E a destare meraviglia sono le scene dei lavoratori
del mare, piccoli eroi muniti non di armi e di corazze, ma di
trofei di cozze e di ostriche, di reti e lenze. |
Una fuga verso lignoto, sorretta da un
soffio di follia anarchica e reazionaria che alimenta lhumus
di un Salento amaro, amato e mai rinnegato. |
Con quale funambolico giro di parole posso
descrivere, evitando la volgarità, da dove proviene la
mia sopraggiunta paura, la mia irreversibile preoccupazione? |
La strada era lunga, molto lunga, ma dritta,
molto dritta, e anche bella, perché a quellora
sembrava di andare incontro al sole, al paradiso. |
Il maltese si ridusse ad espressione delle
masse popolari, data anche la difficoltà di trascrivere
con lalfabeto latino una lin-gua semitica. |
In questa suicida avventura della ragione,
superstite è appena il dubbio di una possibile verità,
la quale però non è del presente, e resta inconoscibile,
impedita e proibita dalla morte. |
Nella pratica clinica spesso si curano i sintomi,
non si guarisce la persona. I sintomi spariscono, ma la malattia
e i motivi alla base di tale malattia non vengono curati. |
|
|
De
Siati, poeta dellimmagine
Roberto Cofano, Giovanni Acquaviva e Ornella Sapio hanno curato
con sapienza e amore un bel volume dal titolo Le foto di Paolo De
Siati. Taranto nella prima metà del 900, per le Edizioni
Archita, con il concorso dellindustria grafica Tiemme di Manduria.
Lopera costituisce una riedizione riveduta e corretta di quella
del 1994 dedicata al De Siati da Roberto Cofano e Giovanni Acquaviva
per i tipi di Schena e vuole essere, nelle intenzioni di Cofano
(che ha scritto lintroduzione e ne ha promosso la pubblicazione),
una sorta di risarcimento morale ad un artigiano e artista che ha
dato tanto a Taranto e non ha ricevuto, come spesso accade, la dovuta
ricompensa. Così infatti egli scrive: «La produzione
di Paolo De Siati è da sempre sotto gli occhi dei suoi concittadini,
è abbondantemente utilizzata per illustrare (spesso solo
come elemento ornamentale) praticamente tutte le pubblicazioni che
trattano come argomento Taranto e i suoi ricordi, eppure non ha
mai ricevuto alcun riconoscimento ufficiale della sua validità
e importanza, anzi è sovente utilizzata senza neppure lindicazione
dellautore della stessa».
Il volume, come si diceva, si avvale dei puntuali e garbati commenti
capitolo per capitolo di Giovanni Acquaviva, un maestro del giornalismo
nostrano, e delle didascalie dello stesso e di Ornella Sapio, direttrice
dellArchivio di Stato. Ma, naturalmente, a fare la parte del
leone, come era giusto che fosse, sono le centinaia di fotografie
che, direi, non solo illustrano ma riempiono di sé e caratterizzano
il libro. Sicché, alla fine, si può concludere, con
Claudio De Cuia, che «la produzione unica e irripetibile di
Paolo De Siati vuole rappresentare la guida storica per immagini
della nostra città».
Senza la documentazione fotografica di De Siati gran parte della
storia e della cronaca di Taranto per oltre trentanni sarebbe
muta, poiché a nessuno sfugge limportanza del documento
fotografico accanto a quello giornalistico e librario. Non cè
angolo della città di Taranto, da quella antica a quella
moderna, con le sue strade e le sue piazze, le chiese e i palazzi,
i bar e i teatri, i mari e i fiumi, che non abbia trovato in lui
un osservatore attento e sollecito, non solo sul piano tecnico,
ma anche su quello affettivo. Ché la fotografia sarebbe misera
cosa, se non fosse animata dal soffio ispiratore dellartista,
pronto a sfidare il mezzo meccanico e se stesso pur di lasciare
un segno di autentica bellezza e di splendido nitore espressivo.
Si pensi ad esempio agli insuperati tramonti tarantini per i quali
Paolo De Siati si meritò una giusta e incontestata fama e
che egli amava fotografare ad ogni fine di temporale, quando «laria
limpida e il cielo gonfio di nubi maestose disegnano sul magnifico
mare che circonda Taranto sfarzosi giochi di luce»: ciò
che gli consentì, come ricorda Cofano, di essere inserito,
unico fra i meridionali, in una prestigiosa rivista specializzata
edita dalla AFGA-FOTO S.A. di Milano e in una rosa di eccezionali
fotografi darte italiani e stranieri.
Naturalmente, se Paolo De Siati pervenne a risultati così
eccellenti, bisogna osservare che non vi pervenne per caso. Intanto,
perché in casa respirò latmosfera giusta, nel
senso che suo fratello Vincenzo, di ventanni più grande,
lo coinvolse nella passione fotografica, insegnandogli i primi rudimenti
dellarte nel laboratorio di Gioia del Colle. Alletà
di dodici anni fece le prime esperienze lavorative presso il premiato
Studio Fotografico Cimpincio & Zioni, situato in via DAquino;
più tardi, alletà di 18 anni, andò a
lavorare a Milano, sia pure per poco tempo, presso lo Studio Fotografico
di Alfredo Angeli, situato in Corso Vittoria, dove ebbe modo di
perfezionare le proprie conoscenze e di arricchire il bagaglio di
esperienze.
Una volta tornato a Taranto, avviò lattività
commerciale dividendosi tra i primi grammofoni e dischi (tra laltro,
bisogna aggiungere che il padre, sarto, gli aveva trasmesso la passione
per la musica) e le macchine fotografiche. Ma, comè
facile intuire, il suo amore principe era rivolto essenzialmente
verso larte fotografica e fu proprio in questo campo che diede
il meglio di sé, raggiungendo risultati di tutto rispetto.
