La traduzione
è una forma
di scrittura, come la narrazione,
il saggio, la poesia stessa; è una
scrittura che nasce allombra di
unaltra scrittura.
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Dice che la sua radice è in un Salento fantastico, interiore,
nella terra comera, lontana e perduta. Dice che a questa terra
deve forse tutta la sua scrittura: perché qui, da ragazzo,
ha letto voracemente i libri che trovava nelle piccole biblioteche,
nella Provinciale, che comprava sulle bancarelle di Lecce; che qui
ha fatto il suo apprendistato di racconti, versi, teatro, prove
poi distrutte, come spesso, quasi sempre, accade quando si riesce
a trovare lo stile, la voce, la lingua che si sente propria, appartenente,
alla quale si appartiene.
Antonio Prete ha origini a Copertino, tra gli ulivi e il santuario
della Grottella, tra il mito di Giuseppe Desa, il frate asino, il
santo dei voli, e il desiderio del mare (che ancora sente prepotente,
che ancora lo richiama), tra racconti di madre e sapori di fichidindia.
Da anni vive in altri luoghi; insegna letterature comparate alluniversità
di Siena.
Dice che la comparazione è sguardo che accetta la mobilità
del punto di osservazione, che sa dislocarsi, decentrarsi, farsi
obliquo, simultaneo, essere sguardo sullaltro ma anche dellaltro.
Lanima del metodo comparativo è lanalogia. Uno
dei suoi saggi fondamentali sintitola appunto Il demone dellanalogia
(Feltrinelli, 1986). Dice che «Il demone è la pulsione
verso una geometria nascosta, verso un ordine che è forse
lombra di un senso perduto o mai posseduto, verso una lingua
che nei nomi vede trasparire lessenza delle cose, nel ritmo
laccordo con quel musicale che è prima e dopo la lingua».
Per Antonio Prete la comparazione non è solo la relazione
tra luniverso dei testi ma tra la letteratura e lesistenza,
le parole e la natura, landamento di un verso e il colore
di una luna. Forse per lui comparare significa soprattutto compenetrare,
rintracciare i fili che annodano le dimensioni della vita e della
scrittura, rivelare le costanti, i nuclei essenziali, il lievito
delle storie che si scrivono in tempi diversi, in luoghi distanti.
Forse significa soprattutto dimostrare la specularità delle
forme del sentimento e della ragione, della riflessione e dellespressione.
E poi scrivere tutto questo come se si stesse aprendo varchi, gettando
ponti, rischiarando la strada con una lanterna.
Fondamentale essenziale si rivela Il pensiero poetante
(Feltrinelli, 1980; poi 2006 in edizione ampliata con in appendice
la conferenza leopardiana tenuta al Collège de France nel
marzo del 2003): saggio su Leopardi, attraversamento di quella foresta
vivente di libri e di sogni che è lo Zibaldone, analisi e
riflessione sui sentieri che costituiscono il movente e lorizzonte
della sua opera: il desiderio, la ricordanza, linfinito.
Con Baudelaire, Giacomo Leopardi è per Antonio Prete lautore
di una vita; non oggetto di studio accademico, ma compagno di strada,
ombra che parla o che significa silenziosamente. Luno e laltro
sono lespressione essenziale della modernità nelle
sue condizioni di lacerazione, ossimoro, contraddizione. Luno
e laltro costituiscono la dimensione di una poesia che nel
suo linguaggio accoglie lessere nel mondo e per il mondo,
che offre il lessico per decodificare e comprendere la commedia
e la tragedia, la verità e la menzogna, la realtà
e la finzione dei personaggi che si avvicendano sulla scena del
tempo.
È questo autore sono questi autori di una vita
che consegnano a Prete la mappa per muoversi nei territori dellesistere
e del leggere, due percorsi paralleli che vanno verso lo stesso
orizzonte. Ecco, dunque, il senso della comparazione: individuare
nella fisionomia delle creature che abitano la letteratura, i tratti
connotanti e quelli distintivi, le differenze e le analogie nei
modi di pensare il mondo e di rappresentarlo, nelle maniere di confrontarsi
con le certezze delle conoscenze e con gli stupori dellignoranza.
Comparare significa ridurre la distanza tra le cose e la loro denominazione,
tra il senso del vivere qui o altrove, ora o allora, e la traduzione
(sempre approssimativa, sempre infedele) che se ne fa con le parole.
