Lemigrazione russa diviene
inevitabile, come
inevitabile diviene spalancare
voragini
allespansione
economica cinese.
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A Vladivostok i nordcoreani vivono dal quinto piano in su, in palazzi
popolari che destinano i primi livelli ai russi. Lì, stipati
come polli dallevamento, mangiano, dormono, studiano il pensiero
del dittatore che ha consentito loro una vita infame in patria e
una peggiore fra i boschi al confine, sul fiume Amur, dove i taglialegna
guadagnano più che in patria, ma devono versare al regime
una tangente pesante, perché è il loro Stato che gestisce
anche i muscoli e il sudore, consentendo una vita al limite della
schiavitù. Eppure, treni su treni scaricano qui migliaia
di esponenti di unumanità terremotata, di una transumanza
squinternata, di unillusione di fuga da un Paese-gulag verso
le segherie-gulag controllate dagli spioni mandati dai satrapi della
Corea del Nord.
Eppure, malgrado questo, i grandi numeri della tajga del Wild East
russo non li fa Pyongyang. Li fa Pechino. Mai la Cina è stata
tanto vicina, e mai Mosca è stata tanto lontana dalle marche
russe dOriente. Da sud avanzano, lungo la linea di confine
del fiume Amur, gli agricoltori cinesi armati di zappa e di vanghe,
con serre prefabbricate sulle spalle, mentre biondi (e pallidi)
slavi si spostano verso Occidente. In un territorio immenso (6 milioni
di chilometri quadrati, il 37 per cento dellintera Federazione
Russa) vivevano nel 1990 circa nove milioni di cittadini russi.
Oggi sono sei milioni. Ogni anno, cinquemila giovani diplomati lasciano
la regione di Primorskie (quella di Vladivostok) e vanno a Mosca
o allestero. Si ritiene che nel 2010 in tutto il suo Oriente
estremo la Russia non avrà più di quattro milioni
di cittadini, (come dire: metà della Lombardia), mentre sulle
frontiere si appoggiano gli abitanti delle province cinesi di Jelin,
Heilongjiang, Liaoning, che significa cento milioni di persone,
pari a due terzi dei cittadini dellintera Russia, decine di
volte in più di chi resiste nelle regioni orientali.
È limmagine di uninvasione già perfezionata,
visto che la gente del luogo considera realtà quella che
volgarmente è definita una minaccia gialla. E
se numeri e statistiche possono essere dibattuti, nessuno contesta
un trend che traccia la marcia di Pechino sui territori di Mosca.
Nella provincia di Oktjabrskaja, a 150 chilometri da Vladivostok
e a 100 dal confine, le pianure abbandonate dopo la scomparsa delle
fattorie collettive sovietiche sono punteggiate dalle serre di lavoratori
stagionali cinesi. Per otto mesi allanno vi si producono ortaggi
e frutta, che poi vanno a finire sui mercati di città lontane,
dove lavorano solo i cinesi autorizzati. In quellarco di tempo
i lavoratori guadagnano oltre 800 dollari; in patria, ne avrebbero
guadagnati appena 450.

È unimmagine che si ripete in tutte le zone di confine
e che si insinua progressivamente verso nord. Leconomia del
Far East russo, forziere di infinite materie prime (legno, oro,
diamanti, ma anche gas e petrolio), è in via di progressiva,
massiccia cinesizzazione. Con scorribande nordcoreane di lieve entità.
Tutti i mercati sono gestiti dai cinesi, tutti i prodotti venduti
sono cinesi, la catena alimentare è controllata totalmente
dai cinesi, non solo da quelli che lavorano la terra, ma dai businessmen
che la prendono in concessione dallamministrazione russa.
Lorientalizzazione è evidente in tutti i settori: il
legname e il ferro vanno alla Cina, il pescato alla Corea e al Giappone,
da Tokyo arrivano auto usate che sono poi rivendute in tutta la
Russia. Leconomia è, per ora, quasi tutta qui: sfruttamento
del suolo e del mare, e commerci; mentre lindustria militare
e lindotto creato dalla flotta russa del Pacifico si sono
ristretti a meno di metà dellepoca sovietica.
Le conseguenze della de-sovietizzazione sono la ragione principale
di un tracollo dettato dalle regole del mercato. Via i sussidi,
via la produzione e via la gente. Dicono nellarea: nel 1980
per andare a Mosca in aereo era sufficiente il salario di un mese
di un giovane ricercatore; oggi sono necessari cinque stipendi.
Lemigrazione russa diviene inevitabile, e inevitabile diviene
spalancare voragini allespansione economica cinese, perché
qui si ritiene che Mosca non faccia nulla per chi vive oltre il
lago Bajkal.