Trasferitosi nel 1929 nei locali di via Di Palma, Paolo De Siati
cominciò a riprodurre, sempre più regolarmente, immagini
che rappresentano la vita quotidiana, levoluzione urbanistica,
i pur modesti avvenimenti di cronaca. Insomma, una messe inusitata
di documenti e di materiali che si è fortunatamente salvata
grazie alla pietas del figlio Lillino che, nelloccasione,
ha messo a disposizione del curatore dellopera tutto ciò
di cui disponeva; e che, bisogna aggiungere, costituisce una documentazione
di inestimabile valore storico.
Insomma, la Taranto fra le due guerre trova in De Siati un attento
testimone e osservatore e, se il termine non desta perplessità,
un autentico poeta dellimmagine. E a destare meraviglia e
consenso non sono solo le foto di edifici pubblici e privati, di
strade e piazze, di paesaggi e di scorci, ma anche, se non soprattutto,
quelle relative a scene di lavoratori del mare, di questi piccoli
eroi, muniti non di armi e di corazze, ma di trofei di cozze e ostriche,
di reti e lenze. Quel mondo di piccoli eroi quotidiani ai quali
Leonida di Taranto aveva dedicato versi indelebili. E questo libro
è, in pari misura, un atto di omaggio alla sua arte e alla
città di Taranto che, nonostante tutto, vive sempre nel cuore
di tutti i tarantini e di quelli che lamano.
alberto altamura
Pillole
di saggezza
Lecce, periferia levantina vestita di barocco arso dal sole e dalle
passioni collettive. Qui nasce e opera Franco Lupo, poeta e sacerdote
impegnato oltre le frontiere della fede orante.
Usando limmediatezza del vernacolo racconta lumanità
e lorgoglio della sua gente, portando a sintesi riflessioni
ed emozioni delluomo di Chiesa e delluomo di strada.
Racconta la realtà degli umili e dei diseredati, i sogni
mai vissuti, gli slanci della solidarietà, i fossati della
diffidenza, le ansie e le ragioni della preghiera.
Offre al lettore un affresco minuto di un neorealismo salentino
in cui vicende familiari, storia, religione e costume sintersecano
e si sovrappongono, creando quella sinergia di forze che produce
identità e appartenenza. Alimentando un invito costante a
prendere dallerrore la salvabilità.
Il suo apostolato diventa archivio e laboratorio di spunti lirici
e narrativi, dando forma e contenuto a tante pillole di saggezza
e di umanità offerte come testimonianza di alta coscienza
valoriale. Il messaggio cristiano della redenzione filtra attraverso
una poesia intimista, permeata spesso di una vena malinconica, specchio
delle violenze e delle frustrazioni quotidiane. Pagine di poesia
ispirate a storie ed emozioni di anime semplici, consegnate alle
stampe molti anni fa e arrivate a noi con il pregio di unattualità
senza tempo e senza memoria.
Franco Lupo è un intellettuale silente, lontano dalle luci
della ribalta mediatica. Non ama il proscenio, non firma manifesti,
non partecipa a marce e movimenti. Può sembrare un sacerdote
allantica, mentre è un roccioso avamposto della Chiesa
postconciliare, protagonista di spessore nella vita di una comunità
resa sempre più complessa dalle migrazioni e dalla multiculturalità.
Un testimone attento e discreto del nostro tempo, estraneo ai rumori
della Società dellImmagine.
Dal suo mondo poetico proponiamo tre liriche dedicate al destino
delluomo, ai suoi smarrimenti e ai suoi materni rifugi, tutte
tre un invito alla speranza per remare contro il vento dei vinti
e dei rassegnati. Nella consapevolezza che ci sia maggiore drammaticità
nel nascere che nel morire e dunque necessità di dare più
sostegno quotidiano al coraggio di vivere.
Il riferimento alluomo trova nel Salento tratti tipici e inaspettati.
Come le materie docili usate dallartigiano pietra,
creta, cartapesta liberano la fantasia creativa, così
linquietudine dellanima cerca di risolvere il conflitto
esistenziale coltivando prodigi e progetti di fuga. Una fuga verso
lignoto, sorretta da un soffio di follia anarchica e reazionaria
che alimenta lhumus di un Salento amaro, amato e mai rinnegato.
claudio alemanno
Le poesie della pagina seguente sono tratte da Franco Lupo, Cose
de Ddiu... un po di Bibbia in dialetto leccese, Editrice Salentina,
Galatina, 1984.
Dello stesso Autore, ricordiamo anche Gente bona, una rassegna di
racconti brevi ispirati a persone e avvenimenti della vita leccese,
Editrice Salentina, Galatina, 1980.
Le pène de stu mundu
2 Cor. 4, 17-18
Le pène de stu mundu ca a mmurire
am paraísu ccògghienu la cròria,
gne ccòsa de sta tèrra a sci ffinire
quandu leternità gnutte la stòria.
Quanti suspiri damu su sta tèrra,
quanta malincunía ni dáe la mòrte!
Tra bbène e mmale sèmpre ncè lla cuèrra
intru stu còre ca ni bbatte fòrte.
Le còse de cquá bbasciu ánu ppassare
còmu nnu fiuru ca ppassisce e mmòre;
lu cuèrpu nèsciu an tèrra sa squagghiare,
ma lánima la ccògghie lu Signòre.
CòMU TE CHIAMI?
Lc, 1, 26
María, còmu te chiámanu li santi?
cce nnume tánu datu am paraísu?...
De numi bbèddi, tíe, nde puèrti tanti...
María, ca de nnu Ddíu si llu surrisu!
Matònna de lu chiantu te chiamámu...
Matònna de lu Càrmenu... María!...
Matònna de Pompei, nui te preámu...
te salutámu a ssira e mmenzatía...
Matònna de la stidda e dde le ròse...
annanzi ttíe cantámu cu llu còre
e tte decímu tante e ttante còse...
Matònna de le grazie e dde lAmòre!...
Matònna de la strata e dde lu mare...
de le cerase e dde li fracazzani,
lu nume tòu ni face rrecurdare
li anni de vagnuni cchiú lluntani...
quandu... piccicchi... mmienzu lla chesúra...
ccugghíamu fiuri pe llartare tòu...
