Una terra senza memoria non va da nessuna parte.
Una terra senza poesia da qualche parte può andare, ma certamente
la strada sarà un poco più buia.
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Una terra. Una memoria. Una poesia. Nessuna costruzione di pietra,
nessun altare al tempo riesce a custodire e a tramandare memoria
più delle parole di una poesia. Perché una poesia
è lunica cosa che un uomo può portarsi dietro,
può portarsi dentro, può confondere con la propria
sensibilità, con le proprie emozioni, i riflessi dellesistenza,
le storie di ogni giorno, illusioni e delusioni, occasioni prese
e perse, dolcezze, amarezze, stupori, furori.
Si vive in un luogo e si guarda il paesaggio; si incontrano volti
che scompaiono; si ascoltano voci che si perdono. Il tempo a volte
trasforma, a volte deforma, altre volte cancella; a volte lo fa
gradualmente, a volte in un modo improvviso, come fa un vento che
sparpaglia i cumuli di foglie risecchite.
Restano le parole che hanno parlato di questo, se una volta ne hanno
parlato: quelle parole che sono lespressione più inconsistente,
che hanno la leggerezza di un fiato, di un vapore, durano più
di ogni altra cosa, oltre ogni vita di creatura. Perché passano
da voce a voce, da memoria a memoria, anche quando si perde il timbro
della voce, il filo della memoria originaria, anche quando non sintravede
il profilo di chi sarà memoria futura e non si conosce il
tono della voce che racconterà.

Il Salento è una terra che cambia, giorno per giorno, che
negli anni venturi cambierà forse anche di più di
quanto sia cambiata in quelli passati. Come ogni altra terra, senza
differenza. Ma la memoria individuale e collettiva di comè
stata è scritta nelle sue poesie, che non ne hanno
per nulla immobilizzato forme e vicende, ma hanno riscoperto
e rinnovato caratteri e fisionomie, sottomissioni e riscatti, orgogli
e rimpianti, realtà e fantasie, la sua
natura di terra del rimorso, della levità di fra Giuseppe
Desa, della razionalità appassionata di Antonio Galateo.
Una terra senza memoria non va da nessuna parte. Una terra senza
poesia da qualche parte può andare, ma certamente la strada
sarà un poco più buia.
Allora qui si propongono dieci poesie sul Salento da imparare a
memoria: per poter ricordare meglio comera questa provincia
infinita quando in un qualsiasi luogo si costruisce come sarà.
Sarebbero centinaia quelle da selezionare. Ma si vuole dare soltanto
unidea, suggerire un percorso perché poi ciascuno possa
cercare e selezionare da sé quali sono quei versi che sente
più vicini, intimi, essenziali. Se non lo ha già fatto.
Dieci poesie, dunque.
Con brevissimo commento.
Nella penisola salentina
Lamore era una lettera trovata
nel tronco di un olivo; lamicizia
il capello spaccato in due, soffiato
nel vento; e la morte
il dente che si serba per il giorno
del Giudizio.
Qui cerano accademie
e monaci sapientissimi:
o città gloriose
di sporcizia e abbandono!
Nel mattino senzuomini allattano i figli
le donne sulle porte o lungamente
si pettinano.
E che neri capelli, che capelli
che non finiscono mai,
fra quelle bianche case con le file
di zucche gialle sulle cornici!
Su un mucchio dimmondizie un gatto feroce
rosicchiava una lisca madreperlacea
guardando avvicinarsi il forestiero
con due occhi terribili.
Vittorio Bodini
Tenera e triste, un
passo quasi di canto, un rimpianto bruciante per un tempo finito,
per uno stupore dissoltosi nellimpatto con la realtà.
È un altare alla memoria di una civiltà che ha contemplato
nelle sue forme tutto il fasto e il degrado: San Nicola di Casole
che custodiva il sapere dOriente e dOccidente trascritto
su cartigli da copisti innamorati dogni segno; le città
destinate ad un abbandono eterno, ad unopacità irrimediabile,
allavvilimento di unesistenza corrosa dalla condanna
alla sopravvivenza.
La salvezza può essere solo nellinfanzia delluomo
e della terra, nella poesia primitiva di una superstizione per la
quale si conserva qualcosa di sé come testimonianza del proprio
passaggio tra i giorni e come salvacondotto per leterno.
