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A quarantanni dalla morte di Ernesto de Martino, avvenuta
il 6 maggio 1965, il revival demartiniano non conosce battute darresto,
consacrando sempre più letnologo napoletano come uno
«dei maggiori intellettuali del Novecento italiano»,
per usare le parole di Clara Gallini. Non sempre infatti le sue
anticipatorie posizioni furono capite e condivise (celebre in tal
senso la tagliente recensione in quattro parole che
Paolo Toschi dedicò nel 1962 a Furore, simbolo, valore: «Furore
molto, valore poco»), un atteggiamento che, dentro e fuori
il mondo accademico, durerà per lungo tempo dopo la morte.
Allievo di Adolfo Omodeo allUniversità di Napoli, poi
crociano inquieto, marxista irregolare e intellettuale costantemente
impegnato a coniugare attività scientifica e passione civile,
de Martino fu autore di opere come Il mondo magico, Morte e pianto
rituale, Sud e magia, considerate ormai dei classici della tradizione
antropologica italiana. Nellestate del 1959, nel corso dellinchiesta
sul tarantismo, sperimentò proprio nel Salento un raffinato
e innovativo metodo di indagine multidisciplinare dei fenomeni culturali.
Unesperienza fondativa per lantropologia italiana, dalla
quale scaturì poi, due anni più tardi, La terra del
rimorso, un libro di culto, che il revival della pizzica ha trasformato
in unicona del nuovo rinascimento salentino. Ad
accompagnarlo in quel viaggio (con letnomusicologo Diego Carpitella,
lo psichiatra Giovanni Jervis, il fotografo Franco Pinna, lantropologa
Annabella Rossi, Vittoria De Palma e Letizia Jervis) cera
anche la giovanissima Amalia Signorelli, oggi docente di Antropologia
Culturale allUniversità Federico II di Napoli. Autrice
di studi e ricerche sullemigrazione, sulla condizione femminile
e sullantropologia delle società complesse, Signorelli
è attualmente impegnata nella pubblicazione degli inediti
relativi alla Terra del rimorso presso leditrice Argo di Lecce.
Unoccasione importante per tornare a riflettere sulla complessa
eredità demartiniana.
Professoressa Signorelli, come ha conosciuto de Martino?
Incontrai de Martino nel più ovvio dei modi: andando a sentire
una sua lezione. Era lanno accademico 1954-55 e de Martino,
in qualità di libero docente, teneva un corso di Etnologia
nella Facoltà di Lettere dellUniversità di Roma.
Folgorata fin dalla prima lezione che ascoltai, inserii il suo esame
nel mio piano di studi. Come esame complementare in verità,
giacché pensavo di fare larcheologa. Il corso demartiniano
era sul lamento funebre lucano; il programma desame, oltre
alle dispense sul lamento funebre (che anticipavano parti di Morte
e pianto rituale), comprendeva il secondo capitolo de Il mondo magico.
Non eravamo più di quattro o cinque studentesse a seguire
le sue lezioni. Ancora oggi sono convinta che siano state le più
belle e le più formative che io abbia mai ascoltato in tutta
la mia vita, non solo alluniversità.
Il fatto è che in ogni singola lezione de Martino metteva
in gioco quella che poi, con gli anni, ho imparato essere la sua
costruzione teoretica: ad ogni lezione, ad ogni presentazione di
materiali etnografici, de Martino riviveva e faceva vivere a noi
lo scandalo dellincontro etnografico. Scandalo intellettuale
ben prima che morale o politico, scandalo dellinsufficienza
della ragione occidentale egemone, scandalo della reciproca cecità
e sordità, che ci impegnava già fin da allora, ben
prima che il concetto fosse da lui stesso formulato, alla pratica
delletnocentrismo critico e allelaborazione di un ethos
dell«andare oltre la datità della situazione».
E poi cera il linguaggio demartiniano. La mia opinione è
che il linguaggio, lo stile, la scrittura demartiniana sono originali
e adeguati. Originali perché adeguati, adeguati perché
originali. Adeguati, anzi continuamente in corso di adeguamento
allespressione di un pensiero che si alimentava in modi ugualmente
rigorosi di riflessione teoretica, esperienza etnografica e introspezione
personale e riusciva a fondere tutto ciò in prodotti scientifici
di altissima qualità. Insomma, come si sarà capito,
abbandonai larcheologia e chiesi la tesi di laurea a un de
Martino per la verità contentissimo di assegnarmela. Un anno
dopo la laurea, tra la fine dellinverno 1958 e linizio
della primavera 1959, mi chiamò per partecipare alla spedizione
nel Salento.