Mòi simu randi e... sse sta ccucchia lura
cu ttòrna lòmu a llu Signòre sòu...
E quandu pòi la mòrte stáe cu rría...
Nui te chiamámu: «Mamma!...
[Mamma mía!...».
FèRMATE, SULE!...
Giosuè, 10, 7-13
Lu Giosuè tenía muti surdati,
fuèrti, mparati e tutti fecatusi.
E Ddíu ni disse: «Nu bbu mpaurati,
me attu jèu pe bbúi, bèddi carusi!...
Jèu fazzu tremulare li nemici,
addú passati úi ncè ssangu e mmòrte;
teniti am paraísu tanti amici,
de Gericu bbu áprenu le pòrte...
Li ángeli se áttenu cu bbúi,
bbu spiananu la strata a lla vittòria,
fòrza, surdati!... sciati annanzi úi!...
Bbu spèttanu lonòri de la cròria!...».
E Giosuè cu lli surdati sòi
a Galgala spettàu tutta la nòtte,
la ggènte nde sta pparla ncòra mòi,
e ffòra pètre e ssangu e ffòra bbòtte!
E ttutti li nemici se nde scèra,
fuscendu, nnanzi a ttutti li Giudei,
ma mèndule de rándani catèra
an capu alli surdati filistèi.
E Giosuè retáa, retáa cchiú ffòrte,
e ddumandàu lu sule e ppòi la luna,
e dde Gericu ggiá etía le pòrte:
«Fèrmate, sule!... Státte sòta, luna!...».
Lu sule se fermàu, la luna puru,
intru la valle china de spiandòre,
ma, quandu a mmenz´anotte fice scuru,
wardànu tutti an cèlu... a llu Signòre...
don franco lupo
Il
caso di dire: una paura nera!
Da quando, a Gallipoli, durante una manifestazione culturale di
alcuni anni or sono (Premio Luomo e il mare),
venni definito elzevirista, ho preso labitudine
di mettere in macchina non più di due fogli e di battere
a doppio spazio un pezzo di circa 27 + 27 righe complessive. Ma
devessere un vero e proprio saggio di bravura, che io stesso
mi impongo dopo quellimpegnativo giudizio; unesercitazione
necessaria.
Non vi dico il piacere, oltre il rischio, chio provo nel cimentarmi
in scritture che devono essere sempre chiare, eleganti, italianamente
perfette, qualunque sia il loro anche modesto argomento. Un elzeviro
non è il solito articolo di rivista, va assai oltre. Ultimamente
ne ho pubblicati alcuni, tutti spulciati alla ricerca
dellerrore da parte di lettori che non perdonano e che, proprio
per questo, ho particolarmente cari. Dedico a loro questaltra
fatica.
Daltra parte, è bello scoprire che esiste gente pignola,
la quale non intende digerire gravi sviste di sintassi come quella
fattami notare di recente sulla stampa cittadina: «...in certe
mattine che non si andava a scuola...». No, anchio qui
vorrei concedervi una vacanza ridanciana. No, lelzeviro non
conosce la fretta dessere pubblicato; le mie due paginette
richiedono ore e ore di rilettura, limatura e correzione. Devono
essere eleganti, scorrevoli più dogni altra prosa;
e non offensive!
A questo punto mi son detto che un esame finale di elzeviro
mai lavevo azzardato e che, invece, dovevo provarci; però
scegliendo un tema di grandissima difficoltà espositiva.
Come sempre, la storia doveva essere autentica, reale, per niente
inventata. E allora? La mia bravura sarebbe consistita nel riuscire
a farvela accettare, senza cadere, dato largomento, nella
volgarità.
Lo so che a forza di cercare loriginale si diviene strambi,
ma non faccio più in tempo a cambiarmi. Daltra parte,
soltanto i lettori di Apulia saranno in grado di capire le mie antifone,
così come già furono in grado di capire le mie allegorie...
Bene, ci provo. Premetto comunque di non esagerare nel darvi
confidenza, ma un vero elzeviro è fatto di sincerità:
perciò, ascoltatemi e, soprattutto, perdonatemi a priori.
Questa formidabile Rivista è troppo seria: una lettura scandalosa
gioverà al buon umore. La risata fa bene.
Sarò breve. Da qualche giorno ho un terribile pensiero, che
si è aggiunto allaltro, al quale sto abituandomi: quello
chio chiamo del clandestino a bordo o, se più
vi piace, dellospite che non paga. Insomma, mi sono messo
in mente che al male che già mi sobbarco sia venuto ad aggiungersi
un secondo male, in qualche modo derivato dal primo. Esistono cellule
maligne che girovagano per il nostro corpo, in cerca di una seconda
sistemazione... Hanno il viziaccio di proliferare. E qui eccovi
il mio elzeviro, messo a dura prova.
Con quale matricolato mestiere, con quale funambolico giro di parole
posso descrivere, evitando la volgarità, da dove proviene
la mia sopraggiunta paura, la mia irreversibile preoccupazione?
Dunque, checché si dica, il nero è un colore che parla,
nientaffatto casuale. Da qualche tempo lo vedo e non so spiegarlo
sul fondo di quanto le mie funzioni intestinali attestano: il mio
terrore, visto quel nero che ne procede, mi fa temere un male terminale
sopraggiunto!
E veramente difficile dare una spiegazione graziosa, cioè
da elzeviro elegante, ma devo ammettere e far credere che, visto
sotto di me, quel nero che più nero non si può semplicemente
terrorizza; specie chi vive in continuo allarme, e cioè che
una cellula impazzita abbia scelto altri luoghi interni per iniziare
una nuova distruzione, questa volta meno periferica della prima,
con tanto di emblematica tintura a lutto.
Lo scopo era quello di riuscire a descrivere ciò che ho descritto
con il relativo conseguente giustificato terrore, senza cadere nellirrispettoso,
nellimpudico, nellindicibile, pur volendo dire.