Poi la salvezza è anche nella sublime fisicità di
una bellezza delicata e imperturbabile che colma da sé
con la propria pienezza, con lillusione di infinitezza
che suscita («lungamente»; «che capelli che non
finiscono mai») il vuoto dellaltro, lassenza,
il deserto generato forse dalla morte, forse da una lontananza senza
misura.
È una bellezza che sinnalza e simpone come difesa
dallinsidia del presente, che si propone con le maschere di
una ferocia e di unincognita; si oppone al declino, alla dissipazione,
alla cancellazione dellinnocenza, alloscuramento del
riverbero di piccole mitologie interiori, alla rimozione di quelle
passioni che sono allorigine e che fanno sentire la propria
esistenza come consonanza tra la natura e la storia.
La radice, la memoria, il sentimento, la dimora ideale, il tempo
assoluto sono raggrumati qui, nella penisola dove il mistero dellamore
è scritto e chiuso in una lettera trovata nel tronco di un
olivo, dove le metamorfosi sono impercettibili, i simboli sono immutabili
quasi a metafora delleternità.
Lallarme
Io non so fino a quando resteremo
chiusi in questo ronzìo...
è una piovra fantastica
la campagna leccese
olivi, giallo e terra secca (rosso
un interno lavversa allimprovviso:
furono verdi o nere due pupille,
ed esili ed ignude mani e braccia,
e necessario fu che un volto fosse
il più bello: una gatta? Una sirena?...)
Gettiamo inutilmente le nostre ancore,
ogni cosa appartiene a
un errore di nuvole,
e laria si concede alla parabola
dun volo e tutto vi saccampa ormai.
Un fazzoletto parve un drago bianco
nella notte agitandosi, e una voce
gridò lallarme a noi che spezzavamo
le braccia al crocifisso
per destinarci almeno
a inferni consapevoli.
Vittorio Pagano
Una fiaba. Il paesaggio,
le creature, le cose sono dentro una fiaba. Le fisionomie interiori
sono trasfigurazione della memoria in una fiaba. Tutto è
fantastico, senza peso, leggero, disancorato dal tempo, dallo spazio,
liberato dallassillo della nostalgia, proiettato in una atemporalità
sconfinata, in una riverberanza dellaria, in un universo psicologico
di assenza e parvenza, inconsistenza di nuvole, trasparenze di luci,
rifrazioni, riflessi. Le storie, le vite, le morti non sono che
esiti di incantamenti.
Una visione. Una fiaba. Forse creata da una condizione di oblio,
da un naufragio in fondo a burrasche di fantasia, dallabbaglio
di colori, dalla parabola di un volo che per un certo tempo cancella
ogni segno di presente, segue un richiamo di voci profonde, una
seduzione di epifanie.
Tutto questo accade appunto per un certo tempo: forse un attimo
solo. Il fiat di un sogno. Un rapimento nel caos che governa luniverso
e i destini.
Come una fiaba finisce quando finisce il movimento della voce che
narra, e illude, qui si conclude con un sacrilegio inaspettato,
quasi incredibile, intenzionale, violento, motivato dal progetto
disperato di un destino, da una folle vocazione per linferno.
Ma la chiave di senso è negli ultimi due versi: qui si lacera
il velo della fiaba, si oscurano i riflessi dellillusione,
si rivela il senso drammatico della visione: quellapparenza,
quella parabola di volo, lappartenenza al caso naturale, sono
un inferno inconsapevole, predestinato, irreversibile, interiorizzato,
assoluto. È questinferno che Pagano rifiuta. La
priori che esclude ogni scelta, ogni interferenza nel già
determinato. La violazione della sacralità diventa lunica
abnorme possibilità di rivendicare il diritto
alla propria consapevole presenza. Anche se con una bestemmia cieca.
Con un gesto di peccato che non può avere remissione.

Lamento di contadino
Sta lanima mia dentro le tombe
che ritrovo zappando nel Salento
e non ha voce.
Invano cerco segni nei tramonti
per nuovi giorni, per speranze nuove,
il cielo resta quello della gazza
che salta in mezzo ai cuti
o rauca irride
allombra dellulivo saraceno.
Ho sopra il petto il peso della terra
e batte il vento nei miei occhi vuoti.
