Giugno 2005

Magia simbolo identità

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La sfida intellettuale
di Ernesto de Martino
Sergio Torsello
 
 

 

 

 

A quarant’anni dalla morte di Ernesto de Martino, avvenuta il 6 maggio 1965, il revival demartiniano non conosce battute d’arresto, consacrando sempre più l’etnologo napoletano come uno «dei maggiori intellettuali del Novecento italiano», per usare le parole di Clara Gallini. Non sempre infatti le sue anticipatorie posizioni furono capite e condivise (celebre in tal senso la tagliente “recensione in quattro parole” che Paolo Toschi dedicò nel 1962 a Furore, simbolo, valore: «Furore molto, valore poco»), un atteggiamento che, dentro e fuori il mondo accademico, durerà per lungo tempo dopo la morte.
Allievo di Adolfo Omodeo all’Università di Napoli, poi crociano inquieto, marxista irregolare e intellettuale costantemente impegnato a coniugare attività scientifica e passione civile, de Martino fu autore di opere come Il mondo magico, Morte e pianto rituale, Sud e magia, considerate ormai dei classici della tradizione antropologica italiana. Nell’estate del 1959, nel corso dell’inchiesta sul tarantismo, sperimentò proprio nel Salento un raffinato e innovativo metodo di indagine multidisciplinare dei fenomeni culturali. Un’esperienza fondativa per l’antropologia italiana, dalla quale scaturì poi, due anni più tardi, La terra del rimorso, un libro di culto, che il revival della pizzica ha trasformato in un’icona del nuovo “rinascimento” salentino. Ad accompagnarlo in quel viaggio (con l’etnomusicologo Diego Carpitella, lo psichiatra Giovanni Jervis, il fotografo Franco Pinna, l’antropologa Annabella Rossi, Vittoria De Palma e Letizia Jervis) c’era anche la giovanissima Amalia Signorelli, oggi docente di Antropologia Culturale all’Università Federico II di Napoli. Autrice di studi e ricerche sull’emigrazione, sulla condizione femminile e sull’antropologia delle società complesse, Signorelli è attualmente impegnata nella pubblicazione degli inediti relativi alla Terra del rimorso presso l’editrice Argo di Lecce. Un’occasione importante per tornare a riflettere sulla complessa eredità demartiniana.
Professoressa Signorelli, come ha conosciuto de Martino?
Incontrai de Martino nel più ovvio dei modi: andando a sentire una sua lezione. Era l’anno accademico 1954-‘55 e de Martino, in qualità di libero docente, teneva un corso di Etnologia nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma. Folgorata fin dalla prima lezione che ascoltai, inserii il suo esame nel mio piano di studi. Come esame complementare in verità, giacché pensavo di fare l’archeologa. Il corso demartiniano era sul lamento funebre lucano; il programma d’esame, oltre alle dispense sul lamento funebre (che anticipavano parti di Morte e pianto rituale), comprendeva il secondo capitolo de Il mondo magico. Non eravamo più di quattro o cinque studentesse a seguire le sue lezioni. Ancora oggi sono convinta che siano state le più belle e le più formative che io abbia mai ascoltato in tutta la mia vita, non solo all’università.