Quel colore ferale, comparso così allimprovviso nella
mia vita biologica nonché, permettetemi, anche logica, mi
aveva sconvolto. Del resto, più sinvecchia, più
si diviene sensibili e paurosi. Che il mio organismo andasse consumandosi
così? Vogliamo avere una spiegazione di tutto quello che
accade intorno a noi. Fuggiamo i misteri e, in questo frangente,
quel nero denso e intenso (N.d.A.: se non gioco con le parole, non
è un elzeviro!), per la mia fantasia eccitata quanto eccitabile,
era invece un evidente segnale di morte.
La chiarezza, poi, è arrivata e ho ritrovato la pace e il
sorriso. Aggiungo, con loccasione: lumanità,
se facesse uso, appunto, del vecchio metodo che, riflettendo bene,
con calma, spiega tutto in quanto di tutto una spiegazione deve
pur esserci, si godrebbe un pianeta Terra abitabile come Dio comanda
e noi felici e contenti come, forse, era nostro destino. E non è
detto che ogni spiegazione sia gradevole.
Questa è una delle mie consuete variazioni sul tema. La spiegazione
principale, però, che banalmente chiude il presente pseudo-caso
di confusione mentale, eccovela: mi è stata prescritta una
cura di piccole pillole antianemiche, di ferro. Sono loro le responsabili
di quel diabolico colore, comparso fra ciò che giornalmente
resta della mia vita. E va bene. Però, che un medico mi avvertisse
preventivamente del loro cromatico effetto. «Puoi morire...»,
sospirava mia madre, quando attendeva invano una spiegazione doverosa.
In sostanza ripeto era una semplice anemia! Se poi
questo elzeviro fu troppo ambizioso, nel senso di saggio originale,
ma di cattivo gusto, strappatelo e basta. Aggiungo solo che non
contiene bugie. Tutto qui.
E stato una specie di gioco verbale e non è detto che
ogni gioco riesca. Dunque, di nuovo perdonatemi. La vera sfacciataggine
non sta nella discutibilità estetica del pezzo,
bensì nellaver sperato di leggerlo su pagine come queste.
Altrimenti, che asino arpista sarei...
florio santini
La
strada che ti porta al mare
Che bella giornata! Era davvero una bella giornata e nulla sarebbe
riuscito a guastargliela. Salzò, si sgranchì
un po tirando dietro le braccia, si strofinò gli occhi,
tenendo poi le palpebre socchiuse per via della luce accecante e
decise di fare un giretto.
Piegò con cura la coperta, accatastò i cartoni e il
telo in plastica trasparente, avendo cura di nasconderli dietro
un cespuglio lì vicino (hai visto mai?), si dette unaltra
bella sgranchita, stavolta in piedi, si passò una mano dentro
i pantaloni per grattarsi quelle fastidiosissime emorroidi. Quando
gli venne di pisciare, si divertì a farla da destra a sinistra
e poi da sinistra a destra, così per gioco. Lo trovava divertente,
e nel frattempo canticchiava.
Sì, si sentiva davvero felice.
Si passò una corteccia di liquirizia tra i denti come aveva
visto fare una volta in un documentario sullAfrica, però
sputò subito disgustato ed ebbe ad imprecare contro quei
selvaggi nella savana, ma in fondo perché imprecare contro
gli africani, dopo tutto erano dei poveri diavoli come lui... Ma
sì, un abbraccio a tutti gli africani del mondo, pensò,
chi se ne frega se sono un po più strani e dormono
nelle capanne. Del resto channo dei diavolo di denti bianchi
si disse, e forti, con cui magari si mangiano anche i leoni. E rise.
Che bella giornata. Si guardò le dita delle mani. Erano un
po nere, effettivamente, allora fece finta di lustrarle sulla
giacca come si fa per dire non mi sfiori neanche.
Ora basta, se avesse continuato così non avrebbe combinato
un cavolo di niente ed era un vero e proprio peccato sprecare una
gionata come quella.
Dalla tasca interna della giacca tirò fuori la bottiglietta
da mezzo litro di whisky, il suo compagno preferito, il suo amico
del cuore, altro che amici finti che ti abbandonano! Lui non lo
abbandonava mai. E rise di nuovo. Ripose la bottiglietta dopo una
bella sorsata e partì. Oggi gli andava di fare una passeggiata
al mare, però era una bella strada. Cerano dieci chilometri
da fare a piedi, oppure in uno di quegli autobus blu delle linee
regionali di trasporto. Sì, il prezzo del biglietto non lo
pagava perché conosceva ormai tutti i bigliettai e lo lasciavano
perdere, però non se la sentiva di stare ancora una volta
tutto solo nei sedili di dietro, quelli dellultima fila, perché
nessuno lo voleva far sedere a fianco. Che cavolo, che gli aveva
mai fatto a ognuno di loro. Niente, un bel niente! Anzi, era sempre
sorridente e pronto a scambiare una buona parola con chiunque. Mah,
chi li capiva. Del resto, era tanto tempo che non li capiva più,
quelli. Però in questa bella giornata non se la sentiva di
essere trattato così. Mi farò dare un passaggio, si
disse. E rise di nuovo.
Quanto gli piaceva il mare. Era più forte di lui. Doveva
andarci. Anche dinverno. E amava farsi il bagno, anche dinverno,
tanto lui il freddo non lo sentiva per niente. Nudo, come un verme,
perché il mare è nato libero, diceva, e anche lui
era nato libero. Solo, quelli non sopportavano di vederlo camminare
col coso a penzoloni e una volta avevano chiamato pure la polizia.
Mah, chi li capiva? Forse non erano nati liberi, loro.