Donato Moro
Lanima appartiene alla
storia: lanima è la storia. Anima muta che si manifesta,
rappresenta la propria esistenza, la propria essenza per mezzo del
passato che risorge costantemente, prepotentemente, sommergendo
ogni elemento e motivo di presente, vietando ogni senso di futuro,
quale che sia: ipotesi, speranza, desiderio di un altro sentimento,
di unemozione nuova, labbozzo del disegno di un tempo
che rinnovi levento della vita. Perché tutto quello
che potrebbe accadere è già accaduto, i racconti sono
già stati narrati, sono venuti e passati i temporali, le
stagioni ripetono se stesse.
Oltre la storia e i suoi simboli di pietra e di memoria non cè
niente, non può esserci niente. Lulivo e la gazza vengono
dal passato; anche il vento viene dal passato, trascina con sé
il passato. Lesistente è testimonianza della presenza
di unanima che giace nelle tombe affioranti che ribadiscono
un vincolo come privilegio e condanna al tempo stesso, che urlano
la loro ansia, la loro pretesa di essere dissepolte, disoccultate,
riportate alla luce, riconsegnate al divenire del mondo, allavvicendarsi
del mattino e della sera, a riconferma perpetua dellorigine,
della cifra primordiale, dellarchetipo ineludibile, irreversibile.
La terra viene prima delle creature; durerà oltre le creature.
Quando si dissolveranno i corpi, e le memorie dei fatti, quando
non resterà nulla dei sogni, né delle parole di una
poesia, quando non si sentirà più sul petto il peso
della terra, e tutto diventerà leggero come un pulviscolo,
e sembrerà misterioso come un singulto di civetta, allora
lulivo saraceno sarà ancora una silenziosa e significante
traccia dellanima del tempo di un luogo. Lo saranno le tombe
di antenati sconosciuti e visceralmente venerati, i tramonti che
non mutano colore; lo saranno gli occhi di coloro che verranno,
vuoti come sono gli occhi di quelli che ci sono.
A Otranto
A Otranto
vento di mare e aspre
le foglie del tabacco
Non ci sarà speranza
per chi non creda
o pianga
Sulle prore
Delle galere Turche
aveva un nome
la speranza di restare
Aveva un nome
la morte e il mare
qui
che dal passato chiamano
la Città e il Colle
gli ottocento morti
Tra grano e vento
son fatti terra
per nuovo patto desistenza
A Otranto grava
come sui nostri giorni
canto di usignoli
e sortilegio amaro
di un mare invalicabile.
Bruno Epifani
Otranto non è un luogo.
Otranto è unidea, una frontiera tra la luce e il buio,
una linea dombra tra realtà e fantasia, lo sconfinamento
da un confine immaginario, un porto per viaggi verso lontananze,
per ritorni a rive di certezze senza dubbi. Una microstoria trasmutata
in macromito.
Otranto è il nome che si dà alla speranza, a vita
e morte, al passato e al futuro, al sogno e allillusione del
presente, allincubo e allinganno, forse anche a unesistenza
intera e al suo racconto.
Otranto è i Martiri che parlano al tempo, come se vicende
e giorni non si fossero mai conclusi, come se nulla sia stato seppellito,
ma ancora si ascoltino bestemmie in lingua sconosciuta, le preghiere
e le urla in un dialetto dolce, come se in eterno si rinnovasse
il sacrificio degli Ottocento sopra la Minerva.
Forse Otranto è solo letteratura: una metafora che richiama
le parole, che ha richiamato quelle di Maria Corti, Carmelo Bene,
Nicola De Donno, Antonio Verri, Donato Moro. Queste parole vigorose
e tristi di Bruno Epifani.
Otranto è lambivalenza, il chiaroscuro, la trasparenza,
lopacità, laffermazione, la negazione, il pieno
e il vuoto, il sinonimo e il contrario, il tutto e il niente, il
falso e il vero, il verosimile, lincomparabile, linenarrabile
che chiede e pretende il racconto senza conclusione.

Le galere turche allorizzonte sono voci del mythos che si
sostanzia in logos.
Otranto è il simbolo di tutta unesistenza: quello che
su Otranto grava, quello che a Otranto è lieve, grava ed
è lieve anche per quelle vite che per Otranto hanno pensieri
e parole di passione.
Otranto è un colloquio ininterrotto con il passato, con una
storia viva, o sempre ravvivata, che impone (o implora) «un
nuovo patto desistenze», perché nulla si disgreghi
o si disperda nel «sortilegio amaro» della dimenticanza.