Possiamo ricostruire brevemente quellesperienza?
Non posso ricostruire qui lesperienza della ricerca etnografica
in Salento. Non sarei capace di rendere in poche righe una vicenda
di grande complessità. Né potrei dire gran che sulluomo
de Martino; per me, allora giovanissima studiosa, lui era il professore;
poi è sempre stato lintellettuale. Anche le debolezze,
le incoerenze, persino certe grettezze che unaneddotica non
sempre allinsegna della discrezione ha messo in circolazione
furono pur sempre, per quanto ne posso capire, vissute ed elaborate
da intellettuale. Nel bene e nel male.
A quarantanni dalla morte di Ernesto de Martino se ne riscopre
la personalità complessa non solo di etnologo, ma anche di
profondo analista della crisi del nostro tempo, il signore
del limite, in costante dialogo con le più avanzate
correnti culturali del suo tempo. Eppure non fu sempre così.
Per molto tempo dopo la morte fu vittima di una vera e propria damnatio
memoriae.
In un certo senso questa dominanza, questa prevalenza del de Martino
intellettuale sul de Martino accademico ha condizionato anche lapproccio
alla sua opera dopo la sua morte, quella che un tempo si usava chiamare
la fortuna di un autore. Gli esegeti si sono trovati
di fronte a molti problemi: la difficoltà di ascrivere la
sua opera a un ambito disciplinare accademicamente individuato;
la difficoltà di riconoscere il rigore argomentativo e la
ricchezza interpretativa di una lingua e di uno stile anchessi
assai poco disciplinari; la spregiudicatezza demartiniana,
tanto poco accademica quanto intellettualmente provocatoria, nelluso
di categorie di origine venerabile, da quelle crociane
a quelle heiddegeriane a quelle dello storicismo italiano di sinistra;
il coinvolgimento personale di de Martino nellesplorazione
di ambiti di ricerca considerati di dubbia dignità scientifica,
come la parapsicologia e la metapsichica; la complicata e contraddittoria
quanto feconda vicenda della Collana viola einaudiana (così
ben ricostruita da Angelini nel suo libro del 1991); i legami e
i nessi, indiretti certo, che le opere hanno con lattività
politica di de Martino. Di fronte a uneredità intellettuale
complessa e contraddittoria come quella demartiniana ci sono state
diverse reazioni: il disorientamento, i silenzi e le dimenticanze
dei primi anni dopo la sua morte, poi invece studi e ricerche sempre
più numerosi, quasi sempre impegnati a dimostrare lappartenenza
prevalente di de Martino a una determinata area disciplinare, che
si tratti della filosofia, della storia delle religioni, della storia
meridionalistica, delle tradizioni popolari, della psichiatria e
delletnopsichiatria, dellantropologia visuale, delletnomusicologia.
Contributi anche importanti, illuminanti, però parziali.
È da sottolineare che negli ultimi decenni si è imposto
un altro orientamento: sono usciti contributi alla conoscenza di
de Martino assai significativi sul piano storico-filologico, che
ancorano a caposaldi solidi il lavoro di interpretazione delle sue
opere.
La trilogia etnografica demartiniana (Sud e magia,
Morte e pianto rituale, La terra del rimorso)
fu secondo alcuni studiosi il momento in cui de Martino operò
una ricomposizione unitaria tra lo studio della cultura meridionale
e la ricerca storico-religiosa. Per de Martino insomma fu sempre
centrale il tema del rapporto tra attività di ricerca e impegno
civile. Come interpreta il rapporto tra queste due dimensioni dellelaborazione
demartiniana?
La riflessione politica di de Martino fu intensa e anche generosa,
segnata da passaggi spesso drammatici dentro e fuori partiti e organizzazioni,
e al tempo stesso oggetto continuo di riflessione autocritica, di
dubbi, di contrasti con se stesso prima ancora che con gli altri,
nello sforzo di trovare i nodi di inserzione, forse di integrazione,
tra impegno politico e lavoro scientifico (su questo punto si veda
ad esempio il carteggio con Pietro Secchia ricostruito da Riccardo
Di Donato in Compagni e amici, del 1993): sono i tratti non solo
dellopera ma della biografia di un intellettuale, nel senso
della biografia di un uomo che, mentre era nel mondo, costantemente
pensava il mondo, se stesso nel mondo e langoscia propria
e altrui di fronte al rischio di non esserci.