La strada era lunga, molto lunga, ma dritta, molto dritta, e anche
bella, perché a quellora sembrava di andare incontro
al sole, al paradiso. Chissà se ci sarebbe andato lui in
paradiso. Ma dopotutto pensava di sì, non aveva fatto niente
di male. Ma e il bene? Per andare in paradiso bisognava fare anche
del bene. Già. Aspetta, disse, una volta ho fatto attraversare
la strada ad una vecchietta che non ci vedeva. Ah ah ah ah, rise,
chissà che scena da vedere, una vecchia cieca e un vecchio
ubriaco che la aiuta ad attraversare la strada. Dovrebbe bastare.
Ma sì, Dio è buono, e poi è sempre stato buono
con me, e mi ha sempre dato tutto quello che volevo. Ora mi accoglierà
accanto a sé, o no? Sennò gli regalo un paio di miei
quadri, e così è sicuro che mi fa entrare in paradiso.
E rise di nuovo.
Che bella giornata. Non è poi tutta quella strada che si
direbbe. Nel senso opposto, una fila indescrivibile di macchine
che andavano in città per i regali di Natale. E lasciavano
il mare? Che scemi. Ma del resto lui non li aveva mai capiti.
Buon Natale, Edoardo.
armando mancuso
L'isola
di Oliver
Nato a Malta nel 1947, Oliver Friggieri è noto in molti
Paesi dEuropa, oltre che per i suoi libri fondamentali sulla
lingua e sulla letteratura maltese, per le sue opere di poesia e
di narrativa, tradotte in varie lingue. Collaboratore di riviste
accademiche internazionali, presente a numerosi congressi in vari
Paesi, ha pubblicato in Italia Storia della Letteratura Maltese
(Milazzo, 1986), Ribelle gentile (Bari, 1988), La voce dellonda
(Alghero, 1991), Storie per una sera (Treviso, 1994), La menzogna
(Genova, 1997). E capo del dipartimento di maltese presso
lUniversità di Malta. Ha tradotto in maltese numerose
opere dal latino, dallinglese e dallitaliano. Tra le
sue opere in lingua maltese citiamo Dizzjunarju ta Termini
Letterarji (1996), i romanzi Il-Gidba (1977), L-Istramb (1980),
Fil-Parlament ma jikbrux fjuri (1986), Gizimin li qatt ma jiftah
(1998), It-Tfal Jigu bil-Vapuri (2000), e il libro di racconti Stejjer
ghal qabel jidlam (1986).
Chiunque si accinga allo studio di un qualsiasi poeta si avvale,
oltre che delle conoscenze fondamentali della letteratura dellarea
linguistica cui il poeta appartiene, del supporto degli strumenti
critici disponibili sullo stesso autore. Se, però, tale poeta
appartiene ad unarea letteraria marginale, o periferica, e
la lingua madre in cui il poeta si esprime non ha cittadinanza al
di fuori del suo territorio di appartenenza, il problema si fa più
complesso, essendo fondamentale ai fini della comprensione dellopera
la conoscenza, per lo meno nelle sue grandi linee, della lingua
e della letteratura di quel Paese.
Tale è stato il problema di chi scrive al momento in cui
si è accostato circa quindici anni fa alla
poesia di Oliver Friggieri, il poeta maltese più grande vivente.
Problema fondamentale era, e in gran parte resta, la conoscenza
della lingua e della letteratura maltese. Lingua che, con le sue
radici semitiche e la sua formazione, nel tempo, col contributo
di apporti linguistici di diverse derivazioni, si è venuta
strutturando come una lingua a se stante, molto simile allarabo,
per lo meno sotto il profilo di gran parte del lessico, nonché
della grammatica e della sintassi, ma con una sua identità
particolare che le deriva dalla sua complessità.
Non a caso il documento letterario maltese più antico è
una canzone scritta in arabo, nella prima metà del dodicesimo
secolo, da due coautori, Ibn Al Samanti Al Maliti e Ibn Al Qasim
Ibn Ramadan Al Maliti, quando quella che viene definita dominazione
araba (870-1090) era terminata per larrivo nellisola,
così come nella vicina Sicilia, dei Normanni, esattamente
nel 1090. A dire il vero, larabo continuò a predominare
come lingua letteraria a Malta fino al 1200, e non furono pochi
gli arabi maltesi che parteciparono al rinascimento artistico e
letterario suscitato in Sicilia dal Conte Ruggero.
Con la caccia dei musulmani dallisola per opera dellimperatore
Federico II (1429), larabo maltese cominciò a trasformarsi
nellattuale linguaggio locale, aprendosi a nuove influenze
lessicali e fonetiche, come quelle italiane mutuate dal siciliano,1
tanto che il maltese si ridusse ad espressione delle masse popolari,
data anche la difficoltà di trascrivere con lalfabeto
latino una lingua semitica.
Ovviò a tale difficoltà lo storico François
Emm. Guinard de St. Priest, che, raccogliendo gran parte della tradizione
popolare e del mondo contadino (come le preghiere, le invocazioni
e gli scongiuri) e di quanto si era andato nei secoli manifestando
sulle piazze mediante lopera dei cantastorie (ghannejja),
nel 1771 «pubblicò Tliet Ghanjiet bil-Malti, tre canzoni
di una quartina ciascuna, scritte da Gioacchino Navarro (1748-1813),
un cappellano conventuale dellOrdine Gerosolomitano, che per
non trascrivere nellalfabeto arabo, non da tutti conosciuto,
formulò un alfabeto maltese composto di dodici lettere tolte
dallarabo, o probabilmente dal persiano, e di altre tolte
dallitaliano».2
Su questa matrice linguistica, qui appena accennata, si è
sviluppata nel tempo, al di là delle dominazioni italiana
o inglese, una lingua del tutto a sé stante. Ed è
un fatto singolare, nella storia linguistica di tutto il mondo,
che conferisce alla lingua maltese una duplice chance che dilata
il suo campo di influenza. Essa infatti è una lingua che,
nella sua forma orale, può essere studiata attraverso la
sua forma scritta da tutti coloro che, nel mondo, usano per scrivere
i caratteri cosiddetti latini. E proprio questo duplice aspetto
fonomorfologico ad attrarre, probabilmente, tutti coloro che, come
chi scrive, si accostano al mondo letterario maltese.
