Salvataggio.
Di fronte
alla minaccia che
il sistema bancario
colasse a picco,
a Mussolini non
restò che salvare
la Comit e le altre
due banche miste,
trasformandole
in istituti di diritto
pubblico. |
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Fra le misure per venir fuori dalla crisi contemplate
dai responsabili della politica economica
italiana figura anche – ma esclusivamente
in caso di emergenza – l’ingresso dello Stato nel capitale delle banche. E in
questo contesto c’è chi ha evocato quanto si
verificò in Italia all’indomani della Grande
Crisi del 1929. In realtà, anche allora le nostre
istituzioni si impegnarono a varare specifici
interventi di sostegno alle banche, salvo
poi dover includere quelle di maggiore
stazza, che non era riuscito a riportare al di
sopra di una linea di galleggiamento, nell’ambito
della sfera pubblica, in pratica nazionalizzandole.
Ma non è soltanto per questo che si riscontra
una sostanziale differenza fra i rimedi
previsti attualmente, qualora se ne presentasse
la necessità, e quelli cui si fece ricorso
negli anni Trenta del secolo scorso. Il fatto è che quella di allora fu una crisi emersa dagli anfratti dell’economia reale, dovuta innanzitutto,
sia negli Stati Uniti sia in Europa,
a un crescente squilibrio fra produzione
e consumi, e che nel nostro Paese si manifestò
tre anni prima del 1929. E ciò a causa
della manovra deflattiva attuata dal regime
fascista nel 1926 e tradottasi, oltre che in
una riduzione d’autorità dei salari e degli
stipendi, in una rivalutazione oltre misura
della lira per motivi di prestigio nazionale.
L’industria si era in questo modo trovata
alle prese con un’accentuata flessione della
domanda, con la restrizione delle commesse pubbliche e con una minore capacità competitiva
delle proprie merci nei circuiti di
mercato internazionali.
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“A chi la pioggia...a noi... !”, litografia a colori di Leopoldo Metlicovitz, nella Milano fine anni Venti. - Archivio BPP |
Se quasi immediatamente le principali banche,
dalla Commerciale al Credito Italiano
e al Banco di Roma, risentirono in modo
pesante dei guai capitati addosso alle maggiori
imprese, fu perché esse, da più di
vent’anni, provvedevano in larga parte al finanziamento industriale, anche sotto forma
di rilevanti partecipazioni azionarie. Così
che il tonfo della produzione e la frana in
Borsa dei titoli delle imprese più altolocate
finirono per coinvolgere questi tre istituti
bancari, dato che non poterono esigere il
rimborso di molti dei loro crediti, e di conseguenza
videro deprezzarsi i pacchetti
azionari in loro possesso. In pratica, il rapporto
tra banca e industria da “fisiologica
simbiosi” si era tramutato in «una mostruosa
fratellanza siamese», per dirla con Raffaele
Mattioli, all’epoca giovane dirigente
della Commerciale.
Di fatto, nel 1932 gli immobilizzi industriali
ammontavano a quasi tre volte il totale dei
depositi a vista e dei conti correnti. Per questa
ragione le condizioni sempre più precarie
di numerose aziende minacciavano non
soltanto di travolgere le principali banche
alle quali esse erano legate a doppio filo,
ma anche di far terra bruciata di una parte
cospicua del risparmio nazionale, nonostante
le sovvenzioni concesse nel frattempo
dalla Banca d’Italia agli istituti di credito
più traballanti.
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Marcello Dudovich, “La Rinascente, articoli da viaggio”, litografia a colori, 1925. - Archivio BPP |
Di fronte alla minaccia che il sistema bancario
colasse a picco, gettando sul lastrico milioni
di risparmiatori appartenenti per lo più
alla piccola borghesia, (il cui consenso era oltretutto
alla base del successo del regime), a
Mussolini non restò che far propria la soluzione
che gli era stata suggerita dai vertici
della Commerciale. Che era di salvare la Comit
e le altre due “banche miste”, di deposito
e d’investimento, trasformandole in istituti di
diritto pubblico. Ciò avvenne dopo la creazione,
nel 1933, dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione
industriale, per cui lo Stato mise a
disposizione i capitali necessari a coprire le
perdite della Commerciale, del Credito Italiano
e del Banco di Roma, e acquisì contestualmente
le loro partecipazioni industriali.
Quanto l’Iri si trovò così a ereditare non
consisteva in una massa di titoli puramente
cartacei, più o meno tossici, al modo di
quelli che nei mesi scorsi sono risultati in
pancia a varie banche negli Stati Uniti e altrove
(e, seppure in misura assai più esigua,
in quella di alcuni nostri istituti di
credito). Si trattava, invece, di immobilizzi
e di quote azionarie in diverse imprese che,sebbene fossero malconce, tuttavia conta
pubbliche e con una minore capacità competitiva
delle proprie merci nei circuiti di
mercato internazionali.