Allora Otranto è memoria lunga, dolceamara, dolorosa o consolante,
che unisce lontane sponde anche quando può sembrare che il
mare diventi invalicabile, quando la valanga del tempo urla una
minaccia per i giorni della terra e per i nostri.
Matta la vita
Matta la vita e mmari penzamenti
ggiurnu pe ggiurnu te portane nnanti
su lla carrara ca penne a llu gnenti.
Saccu si fattu de noci vacanti,
e ffore sona, ma intra se lu tenti
nu ttroi se nu ccannedde rusicanti
e ppulanedda de mpruscinamenti
ca te critii pinzieri ddarlampanti.
Pare lu sutta a ddunca llei e nnu minti:
tie prestu se pariu ca mari e mmonti
te la Prumessa Terra èrane finti.
Tutta lacqua è ppassata de li ponti,
sai quiddu ca eri ddèssere e nnu ssinti
a cce ssèrvene cchiùi li rendiconti?
Nicola G. De Donno
A Finibusterrae «la
lingua è aspra, cupa, povera dimmagini, virile, quasi
ieratica, ancora latina ed ellenica in buona parte». Così
scriveva Luigi Corvaglia agli inizi del Novecento. Probabilmente
certamente il dialetto aveva la stessa durezza, lasprezza,
la povertà che avevano le cose e lesistenza. Perché
una lingua dice e rappresenta un universo. A quel tempo luniverso
di Finibusterrae era come Corvaglia lo descrive nel romanzo. Forse
nella realtà era anche più povero, anche più
cupo.
Poi quelluniverso è cambiato, ed è cambiato
il dialetto. Soprattutto dalla metà del Novecento in poi:
quando la scuola comincia per fortuna a diventare
scuola di tutti; quando lItalia comincia a perdere le forme
e le storie della civiltà contadina per prendere quelle della
civiltà industriale. Quando tutto questo accade, con i caratteri
talvolta contraddittori di ogni mutazione antropologica, di ogni
svolta epocale, il dialetto comincia ad esaurire la sua carica sociale
e a trovare un contesto di espressione nella lingua poetica.
Quella lingua essenziale, immediata, spontanea, parlata, concreta
come la fatica millenaria dei contadini, si trasforma in parola
rarefatta, meditata, mediata, ricercata, scritta. Da lingua di popolo
in lingua letteraria; da lingua della realtà in lingua darte.
Come il dialetto di Nicola De Donno: che scava nel profondo della
terra per giungere fino alle radici, che scandaglia la sensibilità
della sua gente per interpretarne le emozioni, e poi riemerge rivelandone
lessenza, raccontando con sonetti taglienti i vizi e la sapienza.
Il dialetto diventa una forma estetica e una condizione etica che
sgretola i muri del conformismo, dellapparenza, che si insinua
nei labirinti del pensiero per tentare disperatamente
di scoprire lo sgomento che luomo prova davanti allinfinito,
per dire un senso di pietà, di speranza, di umiltà,
per farsi coscienza del tempo, a volte anche medicamento capace
di placare il tormento del dubbio, dellinterrogativo martellante
sui disegni del destino.
Piazze del Sud
È questa lora della pena
nelle piazze che attendono
larenarsi dei nomi, della casa,
quando si diffida delleloquenza
e vedremo che succede
a guardarci negli occhi
come i soldati della trincea
mentre nelle vene arriva il nemico.
Vittore Fiore
È nello spazio
del paese dove si confonde la vita di tutti con quella di ciascuno,
dove gli sguardi sincrociano per tentare di svelare ragioni
consuete e misteriose, è in quello spazio che il tempo mostra
il suo volto di rapace, che ogni istante scorre come veleno devastante,
e le domande esplodono in un silenzio livido, assordante, lasciando
i destini sperduti, in abbandono, avventurati in un passo sconsolato
di congedo. Il gioco delle apparenze, intanto, si confronta con
la concretezza degli accadimenti, tradendosi, quel gioco, rivelando
la sua natura effimera, insipiente.
Piazza del sud: è il luogo dellesilio tra la folla,
dellattesa forse vana di una compiutezza, di
un senso di autenticità che segni il proprio divenire, lessere
a se stessi, che dimostri lincomparabilità della propria
esperienza.