Sicuramente la fortuna di incontrare colui che ha codificato, con
studi approfonditi, la storia della letteratura maltese, che ne
ha analizzato, oltre agli aspetti storici, quelli costitutivi derivandone,
fra laltro, un dizionario di retorica di tutto rispetto, può
essere indicato non come una fortuita occasione, ma come uno stimolo
in più ad accostarsi allo studio della letteratura maltese.
Tutto questo preambolo per giustificare lopportunità
di questo intervento sulla poesia di Oliver Friggieri, che nel mio
saggio definisco «lUlisside mediterraneo, nostalgico
della propria isola, ma anche proteso al passaggio tra le colonne
dErcole per spaziare lo sguardo su più ampi orizzonti».
E aggiungo: «Sul piano privato, più intimo, ci appare
come un timido romantico sperduto e frastornato dallindifferenza
di unumanità sempre più nevroticamente tesa
alla conquista delleffimero e non disposta ad ascoltare le
voci solitarie nel deserto».3
Definizione, fin qui, apparentemente generica, se non costituisse,
al contrario, la spina dorsale di una concezione poetica del Nostro
che, proprio dalla tematica dellisola reale ed esistenziale,
trae i motivi della sua forte e originale ispirazione. Isola che
emblematicamente riassume, oltre che la concezione di terra materna,
anche quella di patria, con tutti i risvolti storici che il nome
comporta. Ma così assimilata dal poeta da costituirne corpo
nel corpo, anima nellanima, nonché nucleo centrale
di tutta la sua poesia.
La marginalità geografica, e nel senso suddetto anche linguistica,
mentre conferisce al poeta una sua trepidazione esistenziale, un
suo intimo timore dessere chiuso in un mondo lontano, quasi
irraggiungibile, in un certo senso incomunicabile con gli altri
mondi, o meglio, con un più vasto mondo, gli conferisce nel
frattempo la caratteristica dellunicità. Tale caratteristica
si manifesta proprio attraverso la lingua, la quale, nella sua specificità,
consente proprio nel linguaggio più alto, quello della poesia,
uninventiva e una struttura non rinvenibili in nessunaltra
letteratura.
bruno romb
Le parole dell'onda
I. IR-RITWAL TA L-GHABEX
U diehla x-xewqa riekba fuq il-mewga,
kulhadd ihares lejha w isellmilha,
u qalbi fuq il-moll qieghda tistenna
kif taghmel meta l-ghabex isejhilha:
bit-tama tholl ix-xbieki w tara xfihom,
bl-imhabba drat ma titlob xejn u tiskot,
bid-diqa taf li l-qabda mhix ghaliha.
II. STORJA SKURA
Issa li s-sema ccara nhares lura,
bil-mod il-mod il-halel qeghdin jorqdu,
mill-ocean ma tasal ebda raghda.
Stennieni nholl il-qlugh u nsib l-imqadef
biex nidhol bhal halliel ferhan fil-qala.
Hawnhekk l-istess cafcifa ddur
[mad-dghajsa,
il-hut iz-zghir jittawwal, jien nittarma.
Minn kull nawfragju tohrog storja skura
li hawn fil-moll kulhadd irid jismaghha.
I. IL RITO DEL CREPUSCOLO
E sta entrando il desiderio sopra londa,
ognuno la guarda e la saluta,
e il mio cuore sul molo attende
come fa ogni volta che il crepuscolo
[lo chiama:
con speranza scioglie le reti, scoprendo
[dentro,
con amore si è abituato a non chiedere
[niente e tace,
con tristezza sa che la presa non spetta
[a lui.
II. STORIA OSCURA
Ora che il cielo si è rischiarito guardo
[dietro,
lentamente le onde si stanno
[addormentando,
dalloceano nessun tuono arriva.
Aspettami a sciogliere le vele e trovare
[i remi,
entrerò felice come ladro nel porto.
Qui lo stesso guazzo gira intorno alla barca,
i piccoli pesci guardano senza paura,
il molo gentile attende ed io spero.
Da ogni naufragio emerge una storia oscura
che qui sul molo ognuno vuol sentire.
(Traduzione libera dal maltese)
Filosufannu?
Mi sono interessato della poesia di Nicola De Donno da poco più
di una diecina di anni (un mio studio sul suo terzo libro poetico,
Mumenti e ttrumenti, è del 1991), per una primaria consonanza
intellettuale. Questione dautobiografico impulso e di piacere
autoconoscitivo, in occasioni fortunate di reciprocità di
poesia e critica.
Questultima sua raccolta, Filosufannu? Cu lle vite, la Vita?
Ma la Vita è scura. Discorrendo con Antonio Mangione, (traduzione
in lingua dellAutore), è tanto breve cosa di poesia
quanto assai intensa e come definitiva.
Tento qualche risposta alle interrogative del titolo. Che è
complessa e problematica, non già perché vi si sperimentano
contenuti e forme di un genere poetico filosoficamente denotato
e connotato, presente, peraltro, in ogni letteratura, antica e moderna
(Lucrezio, Dante, i Metafisici inglesi...), ma perché la
sperimentazione si effettua in una lingua, come il dialetto magliese,
tutta da riscoprire e da reinventare.
Prova difficile e ardua, quasi una sfida dellAutore, oltre
che con se stesso, con il lettore criticamente esperto e smaliziato,
e scettico di fronte ad unoperazione di naturalizzazione dialettale,
e simultaneamente poetica, di concetti e di tecniche argomentative,
di lessico e di sintassi tradizionalmente astratti e delettiva
provenienza cólta, se non proprio specialistica.