Comparare per Prete vuol dire fare continua esperienza di esplorazione
di luoghi di parole costantemente trasformati dalla realtà
delle cose, dallaccadere degli eventi. Forse vuol dire ostinarsi
a dimostrare la convinzione che ogni destino e ogni storia, anche
quello che può sembrare unico, quella che sembra irripetibile,
sono già scritti in un libro che non conosciamo. Forse conservato
gelosamente tra gli scaffali del labirinto che era la biblioteca
di Borges. Forse perduto nel saccheggio dei manoscritti di San Nicola
di Càsole.
Cè un discrimine nella scrittura di Antonio Prete,
una soglia, un confine, che non si riesce a distinguere: i suoi
saggi hanno spesso landatura di un racconto, talvolta di un
racconto hanno anche quelle digressioni che, come diceva Laurence
Sterne ne La vita e le opinioni di Tristram Shandy, sono il sole,
la vita e lanima di una lettura; i suoi racconti, i frammenti,
le annotazioni, le evocazioni, le riflessioni che tramano la scrittura
dellImperfezione della luna (Feltrinelli, 2000), daltra
parte, contengono non di rado quegli esiti di ricerca specifici
di un saggio.
Non si riesce a distinguere il genere, dunque: saggio raccontato,
racconto saggistico.
Forse non si riesce a distinguere perché per la scrittura
il genere costituisce una sovrastruttura svincolata dalle motivazioni,
dalla natura, dalle destinazioni della scrittura, è funzionale
soltanto a qualcosa di estraneo, come i concorsi a cattedre universitarie,
per esempio.
Per Antonio Prete, il genere è, casomai, soltanto una derivazione
dello stile e delle letture, di altre scritture, di ricerche, riflessioni,
penna e foglio. È per questo, allora, che i generi si confondono
Un albatro che vola, principe dei nembi, e poi viene ridotto ad
oggetto di una beffa, pretende esegesi, ermeneutica e racconto.
Cè esegesi, ermeneutica e racconto nel saggio su Lalbatros
di Baudelaire (Pratiche, 1994).
Cè esegesi, ermeneutica e racconto, poesia su e dentro
altra poesia nella traduzione de Les fleurs du mal, Feltrinelli,
2003). Il senso radicale di questo lavoro di traduzione e del mestiere
tra arte e artigianato della parola del traduttore (di cui Prete
aveva detto in Lospitalità della lingua, Manni, 1996)
viene riferito direi rivelato dal traduttore stesso
in tre righe della nota.
Dice Prete: la traduzione è una forma di scrittura, come
la narrazione, il saggio, la poesia stessa; è una scrittura
che nasce allombra di unaltra scrittura. È unesperienza
esistenziale, un cammino e un passaggio, è un confronto e
uno specchio, cognizione del limite, azzardo e umiltà.
Ma soprattutto racchiude, rappresenta, simboleggia la condizione
di unapertura, di tensione, di una predisposizione allospitalità,
allintreccio, al molteplice, alla compartecipazione, al dialogo,
alla reciprocità.
Allora. Sarà una coincidenza, un caso; sarà un indizio;
però: uno degli interpreti e traduttori più fini e
accreditati di Baudelaire è Antonio Prete. Un altro fine
e accreditato traduttore del poeta francese è stato Vittorio
Pagano. Due percorsi esistenziali e professionali diversi: Prete
accademico, studioso; Pagano maestro elementare, puro poeta lunare.
Ma luno e laltro con la stessa origine in una terra
tra due mari, dove molte razze sono arrivate e ripartite, o si sono
fermate.
Su Pagano traduttore di Baudelaire, Antonio Prete ha scritto una
nota nel numero monografico (1986) di Pensionante de Saraceni.
Inoltre, Pagano è stato uno dei quattro traduttori italiani
di Baudelaire ai quali Luigi De Nardis nellAvvertenza alla
sua traduzione (anchessa Feltrinelli, 1961) risparmiò
bacchettate sulle mani. Gli altri erano: Diego Valeri, Alessandro
Parronchi, Mario Praz.
Dellospitalità, dunque, si diceva. Sarà una
coincidenza, un caso. Sarà un indizio. Ma tantè.
«Questa figura, mediterranea e nomade scrive Prete
ci dice di uno spazio-tempo in cui colui che ospita e colui
che è ospitato si incontrano partecipando al convito o dialogo».
Ma non è questa, in fondo, la funzione di ogni forma di
letteratura? Non è raccogliere le voci dellaltro, prestare
allaltro una voce, rendere prossimo ogni lontanissimo altrove,
portare ogni altrove tra le righe di un foglio, scendere «fino
in fondo allignoto per incontrare il nuovo»?
Se è altro da questo, forse la letteratura serve a poco.
A niente, forse. E a poco, forse a niente, se è altro da
questo, serve la critica, la filologia.