Il fatto è che in ogni singola lezione de Martino metteva in gioco quella che poi, con gli anni, ho imparato essere la sua costruzione teoretica: ad ogni lezione, ad ogni presentazione di materiali etnografici, de Martino riviveva e faceva vivere a noi lo scandalo dell’incontro etnografico. Scandalo intellettuale ben prima che morale o politico, scandalo dell’insufficienza della ragione occidentale egemone, scandalo della reciproca cecità e sordità, che ci impegnava già fin da allora, ben prima che il concetto fosse da lui stesso formulato, alla pratica dell’etnocentrismo critico e all’elaborazione di un ethos dell’«andare oltre la datità della situazione».
E poi c’era il linguaggio demartiniano. La mia opinione è che il linguaggio, lo stile, la scrittura demartiniana sono originali e adeguati. Originali perché adeguati, adeguati perché originali. Adeguati, anzi continuamente in corso di adeguamento all’espressione di un pensiero che si alimentava in modi ugualmente rigorosi di riflessione teoretica, esperienza etnografica e introspezione personale e riusciva a fondere tutto ciò in prodotti scientifici di altissima qualità. Insomma, come si sarà capito, abbandonai l’archeologia e chiesi la tesi di laurea a un de Martino per la verità contentissimo di assegnarmela. Un anno dopo la laurea, tra la fine dell’inverno 1958 e l’inizio della primavera 1959, mi chiamò per partecipare alla spedizione nel Salento.
Possiamo ricostruire brevemente quell’esperienza?
Non posso ricostruire qui l’esperienza della ricerca etnografica in Salento. Non sarei capace di rendere in poche righe una vicenda di grande complessità. Né potrei dire gran che sull’uomo de Martino; per me, allora giovanissima studiosa, lui era il professore; poi è sempre stato l’intellettuale. Anche le debolezze, le incoerenze, persino certe grettezze che un’aneddotica non sempre all’insegna della discrezione ha messo in circolazione furono pur sempre, per quanto ne posso capire, vissute ed elaborate da intellettuale. Nel bene e nel male.
A quarant’anni dalla morte di Ernesto de Martino se ne riscopre la personalità complessa non solo di etnologo, ma anche di profondo analista della crisi del nostro tempo, il “signore del limite”, in costante dialogo con le più avanzate correnti culturali del suo tempo. Eppure non fu sempre così. Per molto tempo dopo la morte fu vittima di una vera e propria “damnatio memoriae”.