Lei sta curando la pubblicazione dei materiali inediti della Terra
del rimorso. Quali novità ci si può attendere
da questo lavoro di scavo negli inediti demartiniani?
La pubblicazione dei materiali darchivio relativi alla Terra
del rimorso sarà loccasione, mi auguro, per approfondire
il tema delletnografia di de Martino, curiosamente uno dei
meno frequentati nella letteratura demartiniana recente, a parte
il doveroso riconoscimento, venuto un po da tutti, della introduzione
nella ricerca italiana degli anni 50, delléquipe
di ricerca multidisciplinare. In verità letnografia
demartiniana pone alcuni problemi di grande portata metodologica
ed epistemologica: la spedizione demartiniana è
il contrario della prolungata full immersion degli autori delle
classiche monografie etnologiche e antropologiche, ma non ha niente
neppure delle non meno classiche campagne di raccolta di materiali
e reperti dalla culla alla bara, dei tradizionali studi di folklore.
Questa eterodossia metodologica demartiniana rispetto a modelli
di tutto rispetto che vanno da Malinowsky a Evans-Pritchard, ma
anche da Van Gennep a Pitré, credo che meriti una discussione
approfondita. Personalmente mi sembra che siano temi da affrontare:
la fondazione scientifica della metodologia demartiniana, la sua
attualità in ambito disciplinare in rapporto agli sviluppi
di quella che oggi chiamiamo lantropologia delle società
complesse, i nessi che legano il lavoro etnografico demartiniano
con la teoria e la pratica delletnocentrismo critico.
Questo delletnografia è sicuramente uno dei temi costitutivi
delleredità che de Martino ha lasciato allantropologia
italiana e mondiale. Un altro tema fondamentale che sottende tutta
lopera demartiniana è quello del rapporto tra simbolo
e concetto, tra sfera dellextrarazionale e sfera della razionalità.
Lavorando sul problema dei poteri magici, sulla efficacia
del simbolo, de Martino ha saputo ricostruire quel dramma
storico del mondo magico, la comprensione del quale gli ha
permesso di riscattare la sfera magico-religiosa da tutte le interpretazioni
riduttive di matrice evoluzionista, positivista, ma anche idealista
o funzionalista, per restituirla nella sua interezza alla storia
culturale dellumanità. È superfluo sottolineare
lenorme portata di questo contributo demartiniano, sullimportanza
del quale concordano tutti i maggiori studiosi.
In quel libro complesso, denso di indicazioni di ricerca ancora
inesplorate, cerano anche altri importanti nodi tematici.
In de Martino cè anche il richiamo costante anche se
più sommesso, meno in primo piano nei suoi lavori, allaltra
faccia del problema dellefficacia simbolica: lo chiamerò
il problema della inefficacia della ragione. La domanda come
funziona il simbolo implica sempre una sorta di controdomanda:
perché in questo caso non funziona la ragione?
Può sembrare che de Martino abbia privilegiato la prima domanda,
nellarco delle sue ricerche; ma a me sembra che la seconda
non è mai accantonata o dimenticata. Non viene però
posta in termini astratti, generali. Tutta la riflessione demartiniana
si svolge, produce il suo senso e acquista il suo incomparabile
spessore proprio a partire da esperienze concrete della contraddizione
tra razionale e irrazionale, a partire appunto dallo scandalo iniziale
dellincontro etnografico. Sono esperienze intellettualmente
pericolose, esistenzialmente dolorose, ma anche passibili di esiti
liberatori, gioiosi, se e quando, per il soggetto che ne è
protagonista, inaugurano una nuova fase del suo esserci nel mondo.