Perché la critica può essere o devessere?
anche passione. O, più esattamente, la rappresentazione
di una passione, il suo racconto o almeno il suo resoconto; forse
anche una sorta di discorso amoroso nelle forme di cui diceva Roland
Barthes.
È anche questo, la critica, per Antonio Prete; sono anche
queste le ragioni dellulteriore confronto con Charles Baudelaire
che propone ne I fiori di Baudelaire. Linfinito nelle strade
(Donzelli, 2007): la passione che si ravviva per la scoperta di
un senso nuovo o rinnovato; un altro fondale semantico da scandagliare;
una scoperta (o riscoperta) di elementi e situazioni testuali da
mettere in relazione, da comparare con altri elementi e situazioni
dello stesso autore oppure di altri, con dimensioni interiori, atmosfere
poetiche, temperie culturali. Ma anche con la propria idea di letteratura,
poesia, lettura, interpretazione, narrazione, comparazione, scrittura.
Esiste unespressione, quasi una teoria della critica, di Baudelaire
«che a lungo mi ha accompagnato e ancora mi accompagna, quasi
come cartiglio esibito a testimonianza di una scelta di campo»,
dice Antonio Prete, ribadendo quelli che sono i sentimenti che costituiscono
lorigine e il perdurare della passione. Il poeta dei fiori
del male sosteneva che la critica per essere giusta devessere
parziale, appassionata, politica, «ossia fatta da un solo
punto di vista, ma tale che apra il massimo d orizzonte possibile».
Sono tre modi di pensare che determinano e improntano i modi di
agire e di pensare il tempo e lo spazio, gli esseri e le cose, i
sogni e le storie e che quindi orientano e conformano i metodi e
gli strumenti di lettura di un testo e di scrittura degli esiti
della lettura. Perché per Antonio Prete non cè
differenza tra un suono, un profumo, un colore, un ricordo o un
rimpianto o unemozione, e la parola, il verso, il ritmo, uno
dei possibili sensi, uno degli innumerevoli richiami della poesia,
delle sue sirene, delle sue seduzioni.
Latteggiamento critico di Antonio Prete è quello di
un viaggiatore che continuamente torna ad esplorare luoghi conosciuti
perché sa perfettamente che ogni volta troverà qualcosa
di nuovo: un odore, il colore di un tramonto, la tenerezza o linquietudine
di uno sguardo, una variazione di ritmo, una percezione di timbro,
un diverso sentimento della parola, una propria relazione con il
tempo e con lo spazio, una diversa considerazione del lavoro e dellimmaginazione,
che sono, per Baudelaire e per Prete, quelle condizioni che consentono
«di raccontare il possibile, di abitare il possibile».
Una critica parziale, appassionata, politica, dunque. In Sottovento
(Manni, 2001) Prete esplicita le implicazioni e le conseguenze di
questi tre termini. Il critico è parziale dice
perché ha consapevolezza della relatività dei sensi
che raggiunge o a cui si rende prossimo; è appassionato quando
trasferisce assorbe, quasi nella sua esperienza lavventura
delle lettura del testo; ha una caratura politica se si orienta
non solo verso i possibili lettori ma anche verso quella dimensione
in costante trasformazione, dal carattere talvolta faticosamente
decifrabile, alla quale si dà la definizione di storia.
In questo suo riattraversamento dei territori baudelairiani, Prete
si risofferma ad indagare paesaggi e particolari che per decenni
ha osservato e scrutato, forse non in modo molto differente da quello
che, consciamente o inconsciamente, si ritrova ad adottare quando
ritorna ad osservare o a scrutare i paesaggi e i particolari dei
luoghi salentini dovè nato, che non di rado rappresenta
in pagine di prosa.
Nella sua esperienza di critico parziale, appassionato, politico,
Prete ha vissuto la fortuna di alcuni incontri: De Sanctis con i
suoi registri raffinatissimi; le posizioni della nouvelle
critique, la scuola di Francoforte e la cosiddetta critica
dei poeti, la tradizione filologica e la tensione verso lesegesi.
Questa pluralità di esperienze risulta evidente nella continua,
sistematica apertura di varchi che Prete mette in atto nel suo discorso
critico, rinviando sempre una tesi, unipotesi, una suggestione,
unidea, una proposta, ad un altro di questi stessi elementi
introdotti in precedenza o che vengono annunciati per uno sviluppo
successivo. Non cè mai unaffermazione definitiva,
un tentativo o una tentazione di chiudere la partita della lettura.
Anzi: lascia al lettore quasi la consegna di continuare, secondo
il proprio modo, la riflessione sulla parola dellautore o
del suo critico.