Se quasi immediatamente le principali banche,
dalla Commerciale al Credito Italiano
e al Banco di Roma, risentirono in modo
pesante dei guai capitati addosso alle maggiori
imprese, fu perché esse, da più di
vent’anni, provvedevano in larga parte al finanziamento
industriale, anche sotto forma
di rilevanti partecipazioni azionarie. Così
che il tonfo della produzione e la frana in
Borsa dei titoli delle imprese più altolocate
finirono per coinvolgere questi tre istituti
bancari, dato che non poterono esigere il
rimborso di molti dei loro crediti, e di conseguenza
videro deprezzarsi i pacchetti
azionari in loro possesso. In pratica, il rapporto
tra banca e industria da “fisiologica
simbiosi” si era tramutato in «una mostruosa
fratellanza siamese», per dirla con Raffaele
Mattioli, all’epoca giovane dirigente
della Commerciale.
Di fatto, nel 1932 gli immobilizzi industriali
ammontavano a quasi tre volte il totale dei
depositi a vista e dei conti correnti. Per questa
ragione le condizioni sempre più precarie
di numerose aziende minacciavano non
soltanto di travolgere le principali banche
alle quali esse erano legate a doppio filo,
ma anche di far terra bruciata di una parte
cospicua del risparmio nazionale, nonostante
le sovvenzioni concesse nel frattempo
dalla Banca d’Italia agli istituti di credito
più traballanti.
Di fronte alla minaccia che il sistema bancario
colasse a picco, gettando sul lastrico milioni
di risparmiatori appartenenti per lo più
alla piccola borghesia, (il cui consenso era oltretutto
alla base del successo del regime), a
Mussolini non restò che far propria la soluzione
che gli era stata suggerita dai vertici
della Commerciale. Che era di salvare la Comit
e le altre due “banche miste”, di deposito
e d’investimento, trasformandole in istituti di
diritto pubblico. Ciò avvenne dopo lacreazione,
nel 1933, dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione
industriale, per cui lo Stato mise a
disposizione i capitali necessari a coprire le
perdite della Commerciale, del Credito Italiano
e del Banco di Roma, e acquisì contestualmente
le loro partecipazioni industriali.
Quanto l’Iri si trovò così a ereditare non
consisteva in una massa di titoli puramente
cartacei, più o meno tossici, al modo di
quelli che nei mesi scorsi sono risultati in
pancia a varie banche negli Stati Uniti e altrove
(e, seppure in misura assai più esigua,
in quella di alcuni nostri istituti di
credito). Si trattava, invece, di immobilizzi
e di quote azionarie in diverse imprese che,sebbene fossero malconce, tuttavia contavano fior di impianti, oltre a brevetti, a reti
commerciali e a numerosi altri servizi complementari.
D’altro canto, il presidente dell’Iri, Alberto
Beneduce, e il direttore dell’istituto, il foggiano
Donato Menichella, non erano soltanto
dei manager di primissimo ordine e
indipendenti (non possedevano neanche la
tessera fascista), ma erano tutt’altro che di
orientamenti statalisti, (come, in verità,
non lo era neanche Mussolini, che li aveva
chiamati a ricoprire tali incarichi, sebbene
fosse riemerso in lui, in quella drammatica
circostanza, un fondo di animosità anti-capitalista
ereditato dalla sua lontana militanza
di socialista rivoluzionario). Perciò,
l’obiettivo che essi si erano posti era di dismettere
il più rapidamente possibile le imprese
passate sotto l’egida pubblica, ricollocandole
sul mercato a prezzi comunque
tali da ripagare, se non completamente, almeno
una parte delle spese affrontate dallo
Stato per risanarle.
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Ancora un manifesto di Leopoldo Metlicovitz per il Calzaturificio di Varese, a Ferrara, aprile 1923. - Archivio BPP |
Se poi l’Iri venne trasformato, nel 1937, da
un convalescenziario in un ente permanente,
dando così vita non soltanto allo “Stato
banchiere” ma anche allo “Stato imprenditore”,
ciò si dovette a due circostanze che
nel frattempo erano sopraggiunte.
La prima fu la riforma bancaria del 1936
con cui, da un lato, si stabilì una netta distinzione
fra esercizio del credito mobiliare,
sotto la vigilanza della Banca d’Italia; e dall’altro,
la Commerciale, il Credito Italiano e
il Banco di Roma vennero trasformati in“Banche di interesse nazionale”, mantenendone
tuttavia criteri di gestione in linea con
le regole del mercato.
La seconda circostanza, per cui numerose
imprese rimasero sotto le insegne dell’Iri, fu
che il loro smobilizzo non poté avvenire per
diverse cause: dalla carenza di capitali di rischio
in un mercato finanziario sostanzialmente
asfittico, come quello italiano, alla
persistenza di una congiuntura economica
avversa; dalla riluttanza dei gruppi privati a
sborsare quanto debitamente richiesto dall’Iri
per la retrocessione di alcune aziende,
al varo del piano autarchico successivo alla
guerra d’Etiopia, alla politica di riarmo del
regime, che lo portò a mantenere sotto diretto
controllo alcuni complessi industriali
considerati di carattere strategico (a cominciare
da quelli siderurgici e cantieristici,
d’altra parte già in passato largamente foraggiati
dallo Stato).
Fu per queste ragioni che l’Italia fascista
finì per figurare in Europa seconda, subito
dopo l’Unione Sovietica, per grado di statizzazione
della sua economia.
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