Insomma, se la crisi della presenza si risolve entro un orizzonte
culturale che consente di destorificare il negativo, la risoluzione
della crisi restituisce al soggetto la sua capacità di intendere
e di volere, di scegliere, decidere e operare secondo valori. E
apre, per il soggetto stesso, ma anche per lantropologo che
sulla sua vicenda riflette, non solo la questione dei valori ma
anche quella dellintellegibilità del mondo. E della
praticabilità del mondo. Mi sembrano direttamente collegate,
e conseguenti con questa problematica, le riflessioni di de Martino
sul tema della domesticità utilizzabile, contenute nella
Fine del mondo. E mi sembra che in questa direzione vada anche linterpretazione
di Tullio Altan in Soggetto, simbolo, valore.
Dopo decenni di oblio, il tarantismo torna al centro dellinteresse
di studiosi, antropologi, sociologi. Il Salento è nuovamente
un terreno di osservazione privilegiato per lantropologia
italiana che ferma lattenzione sulle pratiche reinventive
di tradizioni locali come fondamento dellappartenenza territoriale.
Il tarantismo insomma entra a pieno titolo nella riflessione sullidentità
locale. Come giudica lei questa rivitalizzazione del mito della
taranta in chiave turistico-culturale?
Sembra che il tarantismo sia ritornato almeno secondo
due modalità: come oggetto di studio, che ha provocato la
sorprendente fioritura di studi e ricerche; e come pratica coreutico-musicale,
che coinvolge gruppi e singoli, per lo più giovani (ma non
solo) nel Salento (ma non solo) e che culmina nella Notte
della Taranta celebrata a Melpignano nel cuore dellestate.
La differenza sostanziale di questa pratica rispetto al tarantismo
che avemmo modo di osservare nellestate del 59 credo
stia innanzi tutto nel mutamento dellorizzonte culturale entro
il quale il simbolo della taranta acquista significato e valore
per i soggetti che ad esso si richiamano.
Lorizzonte di Maria di Nardò e delle sue compagne era
magico-religioso: attesa e temuta, adorcisticamente richiamata nella
fase della progressiva costruzione della sindrome di possessione
ed esorcisticamente cacciata nella fase della danza e dei suoni,
fino al suggello apposto allavvenuta guarigione dalla visita
in cappella, comunque la taranta era emissaria di San Paolo. Veniva
da lui, lui la mandava, lui la toglieva, in molti modi si identificava
con lui. Di conseguenza il Santo diveniva ministro di afflizione
e di liberazione, di morso e di lenimento, di dolore e di piacere.
Oggi la taranta non è un lui (lei) quanto piuttosto
un noi: lorizzonte entro il quale laracnide
diviene simbolo è oggi lorizzonte identitario. La stessa
riproposizione attuale del simbolo, del nome, delle musiche e delle
figure della danza, nel momento in cui rivendica lidentità
con quelle del passato, in realtà ne determina la differenziazione:
il contenuto che dà valore al simbolo non è più
la costruzione dellintimità tra il Santo e la donna
tarantata, intimità critica che trovava il suo acme e si
risolveva nella concessione da parte del Santo della grazia;
il contenuto oggi è la costruzione, allinterno di un
evento, di unintimità di massa, basata sulla messa
in scena, sulla spettacolarizzazione di una virtuale continuità
di tempo e di luogo con un passato che non importa che passi o torni
e rimorda, ma che semplicemente viene rivendicato come nostro.
E non importa neppure se, tra i giovani che ballano per tutta la
notte, quelli provenienti da fuori non sono meno numerosi
dei salentini. In fondo non è questa una patria culturale?
Non si corre il rischio di un nuovo esotismo?
Se questa interpretazione è corretta, non mi sembra che il
nuovo esotismo sia la sola caratteristica significativa di questo
tarantismo. Certo, ci saranno sicuramente i turisti che vengono
per vedere la Notte della Taranta, così come
ci saranno le agenzie di viaggi che vendono lo spettacolo
e le Amministrazioni locali che lo usano come richiamo turistico;
ci saranno anche attori, ballerini e musicisti pagati da quelle
stesse Amministrazioni per interpretare tarantati, tarantate e suonatori:
ma non credo che il ritorno del tarantismo si esaurisca su questo
piano di produzione e commercializzazione di un esotico folklorico.
Mi sembra almeno altrettanto importante e significativo il processo
per mezzo del quale da un lato si recupera una tradizione locale
secondo forme più immaginate che filologicamente ricostruite,
e dallaltro, per celebrare questa tradizione, per recuperarla
a fini identitari, si costruisce un evento, vale a dire la forma
più tipicamente globale che negli ultimi anni ha assunto
la partecipazione giovanile alla produzione e al consumo culturale.