Nella piazza del Sud lora della pena è quella che
batte al finire di ogni giorno, dopo il tramonto, quando il buio
è appena appena screpolato dalla pallida luce dei lampioni.
È nellora della pena che ciascuno si ritrova a tentare
un provvisorio resoconto usando per misura il senso degli accadimenti
di quel giorno irripetibile e assoluto, con il pieno e il vuoto
che lascia, con lirreversibilità, con le assenze, con
i pensieri e le memorie che prendono corpo da una mancanza, una
privazione, un sentimento di precarietà, una percezione di
straniamento, un malessere per quel tempo che costringe a rovistarsi
impietosamente dentro.
Così, a quellora, in fondo a quella pena, la piazza
è un universo dai confini labili, imprecisi, è la
metafora di una relazione tra il tempo che si vive e quello che
gli altri vivono, tra un presente e un passato che trovano in quello
spazio, in quel microcosmo che si slarga nella mente, in quellora
della pena che richiama, che evoca, una sintesi che traduce la condizione
dellesperienza delle generazioni che vengono e che vanno,
delle storie che iniziano e finiscono, delle scene che si aprono
e si chiudono per commedie e tragedie, per attori e spettatori.
Questora lunare
Questora lunare accende gli ulivi del Salento,
sbianca le strade ed apre sui confini la campagna,
ma nelle muricce contorte,
dove a volo basso scompaiono le gazze,
sannera la nostra pena desistere e morire,
daver visto svanire
tra una guerra ed unaltra,
tra il fuoco dei teleschermi e dei Caroselli
e il sangue urlato ad ogni angolo di continente,
nel tristo gioco sottosviluppo-accumulazione,
la nostra breve stagione.
Giovanni Bernardini
Così a un certo
punto paesaggio e uomo diventano una cosa sola; a un certo punto
luno e laltro hanno una sola pena, un solo grande
rammarico, un solo grande sconforto che viene dal sospetto
che il tempo sia passato invano, che tra una guerra e unaltra,
tra una pace e unaltra non sia cambiato niente, che la storia
attragga solo lindifferente sguardo di spettatori che non
sanno reagire allurlo di una violenza che si ripete identica
o più forte.
Allora la pena di esistere ha lo stesso colore della luce di una
luna; ha la stessa possanza dei tronchi di ulivo e la stessa tenerezza
delle sue foglie; ha la stessa fosforescenza che è data dalla
combinazione della luce e della polvere. È una pena che a
volte esplode, a volte si ripiega, che si trasforma in amore: anche
questa pena desistere diventa condizione damore, come
la «rabbia desistere» di Vittorio Bodini.
Giovanni Bernardini annota la desolazione: il volo basso, il cielo
che si oscura, lassenza di un fiotto di vita. La paura, invece,
è taciuta: il sentimento atterrito dellirreversibile,
dellincolmabile, dellormai impossibile non riesce a
trovare le parole, si annoda nel respiro, si fa grumo di senso che
non si scioglie in parola, verso, ritmo. Lapparenza che Bernardini
rappresenta in una descrizione che vorrebbe restare neutrale, nasconde
lo sprofondo della sofferenza del mondo, del tempo, del paesaggio.
Il poeta ha pudore, quasi, di dare espressione ad unintima
reazione daccusa nei confronti delle cause che provocano il
«tristo gioco sottosviluppo-accumulazione», e allora
si confonde con lombra delle cose, con lo smorzarsi della
luce, si lascia commuovere dal pensiero del tempo, del proprio tempo
che lo aggredisce o lo sfiora, che qualche volta gli dona la consolazione
di una memoria.
Cè sempre stato il mistero dellattesa nella poesia
di Giovanni Bernardini. Nelle poesie degli ultimi tempi lattesa
è diventata uno spasimo. Come se pretendesse una risposta
alla domanda del fine ultimo, che non può avere risposta.
Come se volesse scandagliare il pozzo senza fondo del principio
del tempo e delluomo, al quale invece non ci si può
nemmeno accostare. Allora il poeta fa tutto quello che può
e sa fare per essere e sentirsi pura natura.
Anche il tuo è un varco disperato
Anche il tuo è un varco disperato, furente,
di morte. Solidi lettucci in ferro o fischi
vuoti nellaria gialla come spiga
i tuoi raggiri, poeta.