Il presidente russo, nel discorso alla nazione del maggio 2006,
aveva denunciato con forza i pericoli del calo demografico russo,
nel Far East in particolare. I rimedi proposti attualmente sono
agevolazioni economiche al trasferimento di cittadini dellex
Urss nelle marche della Federazione. Pochi credono che basterà,
perché lavanzata di Pechino non è più
soltanto loccupazione economica di aree in abbandono; si fa
largo la percezione che la migrazione in Russia sia un deliberato
progetto politico con due obiettivi: riprendere il controllo sul
territorio a nord del fiume Amur, ceduti nel XIX secolo, e ancora
oggi indicati sulle mappe con nomi cinesi, e controllare le risorse
naturali di queste terre. La provincia di Heilongjiang ha messo
il Far East russo al centro del suo programma di sviluppo. Gli stessi
leader di Pechino incoraggiano questa tendenza.
Unespansione attraverso il dominio assoluto delle leve economiche
che poggia sulla compiacenza del sistema amministrativo locale:
le concessioni agricole e per lo sfruttamento delle terre sono date
ai cinesi perché il livello di corruzione fra le autorità
è molto elevato. Il commercio è quasi tutto illegale,
treni che si portano via foreste o intere fabbriche dismesse passano
i confini senza pagare un solo rublo alla frontiera doganale. E
lo stesso accade per i prodotti pescati: il 70 per cento della produzione
se ne va in Corea e in Giappone, evitando lerario russo. Frontiere
porose e autorità morbide sono secondo
le mille voci di una città bellissima, anche se in parte
devastata dalla piaga dellurbanistica di stampo sovietico
lultima conseguenza degli anni Novanta, stagione ad
altissimo tasso di violenza. Allepoca, anche i boss erano
di qui. Oggi pure quelli sono cinesi. Ai russi sembra essere rimasto
soltanto il posto di manovale nelle bande di Pechino.
Ma lipotesi più verosimile sembra essere unaltra.
Per arrivare a petrolio, gas, metalli e carbone, la Cina mette le
mani sulle foreste, appunto, sui terreni agricoli e su altre ricchezze
naturali dellarea. Passando attraverso la Siberia, dove le
società cinesi stanno per ottenere dalle autorità
russe concessioni per avviare la produzione industriale di legname
su un nuovo terreno di un milione di ettari, lespansione economica
cinese è praticamente arrivata agli Urali: nella regione
di Sverdlovsk le autorità russe sembrano disposte a cedere
in affitto ai cinesi, per 49 anni, centinaia di migliaia di ettari
di terreni coltivabili abbandonati.
Dunque, linfiltrazione di massa di immigrati cinesi in Russia
dura ormai da più di dieci anni: secondo le stime ufficiali
del Cremlino lungo il confine russo-cinese si troverebbero attualmente
250-300 mila clandestini. Gli esperti indipendenti sostengono però
che gli immigrati illegali potrebbero già essere arrivati
a un milione e mezzo. Senza elettricità, senza acqua corrente,
gli abitanti dei villaggi-fantasma sono coinvolti nella produzione
abusiva di legname, nella coltivazione di patate, mentre percorrono
la tajga siberiana in cerca di oro, di gingseng, di piante curative
e di animali ampiamente usati dalla medicina tradizionale cinese.
A margine del summit del G-8 a San Pietroburgo, il presidente cinese
ha ottenuto dal suo omologo russo un nullaosta alla legalizzazione
di questa impressionante presenza economica, che finora aveva arrecato
solo danni milionari alla Russia e che Mosca non sembrava più
intenzionata a tollerare. Ma i primi accordi tra Cina e Russia hanno
consentito di capire che nel mirino delle ambizioni espansionistiche
della Cina si sono trovate anche le ricche regioni industriali,
geograficamente lontane dalle zone di penetrazione tradizionale
della Siberia e dellEstremo Oriente.
Come quella di Tjumen, ricca di petrolio e di gas, dove nellambito
di un primo progetto-pilota la Cina intende ottenere dalla Russia
un milione di ettari di tajga, da utilizzare per produrre legname,
carta e cellulosa: la costruzione di un maxi-complesso industriale
comporterà per la Cina un investimento di 1,5 miliardi di
dollari.
Intanto, Pechino rafforza le pressioni su Mosca perché aumenti
le esportazioni in Cina di materie prime: nei primi sette mesi del
2006 le forniture di greggio dalla Russia sono aumentate del 23
per cento rispetto al corrispondente periodo dellanno precedente.
Nellintero 2006 la Cina prevede di importare 110 milioni di
barili di greggio siberiano, mentre Pechino ritiene che entro il
2020 la Cina investirà in progetti russi fino a 20 miliardi
di dollari. Da Vladivostok agli Urali. E forse anche oltre, verso
Occidente.
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