Ma è giusto: lidentità locale non acquista valore
se non in un contesto che la rende visibile, che consente di spenderla
a scala globale ; e levento è la modalità organizzativa
che meglio realizza oggi questa inserzione.
Negli ultimi dieci anni il tarantismo ha stimolato una straordinaria
produzione saggistica che ha indagato quasi ogni ambito del fenomeno.
Tuttavia cè ancora qualcosa che sembra sfuggire alla
comprensione degli studiosi. Secondo lei, quali sono i campi ancora
poco esplorati nella complessa storia culturale del fenomeno?
Comè noto, le reinvenzioni delle tradizioni locali
al fine di dare fondamenti territoriali alle identità si
sono moltiplicate negli ultimi dieci, quindici anni; ma poche o
forse nessuna in Italia ha avuto il successo del revival del tarantismo.
Come si spiega questa persistente capacità di richiamo e
di coinvolgimento della taranta?
Credo che da questo dato bisognerebbe partire per indagare su ciò
che ancora ci sfugge nella comprensione della complessa storia culturale
del tarantismo. E forse potrebbe essere utile uscire dalla prospettiva
dellapprofondimento in qualche modo prevalentemente idiosincratico,
che caratterizza una parte non piccola della saggistica recente,
per recuperare limpostazione storico-comparativa che de Martino
stesso utilizza nella terza parte della Terra del rimorso, impostazione
che potrebbe allargarsi a comprendere, come già per il Ian
Lewis di Le religioni estatiche, molti istituti culturali anche
diversi e distanti fra loro, ma tutti in grado di rispondere a un
bisogno che, forse, è «elementarmente umano».
Nota bibliografica
Tra gli strumenti utili per accostarsi al pensiero demartiniano
vanno segnalati almeno alcuni contributi: Clara Gallini, Introduzione
a Morte e pianto rituale, Bollati Boringhieri, 2000 (ed. or.
1958); Sud e magia, Feltrinelli, 2001, (ed. or. 1959) con
introduzione di Umberto Galimberti; Furore simbolo valore,
Feltrinelli, 2002, introduzione di Marcello Massenzio (ed.
or. 1962); La fine del mondo. Contributo allanalisi
delle apocalissi culturali, Einaudi, 2002, con introduzione
di Clara Gallini e Marcello Massenzio (ed. or.1977).
Tra gli studi incentrati sul percorso intellettuale di de
Martino si segnalano inoltre Placido Cherchi, Il signore del
limite. Tre variazioni critiche su Ernesto de Martino, Liguori,
1994; Clara Gallini-Marcello Massenzio, (a cura di), Ernesto
de Martino nella cultura europea, Liguori, 1997; Riccardo
di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto
de Martino, Manifestolibri, 1999; Clara Gallini-Antonio Faeta,
(a cura di), I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, Bollati
Boringhieri, 1999; Gennaro Sasso, Ernesto de Martino tra religione
e filosofia, Bibliopolis, 2001. Nella collana Lopera
di Ernesto de Martino, delleditore Argo di Lecce,
sono state pubblicate in edizione critica alcune opere edite
e inedite di de Martino (Naturalismo e storicismo nelletnologia,
1996, ed. or. 1941, i materiali darchivio della ricerca
in Lucania).
Notevole anche la mole degli studi sul tarantismo apparsi
dopo La terra del rimorso (pubblicato nel 1961 e più
volte ristampato fino al 1994) con un significativo incremento
negli ultimi dieci anni. Per un quadro del dibattito più
recente, vanno citati almeno i saggi raccolti in Quarantanni
dopo de Martino. Il tarantismo. Atti del convegno di Galatina
del 24 e 25 ottobre 1998, 2 volumi, Besa, 2000; e quelli pubblicati
in Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti
del Salento, a cura di Vincenzo Santoro-Sergio Torsello, Aramirè,
2002, che offre un compendio del dibattito contemporaneo sulle
relazioni tra tarantismo, riflessione identitaria e revival
della pizzica. Per una rassegna bibliografica ragionata, Gabriele
Mina-Sergio Torsello, La tela infinita. Bibliografia sul tarantismo
mediterraneo dal 1945 al 2004, Besa, 2004, con una sezione
dedicata agli studi demartiniani dopo il 1986.
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