In un certo senso questa dominanza, questa prevalenza del de Martino intellettuale sul de Martino accademico ha condizionato anche l’approccio alla sua opera dopo la sua morte, quella che un tempo si usava chiamare la “fortuna” di un autore. Gli esegeti si sono trovati di fronte a molti problemi: la difficoltà di ascrivere la sua opera a un ambito disciplinare accademicamente individuato; la difficoltà di riconoscere il rigore argomentativo e la ricchezza interpretativa di una lingua e di uno stile anch’essi assai poco “disciplinari”; la spregiudicatezza demartiniana, tanto poco accademica quanto intellettualmente provocatoria, nell’uso di categorie di origine “venerabile”, da quelle crociane a quelle heiddegeriane a quelle dello storicismo italiano di sinistra; il coinvolgimento personale di de Martino nell’esplorazione di ambiti di ricerca considerati di dubbia dignità scientifica, come la parapsicologia e la metapsichica; la complicata e contraddittoria quanto feconda vicenda della Collana viola einaudiana (così ben ricostruita da Angelini nel suo libro del 1991); i legami e i nessi, indiretti certo, che le opere hanno con l’attività politica di de Martino. Di fronte a un’eredità intellettuale complessa e contraddittoria come quella demartiniana ci sono state diverse reazioni: il disorientamento, i silenzi e le dimenticanze dei primi anni dopo la sua morte, poi invece studi e ricerche sempre più numerosi, quasi sempre impegnati a dimostrare l’appartenenza prevalente di de Martino a una determinata area disciplinare, che si tratti della filosofia, della storia delle religioni, della storia meridionalistica, delle tradizioni popolari, della psichiatria e dell’etnopsichiatria, dell’antropologia visuale, dell’etnomusicologia. Contributi anche importanti, illuminanti, però parziali. È da sottolineare che negli ultimi decenni si è imposto un altro orientamento: sono usciti contributi alla conoscenza di de Martino assai significativi sul piano storico-filologico, che ancorano a caposaldi solidi il lavoro di interpretazione delle sue opere.
La “trilogia etnografica” demartiniana (“Sud e magia”, “Morte e pianto rituale”, “La terra del rimorso”) fu secondo alcuni studiosi il momento in cui de Martino operò una ricomposizione unitaria tra lo studio della cultura meridionale e la ricerca storico-religiosa. Per de Martino insomma fu sempre centrale il tema del rapporto tra attività di ricerca e impegno civile. Come interpreta il rapporto tra queste due dimensioni dell’elaborazione demartiniana?
La riflessione politica di de Martino fu intensa e anche generosa, segnata da passaggi spesso drammatici dentro e fuori partiti e organizzazioni, e al tempo stesso oggetto continuo di riflessione autocritica, di dubbi, di contrasti con se stesso prima ancora che con gli altri, nello sforzo di trovare i nodi di inserzione, forse di integrazione, tra impegno politico e lavoro scientifico (su questo punto si veda ad esempio il carteggio con Pietro Secchia ricostruito da Riccardo Di Donato in Compagni e amici, del 1993): sono i tratti non solo dell’opera ma della biografia di un intellettuale, nel senso della biografia di un uomo che, mentre era nel mondo, costantemente pensava il mondo, se stesso nel mondo e l’angoscia propria e altrui di fronte al rischio di non esserci.
Lei sta curando la pubblicazione dei materiali inediti della “Terra del rimorso”. Quali novità ci si può attendere da questo lavoro di scavo negli inediti demartiniani?
La pubblicazione dei materiali d’archivio relativi alla Terra del rimorso sarà l’occasione, mi auguro, per approfondire il tema dell’etnografia di de Martino, curiosamente uno dei meno frequentati nella letteratura demartiniana recente, a parte il doveroso riconoscimento, venuto un po’ da tutti, della introduzione nella ricerca italiana degli anni ‘50, dell’équipe di ricerca multidisciplinare. In verità l’etnografia demartiniana pone alcuni problemi di grande portata metodologica ed epistemologica: la “spedizione” demartiniana è il contrario della prolungata full immersion degli autori delle classiche monografie etnologiche e antropologiche, ma non ha niente neppure delle non meno classiche campagne di raccolta di materiali e reperti dalla culla alla bara, dei tradizionali studi di folklore. Questa eterodossia metodologica demartiniana rispetto a modelli di tutto rispetto che vanno da Malinowsky a Evans-Pritchard, ma anche da Van Gennep a Pitré, credo che meriti una discussione approfondita. Personalmente mi sembra che siano temi da affrontare: la fondazione scientifica della metodologia demartiniana, la sua attualità in ambito disciplinare in rapporto agli sviluppi di quella che oggi chiamiamo l’antropologia delle società complesse, i nessi che legano il lavoro etnografico demartiniano con la teoria e la pratica dell’etnocentrismo critico.
Questo dell’etnografia è sicuramente uno dei temi costitutivi dell’eredità che de Martino ha lasciato all’antropologia italiana e mondiale. Un altro tema fondamentale che sottende tutta l’opera demartiniana è quello del rapporto tra simbolo e concetto, tra sfera dell’extrarazionale e sfera della razionalità.
Lavorando sul “problema dei poteri magici”, sulla efficacia del simbolo, de Martino ha saputo ricostruire quel “dramma storico del mondo magico”, la comprensione del quale gli ha permesso di riscattare la sfera magico-religiosa da tutte le interpretazioni riduttive di matrice evoluzionista, positivista, ma anche idealista o funzionalista, per restituirla nella sua interezza alla storia culturale dell’umanità. È superfluo sottolineare l’enorme portata di questo contributo demartiniano, sull’importanza del quale concordano tutti i maggiori studiosi.
In quel libro complesso, denso di indicazioni di ricerca ancora inesplorate, c’erano anche altri importanti nodi tematici.
In de Martino c’è anche il richiamo costante anche se più sommesso, meno in primo piano nei suoi lavori, all’altra faccia del problema dell’efficacia simbolica: lo chiamerò il problema della inefficacia della ragione. La domanda “come funziona il simbolo” implica sempre una sorta di “controdomanda”: perché in questo caso non funziona la ragione?
Può sembrare che de Martino abbia privilegiato la prima domanda, nell’arco delle sue ricerche; ma a me sembra che la seconda non è mai accantonata o dimenticata. Non viene però posta in termini astratti, generali. Tutta la riflessione demartiniana si svolge, produce il suo senso e acquista il suo incomparabile spessore proprio a partire da esperienze concrete della contraddizione tra razionale e irrazionale, a partire appunto dallo scandalo iniziale dell’incontro etnografico. Sono esperienze intellettualmente pericolose, esistenzialmente dolorose, ma anche passibili di esiti liberatori, gioiosi, se e quando, per il soggetto che ne è protagonista, inaugurano una nuova fase del suo esserci nel mondo. Insomma, se la crisi della presenza si risolve entro un orizzonte culturale che consente di destorificare il negativo, la risoluzione della crisi restituisce al soggetto la sua capacità di intendere e di volere, di scegliere, decidere e operare secondo valori. E apre, per il soggetto stesso, ma anche per l’antropologo che sulla sua vicenda riflette, non solo la questione dei valori ma anche quella dell’intellegibilità del mondo. E della praticabilità del mondo. Mi sembrano direttamente collegate, e conseguenti con questa problematica, le riflessioni di de Martino sul tema della domesticità utilizzabile, contenute nella Fine del mondo. E mi sembra che in questa direzione vada anche l’interpretazione di Tullio Altan in Soggetto, simbolo, valore.
Dopo decenni di oblio, il tarantismo torna al centro dell’interesse di studiosi, antropologi, sociologi. Il Salento è nuovamente un terreno di osservazione privilegiato per l’antropologia italiana che ferma l’attenzione sulle pratiche reinventive di tradizioni locali come fondamento dell’appartenenza territoriale. Il tarantismo insomma entra a pieno titolo nella riflessione sull’identità locale. Come giudica lei questa rivitalizzazione del mito della taranta in chiave turistico-culturale?

