erano terrificanti: i comuni
provvisti di adeguati impianti idrici non raggiungevano neanche il
5%; ancora inferiore era il numero di centri abitati forniti di efficienti
reti fognanti; la Calabria era macinata da acque furibonde come arieti,
le fiumare maggiori (almeno 600) irrompevano nelle anguste fondovalli
distruggendo i magri raccolti; in Sardegna le paludi erano estesissime,
e l'enterite virale mieteva in alcuni centri (a Cabras la chiamavano
"la peste", e tornava con puntuali cicli annui) più
vittime della stessa malaria; in Puglia e Basilicata, in Abruzzo e
Molise, un'agricoltura di rapina, condotta su terre assetate, permetteva
solo la sopravvivenza di milioni di famiglie; in Sicilia interi paesi
si spopolavano da un giorno all'altro. La Cassa nacque in mezzo all'infuriare
della riforma agraria, quando i contadini in rivolta occupavano i
grandi latifondi; e sorse inizialmente come coronamento della riforma,
con un programma di irrigazioni, riordinamenti fondiari, bonifiche
idrauliche, in dimensioni limitate. La terra, questo dato permanente
della "lame" contadina meridionale, era al centro degli
interessi iniziali dei legislatori, i quali proposero come rimedio
alla jaquerie una distribuzione di terre per far calare la febbre,
e una serie di opere pubbliche che non lasciassero gli assegnatari
soli nel deserto delle argille meridionali.
1957 - Gli
incentivi all'industria
Reddito pro-capite:
151.499 lire
Occupati in agricoltura: 3.015.000 unità
Occupati negli altri settori: 3.571.400 unità
Investimenti pubblici e privati (1961-65): 1.880 miliardi l'anno
Consumi pro-capite: 58% della media nazionale
Emigrazione complessiva (1957-67): 2.222.368 unità
Sette anni dopo,
1957: gli assegnatari cominciano ad abbandonare in massa le terre,
l'emigrazione verso le metropoli del "triangolo industriale"
del Nord e verso i sei Paesi della Comunità Economica Europea
si avvia a diventare biblica: nel 1960-61 raggiungerà il ritmo
di un'unità ogni minuto primo. I redditi bassissimi fungono
da leva, braccia e cervelli cercano altrove una risposta alla loro
domanda di una diversa dignità umana e sociale, economica e
civile. Comincia da questo momento il riflusso' delle rimesse dall'estero,
che sarà destinato a salvare tante volte la bilancia nazionale
dei pagamenti: l'oscuro, silenzioso, duro lavoro dei meridionali (i
quali conteranno i primi morti in massa a Mattmark e a Marcinelle,
che vestiranno a lutto interi paesi del Sud) sarà troppo spesso
annientato dal massiccio rastrellamento monetario effettuato nelle
regioni meridionali soprattutto per mezzo dei sistemi di risparmio
postale e delle assicurazioni. Così, il frutto del lavoro dei
meridionali è investito a Nord, in regioni privilegiate, col
risultato che si approfondisce lo storico "fossato" tra
le due ripartizioni territoriali italiane. Anche per ovviare a questo
fenomeno, nel 1957 si fissa con la legge Cortese-Cottone, per il sistema
delle Partecipazioni Statali, l'obbligo di destinare al Mezzogiorno
il 40% dei complessivi investimenti sul territorio nazionale. Nascono
gli incentivi, che abbracciano i tre settori-chiave: agricoltura,
industria e turismo. Non mancano le speculazioni degli imprenditori
settentrionali e' di alcuni bucanieri meridionali, ma si ritiene che
siano un male necessario quanto inevitabile, almeno all'inizio di
questa nuova politica d'intervento. Spuntano i "nuclei di industrializzazione"
e le "aree di sviluppo industriale", con i primi insediamenti
di un certo respiro. E si accende la polemica sulle "cattedrali
nel deserto".