Nelle lasse quinta e sesta del secondo poemetto di Filosufannu?,
Èssere è lla Vita, la certezza sulle possibilità
espressive in versi dialettali di temi scientifici e filosofici
è netta ed esplicita; anche se la polemica contro un illustre
interlocutore diffidente, anonimo (ma si allude ad Oreste Macrì),
al tempo stesso in cui sancisce la priorità della filosofia
nella composizione di uno splendido pezzo come Testamentu (già
compreso nella raccolta scheiwilleriana di Palore, 1999, e ora primo
dei quattro poemetti di Filosufannu?), ne riflette il travaglio
compositivo, in relazione al controllo, nella versificazione dialettale,
dellincontenibile tematica dell Èssere
assulutu, che di quel pezzo appunto è la straripante
pienezza: «Scrìere an dialettu la filosufia / mera
rispettu pe sta lingua noscia, / mera aprire a cce artezza
è bbona rria. / E mmera puru sciòcula llu mmoscia,
/ lu dialettu, a nnamicu de cuzzettu, / ma ca necava am morte
lu cuncettu / meu su lle scenzie e lle filosufìe, / capaci
cu rraggiònene an dialettu. / Cusì, lu Testamentu
foe pe mmie / ancu, cretu, nu ndoru de tispiettu. // Ma prima prima
foe filosufìa. / E lla llertàu nu trumentu, / na umbra
de paura, comusìa / ca lÈssere assulutu, lu
Inchimentu / ca sburra, ca sbitterra, me vingìa.» («Scrivere
la filosofia in dialetto / mi era rispetto per questa lingua nostra,
/ mi era aprire a che altezza è capace di arrivare. / E mi
era pure giochetto a mostrarlo, / il dialetto, a un amico di gran
cervello, / ma che negava a morte il concetto / mio sulle scienze
e le filosofie / capaci di ragionare in dialetto. / Così,
il Testamento fu per me / anche, credo, un odore di dispetto. //
Ma in primo luogo fu filosofia. / E lallertò continuo
un tormento, / unombra di paura, che avvenisse / che lEssere
assoluto, la Pienezza / che sborra, che straripa, mi vincesse.»).
Oltre questa dichiarazione di poetica, la ragione essenziale di
una poesia in dialetto è quella di ogni altra poesia, quali
che siano lingua e stile che la esprimono. Non può che trattarsi,
in ultima istanza, di «mmùsica de senzu e dde parola,
/ ca, se unu manca o lautra, è cquasisìa / na
prosa rasa» («musica di senso e di parola, / che se
uno o laltra mancano è quasi sia / una prosa rasa»),
come ineccepibilmente si afferma nel son. La puisìa del citato
Palore. La sintesi poetica di senso e parola coinvolge necessariamente
la trascendenza espressiva della musica; lappartenenza contenutistica
del senso è indifferente, fisica o metafisica, simbolica
o non simbolica, chessa possa darsi.
La poesia filosofica di N.D.D. deriva da una lontana e ricorrente
sua storia (egli si è laureato in filosofia, e ha professato
filosofia per una vita), ma prediletta, e, si direbbe, poeticamente
quintessenziata, nellultimo decennio: estremo esito della
crisi della ragione della filosofia occidentale; precisamente, fra
rimeditazione del fallimento dellidealismo gentiliano e riacquisizione
della pascaliana raison du coeur come valore vissuto,
e con riascolto, appena dissimulato, delle filosofie esistenzialistiche,
Heidegger, soprattutto, di Essere e tempo, o, comè
noto, della radicale finitudine delluomo. Frammenti di filosofia,
profondamente interiorizzati, e filosofia in assoluto della propria
poesia, composta sullincombere di unultima stagione
di vita.
Predilezioni e variazioni di temi nichilistici ricorrono, già
frequentemente, nella raccolta Lu senzu de la vita (1992). Così,
allora, scrivevo allAutore, fra glosse a singole poesie: «Il
tentativo di concretizzazione poetico-dialettale della negatività
contemporanea (lu senzu senza senzu de la vita, lu
gnenzi, rimodulati insieme al tema della morte),
senza confronti nei poeti dialettali contemporanei, è di
una irriducibile assolutezza, a volte persino disperatamente tautologico...
Dare sensibile generatività dialettale, linguistico-fantastica
e metrico-prosodica, agli assoluti negativi, mi è parso,
non da oggi, una tua questione vitale. Questa esperienza ora è
tutto lo splendore delle due sezioni del libro, Lu senzu de la vita,
...e de la morte, dove il tuo logos filosofico, vocazionale e temperamentale,
diventa esteticamente primario: paradosso affascinante di una classica
metafisica negativa compatibile con la minimale arcaica saggezza
del dialetto magliese ritrovato e reinventato».
Altre rilevazioni di astratti filosofici in forme reinventive di
dialetto-poesia mi capitava di fare sul penultimo libro, Palore
(1999), o poesia del non-essere della poesia, e continuazione di
precedenti nonsenso e nulla della vita in nuove accezioni esistenziali.
Autentici pezzi dantologia, Pe cci scrivi? (Per chi scrivi?)
e i sonetti Nu tte svacanzi (Non ti metti in vacanza) e Fingimenti;
specialmente il primo, a specchio dellinsensatezza del mestiere
di poeta. Scrivere versi tanto per apparirsi vivo: «Se spicci
tie e llu tuttu mmantinenti / se scumpone a llu gnenti, / percè
scrivi? // Ète ca simu vivi. // Cchiùi la penzu /
la vita, / e cchiùi me pare senza senzu. / E ssenza senzu,
cchiùi, sta calamita / ca me tira cu scriu. // Mmodu mme
pariu viu.» («Se muori tu e il tutto immantinente /
si scompone nel niente, / perché scrivi? // E perché
siamo vivi. // Più la penso / la vita, / e più mi
pare senza senso. / E senza senso, di più, questa calamita
/ che mi tira a scrivere. / Per parermi vivo.»).
E riprendo Filosufannu?, composto di quattro poemetti, dunitario
impianto ideologico, pensato e scritto come unultima possibilità
di poesia, oltre la quale non cè più altro da
dire. Non a caso il primo poemetto sintitola Testamentu, mutuato,
come si è detto, dal libro precedente, Palore, e in nuova
funzione, introduttiva e insieme presimbolica, del radicalismo critico-nichilistico
degli altri poemetti.