Frattaglie ben disposte nelle viscere
di questa terra rovinosa (ci correva
ben viva un tempo la vita):
erano giorni di smalto e di risacca
occhiate veloci, donnine di gusto
al Caffè Buda
questo io rimpiango adesso, silenzi parlati
risa fragorose e poi quellaria verde
novembrina che mandava brusii
di cioccolato. Cavalli imbracati,
Suppressa, qualche frontale di chiesa
E pochi stemmi. Ancora. Brusii sfiati
battaglie. Sospiri cautelosi.
Antonio Verri
Cè un
punto, una condizione, una stagione in cui la poesia salentina realizza
una sintesi virtuosa tra tradizione e innovazione, tra forme consolidate
e sperimentazione, tra dimensione antropologica e tensione post
moderna. È una stagione che va dalla prima metà degli
anni Ottanta alla prima metà dei Novanta, che trova in una
figura con il cuore da vecchio contadino e il pensiero da raffinatissimo
intellettuale, che rispondeva al nome di Antonio Verri, lideatore
e il fabbricante di una poetica capace di annodare la riflessione
letteraria con la cultura della terra, la suggestione joyciana con
lemozione della memoria, la suggestione del mito con la ragione
del logos. Andare al di là di Bodini partendo da Bodini;
confrontarsi con la supremazia stilistica di Pagano senza farsi
stordire; penetrare latmosfera rarefatta della poesia di Comi
senza farsi catturare dalle sue spire. Contraddire il padre, senza
mai smettere di amarlo. Tradire il compagno di strada continuando
a seguirlo di nascosto. Affermare che bisogna partire per poi avere
desiderio di tornare. Sostenere la necessità lindispensabilità
della diserzione per poi ritrovarsi sempre al centro del
campo di battaglia, forse anche al centro di due fuochi.
Era questa la vision e la mission di Antonio Verri: mettere insieme,
in un grande castello di parole, tutte le creature che abitano la
memoria e tutte quelle generate dallinvenzione fantastica
di un poeta; disegnare un futuro in qualche modo somigliante al
passato e in qualche altro modo completamente diverso; rintracciare
il nesso tra lo stupore di unetà e il disincanto di
unaltra; lasciarsi coinvolgere dalla ritualità e poi
scardinare le ragioni del rito. Le ombre e le storie quotidiane
il padre, la madre, gli amici, i fatti che accadono e che
nessuno racconta, i bilanci fatti ad ogni istante, i falsi resoconti
si confondono con il mito di Otranto, con quelle ombre, con
quelle storie che provengono dallinfinito e in esso si proiettano;
le voci per la strada hanno lo stesso accento di quelle che pregavano
e si consegnavano allEterno sul colle insanguinato della Minerva.
E Idrusa è una delle ragazze mulacchione dagli occhi più
neri della notte fonda, dai fianchi ondeggianti come il mare di
scirocco, con il cuore sempre diviso a metà tra la vita e
la morte.
Se si potesse imbottigliare
Se si potesse imbottigliare
lodore dei nidi,
se si potesse imbottigliare
laria tenue e rapida
di primavera
se si potesse imbottigliare
lodore selvaggio delle piume
di una cincia catturata
e la sua contentezza,
una volta liberata.
Salvatore Toma
Si sottrae a ogni
categoria di tempo e di spazio, il Salento di Salvatore Toma. È
luogo che non esiste, terra che emerge dalle acque di una fantasia
a volte quieta, a volte sfrenata. Quello che importa a questa poesia
è cogliere il ritmo che appartiene solo alla fiaba, la sospensione,
il riverbero, lintensità dellemozione di una
percezione; quello che importa è solo immaginare che in questo
luogo sia possibile ipotizzare lassolutezza della pace, la
leggerezza di una condizione liberata da ogni affanno, da ogni sensazione
di disarmonia con il mondo; importa dire le stagioni del fiorire
e quelle dellappassire, limpulso che dà origine
al pensiero e al vento, il segreto che si cela in ogni movimento
del tempo, in ogni nascita, ogni morte; importa dire il rammarico
per limpossibilità di impossessarsi di quel segreto,
di farne memoria che vive oltre il tempo che è dato alle
creature, oltre lo spazio che circoscrive lesistenza. Che
cosè, allora, il desiderio di imbottigliare lodore
dei nidi, laria della primavera, lodore delle piume,
che cosè se non lingenuo sentimento di stringere
limpalpabile, di impossessarsi di qualcosa che non può
mai essere posseduto da nessuno?