In realtà questa è una condizione che non appartiene
alla natura del critico ma a quella del narratore. Perché
Antonio Prete è innanzitutto (non soprattutto) narratore.
Si potrebbe dire che in principio è il narratore.
La critica narrata è la condizione che fa la differenza,
che costituisce una cifra di originalità e di qualità
nei processi e negli esiti del suo lavoro. La prova inconfutabile
è data dalla circostanza che molti dei suoi saggi su Baudelaire
o su Leopardi, per esempio , possono essere letti anche da chi non
frequenta assiduamente Baudelaire o Leopardi. Ma che è motivato
a frequentarli dopo aver letto i racconti che Prete fa dei loro
testi. Probabilmente un critico di cose letterarie non può
avere una più alta ambizione o missione.
Che la poesia appartenesse alla natura di Antonio Prete, che improntasse
e conformasse il suo modo di confrontarsi con la vita, di pensare
luniverso, di ascoltare il tempo, di configurare lo spazio,
di sentire le creature, di misurare le esperienze, di vagliare le
conoscenze, era una cosa che si capiva anche facilmente
da qualsiasi passo di critica o frammento di prosa, dalle scelte
lessicali, dallandamento della sintassi, dal taglio dello
stile.
Che la sua fosse una direzione obliqua, trasversale, ulteriore,
multidimensionale e altra rispetto ai codici e alle codificazioni
della critica letteraria, della comparazione testuale, rispetto
ai canoni tradizionali della scrittura saggistica, era una cifra
che risultava evidente nellimpostazione del discorso, nellarticolazione
degli argomenti, nella predilezione per i frammenti, nella forma
che portava i contenuti, essa stessa sostanza, portatrice di senso,
rielaborazione di realtà, elaborazione di immaginario, reinvenzione
del passato, figurazione di memoria, riflessione sul tempo e sulla
scrittura.
Così non arriva inaspettato il libro poetico che sintitola
Menhir (Donzelli, 2007). È coerente con tutta la sua scrittura.
È contiguo, parallelo.
Perché Antonio Prete è attratto dallombra delle
cose, dal loro riflesso, dalla loro riverberanza, dalla stratificazione
di memoria che si portano dentro, è attratto dal disegno
che si compone di ogni scaglia, di ogni frammento di vita e di universo,
di realtà e di sogno, dal silenzio delle creature e dal loro
ininterrotto racconto, dalle voci dentro i vichi, dal richiamo di
una madre, dal desiderio di un ritorno ad un tempo forse mai finito,
o forse mai venuto.
È attratto da tutto quello che non si può pronunciare,
perché appartiene solo ad un soffio originario, alle pulsioni
della natura, ad unincrespatura di mare, ad un movimento del
vento, ad un trasalimento, un batticuore, un segreto, leggerissimo
o schiacciante tormento, unidea di poesia che è come
sangue nelle vene, un rapporto con le storie che è come lievito
esistenziale, una relazione con la terra profondissima e scandita
da partenze e da ritorni.
«Perché amo le forme che non sono, / la loro trasognata
trasparenza, / Il battito di luce che le scuote, / visibile soltanto
nei pensieri». È in questa dimensione oscillante fra
realtà e immaginario, nel tempo sospeso tra sentimento e
ragione, nello spazio determinato dalla percezione di un mondo composto
soltanto di linguaggio, regolato con il respiro che hanno le parole,
la radice della poesia di Antonio Prete. È nel pensiero che
si rende visibile, che si manifesta con il suo ritmo; è nello
sguardo che incontra la luce, nellemozione per gli anni che
vanno; è nella voce di madre che scende dalla luna, in una
domanda che torna per consolare e ossessionare («che cosa
dimentico, madre, che cosa dimentico»), nellombra che
si spande sulle creature e sulle loro storie, nellabbaglio
e nella luce smorta delle stagioni.
La poesia di Prete è nel tremore dellinfanzia, nei
suoi incantamenti, nelle scoperte di luoghi che si distendono nelle
pagine dei libri e di esistenze fatte di pensiero e dinchiostro.
Nelle pagine di un altro libro, Prete scrive: «della poesia,
come dellamore, non si può dare una definizione. Della
poesia, come dellamore, si può avere, però,
esperienza».
Lesperienza della poesia non è dissimile dallesperienza
del vivere; anzi, talvolta diventa indistinguibile, è esattamente
la stessa cosa, è lesistenza che si fa «alfabeto,
/ suono, verbo di presenza»; talvolta è preesistente
alla parola, è pura percezione della significanza della natura,
del fiato della terra, del cuore delle cose, della bellezza che
si disfa, dellarmonia e del caos che sono allorigine
del mondo, dellincognita sulla sua evoluzione. E poi
semplicemente dellacqua di una pioggia breve, del frastuono
delle cicale nel vespro, dello scintillio del mare, della luce che
divora gli alberi, del pulviscolo, del silenzio che dorme nelle
sillabe.