1967 - Programmare
le imprese
Reddito pro-capite:
448.103 lire
Occupati in agricoltura: 2.153.000 unità
Occupati negli altri settori: 3.949.100 unità
Investimenti pubblici e privati (1967-71): 2.500 miliardi l'anno
Consumi pro-capite: 66% della media nazionale
Emigrazione complessiva (1967-71): 183.000 unità l'anno
L'esperienza degli
incentivi rivela, numerose lacune, e va aggiornata. Ci si accorge
che nelle regioni meridionali sono scese le grandi industrie pubbliche
in forza della legge del 1957, e solo poche imprese private veramente
vitali, produttive, capaci di resistere in un'economia aperta qual'è
quella del Mezzogiorno. Molte iniziative sono sorte in virtù
delle facilitazioni, ma subito dopo si sono rivelate effimere. In
particolare, si rivela la mancanza di un saldo tessuto connettivo,
della piccola e media industria che è la struttura portante
dell'economia e dell'occupazione nel Centro-Nord. Si aggiusta il tiro:
si diffonde la consapevolezza che le iniziative per il Sud vanno calibrate
meglio, perché siano ben più efficaci. Viene formulata
a questo punto la cosiddetta "contrattazione programmata".
Visto che industrie e imprenditori privati stentano a scendere al
di qua della linea Gotica, sarà lo Stato a concordare con loro
progetti di investimenti in settori più utili sia all'espansione
economica che alla crescita dell'occupazione. A monte, c'è
anche il problema del congestionamento (industriale e urbano) delle
metropoli del Nord. In pratica, la popolazione italiana si è
andata progressivamente "meridionalizzando" con i massicci
apporti dell'emigrazione. Ci si accorge, dunque, che è preferibile
risolvere a Sud i problemi che - diversamente - si ripropongono nel
"triangolo" se non si suturano le fughe di uomini dalle
regioni meridionali. A valle, sono anche i problemi del riequilibrio
socio-economico italiano: il mancato sviluppo del Mezzogiorno può
compromettere a breve termine l'intero sviluppo nazionale nei confronti
dei partners europei, i quali (nel Borinage belga, nel Midi francese,
nello Schleswig-Holstein tedesco) stanno predisponendo complessi piani
di intervento.
1971 - Si riorganizzano
gli interventi
Occupati in agricoltura:
1.841.100 unità
Occupati in altri settori: 4.089.000 unità
Investimenti pubblici e privati: 4.180 miliardi
Consumi pro-capite: 70% della media nazionale
Emigrazione complessiva: 180.000 unità
Il Parlamento
approva la legge sul Mezzogiorno che rilancia e riorganizza l'intervento
per lo sviluppo meridionale. Vengono messi a disposizione della Cassa
per il Mezzogiorno, per il quinquennio '71-'75, complessivi 7200 miliardi
di lire, cioè una massa di capitali superiore a quella dal
1951 in poi. Nascono i "progetti speciali", cioé
programmi integrati di investimento, non limitati a settori o circoscrizioni
territoriali, da realizzare con la collaborazione di tutte le forze
produttive e con indicazioni autonome delle Regioni. Che significato
ha questa legge? Dopo aver verificato che la "centralità"
del problema meridionale non è soltanto un concetto politico,
ma una realtà pressante, si decide di fare della politica per
il Sud il cardine della stessa politica economica nazionale. Vale
a dire: il riscatto delle regioni meridionali non è un'esigenza
che si aggiunge alle altre, riguardanti il nostro progresso socio-economico,
ma si identifica con la stessa esigenza di sviluppo del Paese. A questo
sforzo l'Iri partecipa con un piano di investimenti al 1975 per 2.600
miliardi: occupazione prevista, 130.000 unità. Una certa sfiducia
nella programmazione viene controbilanciata, dal punto di vista meridionale,
dai progetti speciali approvati in questi giorni: 1.900 miliardi di
lire per l'irrigazione, 882 miliardi per opere di forestazione, precedute
dagli investimenti per il disinquinamento del golfo di Napoli, per
l'utilizzazione delle acque in Puglia e Basilicata, per il porto e
il Centro Siderurgico di Gioia Tauro, e preliminari all'attuazione
di altri progetti integrati: quello per lo sviluppo dell'agrumicoltura
(Sicilia, Calabria e Basilicata), e quello per la produzione di carne,
che coinvolgerà tutte le regioni meridionali, con programmi
d'intervento finanziabili tra il 1975 e il 1980.