Sembra che il tarantismo sia “ritornato” almeno secondo due modalità: come oggetto di studio, che ha provocato la sorprendente fioritura di studi e ricerche; e come pratica coreutico-musicale, che coinvolge gruppi e singoli, per lo più giovani (ma non solo) nel Salento (ma non solo) e che culmina nella “Notte della Taranta” celebrata a Melpignano nel cuore dell’estate. La differenza sostanziale di questa pratica rispetto al tarantismo che avemmo modo di osservare nell’estate del ‘59 credo stia innanzi tutto nel mutamento dell’orizzonte culturale entro il quale il simbolo della taranta acquista significato e valore per i soggetti che ad esso si richiamano.
L’orizzonte di Maria di Nardò e delle sue compagne era magico-religioso: attesa e temuta, adorcisticamente richiamata nella fase della progressiva costruzione della sindrome di possessione ed esorcisticamente cacciata nella fase della danza e dei suoni, fino al suggello apposto all’avvenuta guarigione dalla visita in cappella, comunque la taranta era emissaria di San Paolo. Veniva da lui, lui la mandava, lui la toglieva, in molti modi si identificava con lui. Di conseguenza il Santo diveniva ministro di afflizione e di liberazione, di morso e di lenimento, di dolore e di piacere.
Oggi la taranta non è un “lui (lei)” quanto piuttosto un “noi”: l’orizzonte entro il quale l’aracnide diviene simbolo è oggi l’orizzonte identitario. La stessa riproposizione attuale del simbolo, del nome, delle musiche e delle figure della danza, nel momento in cui rivendica l’identità con quelle del passato, in realtà ne determina la differenziazione: il contenuto che dà valore al simbolo non è più la costruzione dell’intimità tra il Santo e la donna tarantata, intimità critica che trovava il suo acme e si risolveva nella concessione da parte del Santo della “grazia”; il contenuto oggi è la costruzione, all’interno di un evento, di un’intimità di massa, basata sulla messa in scena, sulla spettacolarizzazione di una virtuale continuità di tempo e di luogo con un passato che non importa che passi o torni e rimorda, ma che semplicemente viene rivendicato come “nostro”.
E non importa neppure se, tra i giovani che ballano per tutta la notte, quelli provenienti da “fuori” non sono meno numerosi dei salentini. In fondo non è questa una patria culturale?
Non si corre il rischio di un nuovo “esotismo”?
Se questa interpretazione è corretta, non mi sembra che il nuovo esotismo sia la sola caratteristica significativa di questo tarantismo. Certo, ci saranno sicuramente i turisti che vengono per “vedere” la Notte della Taranta, così come ci saranno le agenzie di viaggi che “vendono” lo spettacolo e le Amministrazioni locali che lo usano come richiamo turistico; ci saranno anche attori, ballerini e musicisti pagati da quelle stesse Amministrazioni per interpretare tarantati, tarantate e suonatori: ma non credo che il ritorno del tarantismo si esaurisca su questo piano di produzione e commercializzazione di un esotico folklorico.
Mi sembra almeno altrettanto importante e significativo il processo per mezzo del quale da un lato si recupera una tradizione locale secondo forme più immaginate che filologicamente ricostruite, e dall’altro, per celebrare questa tradizione, per recuperarla a fini identitari, si costruisce un evento, vale a dire la forma più tipicamente globale che negli ultimi anni ha assunto la partecipazione giovanile alla produzione e al consumo culturale. Ma è giusto: l’identità locale non acquista valore se non in un contesto che la rende visibile, che consente di spenderla a scala globale ; e l’evento è la modalità organizzativa che meglio realizza oggi questa inserzione.
Negli ultimi dieci anni il tarantismo ha stimolato una straordinaria produzione saggistica che ha indagato quasi ogni ambito del fenomeno. Tuttavia c’è ancora qualcosa che sembra sfuggire alla comprensione degli studiosi. Secondo lei, quali sono i campi ancora poco esplorati nella complessa storia culturale del fenomeno?
Com’è noto, le reinvenzioni delle tradizioni locali al fine di dare fondamenti territoriali alle identità si sono moltiplicate negli ultimi dieci, quindici anni; ma poche o forse nessuna in Italia ha avuto il successo del revival del tarantismo. Come si spiega questa persistente capacità di richiamo e di coinvolgimento della taranta?
Credo che da questo dato bisognerebbe partire per indagare su ciò che ancora ci sfugge nella comprensione della complessa storia culturale del tarantismo. E forse potrebbe essere utile uscire dalla prospettiva dell’approfondimento in qualche modo prevalentemente idiosincratico, che caratterizza una parte non piccola della saggistica recente, per recuperare l’impostazione storico-comparativa che de Martino stesso utilizza nella terza parte della Terra del rimorso, impostazione che potrebbe allargarsi a comprendere, come già per il Ian Lewis di Le religioni estatiche, molti istituti culturali anche diversi e distanti fra loro, ma tutti in grado di rispondere a un bisogno che, forse, è «elementarmente umano».