Semplicemente, dunque. La poesia di Antonio Prete cerca la semplicità
despressione che costituisce forse lunica modalità
lunico espediente? con cui si può tentare
di dire lindicibile, di raccontare e soprattutto raccontarsi
lincomprensibile dellinfinito e delleterno,
di medicare la ferita della lontananza.
Come se dallalto di una torre sul mare scrutasse la linea
dorizzonte lungo la quale si muovono figure provenienti dal
tempo e dallemozione, profili di creature, memorie di storie,
così Antonio Prete scruta temi e testi che stringono tutto
il lessico della lontananza.
Ancora con quella sua scrittura traslucida, con lincedere
di prosa dalla leggerezza calviniana, con la misura del frammento
che intende raggrumare il concetto, sintetizzare la sovrabbondanza
di immagini, rappresentare condizioni dellesistere e forme
del pensare, questa volta il saggista di origine salentina che ha
cattedra di letterature comparate a Siena, elabora un Trattato della
lontananza (Bollati Boringhieri, 2008).
Qui cè il tempo, lo spazio, lo specchio del cielo;
cè la bellezza, la risonanza, il paesaggio, la luce,
la relazione tra il lontano e il vicino, laddio, lesilio,
la nostalgia, lo sguardo del poeta che perfora lapparenza
per arrivare al punto che evoca unemozione, un sentimento,
esprime la tenerezza di un rimpianto.
Ma in questo saggio, poi, cè un rispecchiamento delloggetto
indagato con il metodo dindagine: della lontananza con la
scrittura, dei testi con la critica. Cè compenetrazione,
simbiosi, mimèsi tra lespressione e le cose, i sensi
e i segni, i significanti e i significati.
Senza esplicitare, Prete lascia scorrere lungo tutto il saggio la
convinzione che per comprendere occorre porsi nella lontananza:
osservare le epifanie della natura e dellarte nelle loro sfumature,
nellombrosità, nella trascoloranza, nellincertezza,
nelloscillazione tra finito e infinito, verità e menzogna,
realtà e finzione, con la percezione e lintuizione
che precedono lanalisi e la ragione.
Così in questo saggio, al critico, allinterprete, interessa
la posizione che consente la visione complessiva oppure la linea
di confine, la discriminazione, il punto dove «lestremo
e linforme, loltre e lignoto si incontrano, generando
la fluttuazione del possibile».
Il presente è la soglia da cui ha cominciamento il ritorno
verso la lontananza della propria storia; senza questa condizione
non ci sarebbe appartenenza, senso, destino, non ci sarebbe esperienza,
né tensione verso lespressione di sé, la narrazione,
la comparazione di universi e di parole.
Come spesso accade nella sua scrittura, Prete parte dal qui e dallora
per procedere in direzione dellaltrove e dellallora.
Fino ad arrivare al tempo dellinfanzia: nella lontananza interiore
che si è fatta tempo e immagine, memoria e mito, silenzio
e parola, esperienza ed emozione, sogno e scrittura. Si è
fatta respiro, esperienza, coscienza del tempo perduto, dellirreversibilità,
dellirripetibilità.
Bisogna tenere aperto lo spazio della nostalgia, dice Prete, dunque.
Per poter accogliere ritmi voci personaggi pensieri presentimenti
desideri.
Fino ad arrivare in un luogo: il paese che è laggiù,
dice. Quaggiù. Penisola. Due mari. Pianura. Forme di fata
morgana. Finibusterrae. Qui la lontananza ha profili incerti, tremolanti,
indefiniti. Qui è tensione allo sconfinamento, al superamento
di ogni soglia, ogni frontiera. Qui la pianura di terra e la distesa
del mare raddoppiano la percezione di lontananza. Sono, forse, il
suo stesso concetto, il suo stesso senso. Lorigine dellessere
che avviene in un luogo matura una lontananza nel tempo e nello
spazio che genera unansia di ricerca di situazioni e condizioni
somiglianti con quellorigine.
Chissà se non è questansia che costituisce la
motivazione profonda, il movente psicologico, la categoria culturale
di una critica letteraria che si fonda sulla comparazione.
Il paese che è laggiù richiama il nostos di Antonio
Prete, la sua nostalgia. Questo è il sentimento, questa la
sua poesia della lontananza.
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