Quello che interessa a Totò Toma è la poesia che è
nel desiderio. Sa che non si può imbottigliare lodore
dei nidi, laria della primavera. Ma sa anche che non esistono
limiti per un desiderio. E allora desidera limbottigliamento
dellessenza: perché lodore e laria sono
essenza incomparabile, irripetibile.
È una poesia tenera, questa; la sfumatura di un acquerello
su un foglio di scuola; è il sogno ad occhi aperti di un
bambino. Il Salento di Totò Toma è il luogo che apparve
agli occhi del primo uomo. Generato dal nulla, impastato di fiato,
di ritmo, di respiro, di armonia, di luce, di miraggio, tremito,
suono. Vibrazione. Toma vuole allontanare la terra dalla minaccia
della realtà, tenta di scongiurarne il declino, di evitare
la contaminazione, la corrosione del tempo. Toma tenta questo perché
sa che può riuscirci; sa che la complessità di una
poesia ha il potere di contenere tutta la complessità della
natura. In quellodore di nido, nellaria di una primavera,
nella contentezza di una cincia liberata, cè tutta
la felicità e la disperazione di esistere, di essere nel
tempo. E tutta la malinconia per uneternità impossibile.
Dei miei paesi
Quanto dei miei paesi mimpaura
è il barocco che resiste, le feste
ad ogni santo, leterna primavera
delle rose nei libri dei poeti.
Preferisco le storie dei vecchi
che parlano daltre feste, al lume
dellacetilene, finite a coltellate,
con la folla in clamore, in tumulto
a sfondare i portoni dei palazzi.
Lucio Romano
Poi,
alla fine, cè il rifiuto di ogni luogo comune e di
ogni poetica indulgente, di qualsiasi elemento che immobilizzi il
Salento in una forma stereotipata, in uno sterile cliché,
nella figurazione di un immaginario di asfittica ovvietà.
Alla fine cè il rifiuto di ogni alibi consolatorio
o cinico e di ogni simbolo privato dallessenza, di ogni parvenza
di banalità, dellinsignificanza di un presente edulcorato.
Con il mito di Ghiannis Ritzos, lascendente di Rocco Scotellaro,
la lezione di Tommaso e Vittore Fiore, Lucio Romano dichiara la
propria appartenenza esistenziale e culturale al passato. Non alla
nostalgia, però. La sua è appartenenza ad un passato
vivo, oppure a volte reinventato, ricostruito nella memoria con
unintenzionale confusione con il mito di un riscatto politico,
etico, sociale.

Il Salento di Lucio Romano è la terra che ha saputo liberarsi
dallassedio del fatalismo, dalla maledizione del pregiudizio,
che ha saputo adeguare alle mutazioni antropologiche la propria
fisionomia, che ha costantemente marcato la propria identità
nella relazione con il Mediterraneo e lEuropa, ma che nonostante
questo ancora si ritrova a pagare il conto ad un malinteso senso
delle radici, del genius loci, ad una logica della priori.
Ancora una volta aveva ragione Bodini quando scriveva che siamo
nati dicendo «a priori» e che ci è destino rimpiangere
«fin le cose che abbiamo / qui, vicino a noi, come fossero
/ miglia e miglia remote».
Lucio Romano, invece, non rimpiange le cose scomparse, non si rifugia
dentro un passato che può consolare leterna
disseccata primavera del presente; quello che vorrebbe riavere
è la forza dellutopia, lenergia per rinunciare
allacquisito e ricominciare ogni istante a sentirsi il cavaliere
senza paura che combatte il potere e lingiustizia, vorrebbe
ritrovare le piccole storie che a volte riescono a far dimenticare
la miseria, certi volti e certe braccia e certe voci nelle piazze,
un modo fanciullesco e innocente di credere di poter cambiare il
mondo, progettare un futuro di pace, fare di questa terra il luogo
dellincontro e della speranza.
Ancora unutopia. Unaltra utopia. Ma Lucio Romano ha
sempre creduto che senza utopie lesistenza non avrebbe avuto
né sentimento né ragione. Che non avrebbe avuto sentimento
né ragione unesistenza senza una poesia mescolata con
il sangue nelle vene.
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