Nota bibliografica
Tra gli strumenti utili per accostarsi al pensiero demartiniano vanno segnalati almeno alcuni contributi: Clara Gallini, Introduzione a Morte e pianto rituale, Bollati Boringhieri, 2000 (ed. or. 1958); Sud e magia, Feltrinelli, 2001, (ed. or. 1959) con introduzione di Umberto Galimberti; Furore simbolo valore, Feltrinelli, 2002, introduzione di Marcello Massenzio (ed. or. 1962); La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 2002, con introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio (ed. or.1977).
Tra gli studi incentrati sul percorso intellettuale di de Martino si segnalano inoltre Placido Cherchi, Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto de Martino, Liguori, 1994; Clara Gallini-Marcello Massenzio, (a cura di), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori, 1997; Riccardo di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Manifestolibri, 1999; Clara Gallini-Antonio Faeta, (a cura di), I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, Bollati Boringhieri, 1999; Gennaro Sasso, Ernesto de Martino tra religione e filosofia, Bibliopolis, 2001. Nella collana “L’opera di Ernesto de Martino”, dell’editore Argo di Lecce, sono state pubblicate in edizione critica alcune opere edite e inedite di de Martino (Naturalismo e storicismo nell’etnologia, 1996, ed. or. 1941, i materiali d’archivio della ricerca in Lucania).
Notevole anche la mole degli studi sul tarantismo apparsi dopo La terra del rimorso (pubblicato nel 1961 e più volte ristampato fino al 1994) con un significativo incremento negli ultimi dieci anni. Per un quadro del dibattito più recente, vanno citati almeno i saggi raccolti in Quarant’anni dopo de Martino. Il tarantismo. Atti del convegno di Galatina del 24 e 25 ottobre 1998, 2 volumi, Besa, 2000; e quelli pubblicati in Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento, a cura di Vincenzo Santoro-Sergio Torsello, Aramirè, 2002, che offre un compendio del dibattito contemporaneo sulle relazioni tra tarantismo, riflessione identitaria e revival della pizzica. Per una rassegna bibliografica ragionata, Gabriele Mina-Sergio Torsello, La tela infinita. Bibliografia sul tarantismo mediterraneo dal 1945 al 2004, Besa, 2004, con una sezione dedicata agli studi demartiniani dopo il 1986.


 

   
   
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