Si svolge in lasse sullassurdo della propria vita, e della
vita, eterodeterminata e ignota. Si nasce senza saperlo, fuori da
ogni coscienza, in un tempo che non ci appartiene, estraneo al presente
attuale, in cui si prende coscienza di sé. La vita è
apparenza e inconsistenza: «E ccasa e ffiji, e ogne àutra
famija / dòmmini e ddanimali, e munnu e storia,
/ tuttu ca me cummove e mme rruncija, / e bbene e mmale, tuttu se
ffrantija.» («E casa e figli, e ogni altra famiglia
/ duomini e danimali, e mondo e storia, / tutto che
mi commuove e mi attorciglia, e bene e male, tutto si sfrantuma.»).
Non cè seme che germogli, che non passi attraverso
una coscienza, o presunzione di conoscenza, e non finisca col diventare
«sonnu de sonnu a llu nonzenzu meu» («sogno di
sogno nel nonsenso mio»): oggettiva condizione di dannazione
ad un carcere dal quale non ci si può liberare. Di qui linvenzione
di Dio, come per dare un senso ad una vita, che originariamente
e per sempre ne è priva.
In questa suicida avventura della ragione, per eccesso e tormento
di ragione, superstite è appena il dubbio di una possibile
verità, la quale però non è del presente, e
resta inconoscibile, impedita e proibita dalla morte.
Sintassi anaforica e rime baciate e ripetute, in tipiche ricorrenze
di endecasillabi e settenari, accentuano le poetiche emozioni di
una mente disperata, autointerrogantesi in un dialetto di marcata
impronta naturalistico-trasfigurativa, assunto a materna lingua
darte di prime e ultime verità: «Stu moi, stu
cquai, stu jeu, quanti suntu anni, / Nicola, ca scandaji, ca te
nfanni / an cerca de pertusi / perti a sta libbertà de carciratu,
/ ma ca o su cchiusi, o ca tie si ccecatu? / ca scavi
la raggione e cca la senti / an galla pilu pilu su llu gnenti? /
ca na tisperazzione / te tanta lla suicìtii la raggione?
// O sarà ncè nnu crai / fore de lu prisente
a ddunca stai, / Nicola, e ffenca mmoi / tie, cu lli peti toi, /
mmarcatu / stu prisente nu llài mai. // E ncè
dda lanza forte, / ca nu lla sai cce ggè, e lla chiami
morte» («Questo adesso, questo qui, questo io, quanti
anni sono, / Nicola, che scandagli, che ti affanni / in cerca di
pertugi / aperti in questa libertà di carcerato, / ma che
o sono chiusi, o che tu sei accecato? / che scavi la ragione e che
la senti / a galla sul pelo del niente? / che una disperazione /
ti tenta a suicidarla la ragione? // O forse cè un
domani / fuori dal presente dove stai, / Nicola, e fin adesso /
tu, coi piedi tuoi, / questo presente non lhai varcato mai.
// E cè quella lancia forte, / che non la sai cosè,
e la chiami morte.»).
Èssere è lla Vita è il maggiore dei quattro
poemetti, per ricchezza di argomenti relativi allintera biografia
intellettuale dellAutore. Continua Testamentu per più
aspetti tematici e ideologici.
Allinizio, e poco oltre, la già osservata legittimazione
del dialetto come lingua poetica della filosofia e delle sue stesse
più ardite sperimentazioni. Seguono le occasioni gentiliane
del filosofare, di particolare impegno, se non di accanimento, concettualistico
e argomentativo, dove la scrittura poetica pare come costringersi
e opacizzarsi in pura prosa in versi. Ma forse è impressione
apparente, e comunque opinabile, soprattutto se si riflette sulle
difficoltà speculative dellitinerario mentale descritto,
sul complesso simbolismo autobiografico, dagli esiti definitivi
e testamentali.
Non saprei, a questo punto, elaborare una sintesi critica del poemetto
meglio centrata nel testo, e pienamente condivisa dallAutore,
di quella della mia lettera pubblicata ad apertura di Filosufannu?,
e che qui mi piace riproporre:
«Caro Nicola, questo tuo poemetto Èssere è
lla Vita [...] è forse il momento più alto del tuo
essere poeta di pensiero per passione di filosofia, per eventualità
di conoscenza esaustiva. Vanamente, e disperatamente, se lo stesso
gentiliano Atto Puro dovevi affinare fino a farlo coincidere con
il suicidio della ragione. Pare unultima resa dei conti con
la filosofia che da tutta una vita ti si muove in mente. Ed è
questa una prima parte quasi una lezione in versi ad intensa
scansione didascalico-argomentativa di questo nuovo Testamentu.
A partire dalla nona lassa, liquidati illusorietà e trucchi
ontologici dei quali la filosofia da sempre ammantò lessere,
comincio a riconoscerti per il poeta che già conobbi di Mumenti
e ttrumenti, ma che ora straordinariamente ti rinnovi e ti riveli
in visioni di remoto incanto lucreziano-eracliteo («sta fiumara
de lèsseri, a ccatine...»), con attualissime
possibilità nichilistiche dell Essere-gnenti-nu
bbucuneru senza vanzamenti. In quel dialetto che solo è
tuo, sperimenti un nuovo linguaggio, affiatato con la cultura-realtà
di vita e morte, di natura e corpi... Che peccato non esser clone
di Giovanni Gentile e spiegarsi e vivere il mondo con lAttopuro!...
E ricorrono i tuoi antichi motivi: il casualismo del nascere e del
vivere, la nostalgia di una «ggiustizzia senza truffatori»,
e conseguente complainte su «stItalia rriutata suttasusu»...
Poi il poetico colpo dala della discesa e metamorfosi della
filosofia nella vita: riscoperta del Nussacciu, di un
sentimento del vivere con precario battito di cuore stanco e malato,
fino a quel canto mormorato con voce mai prima tentata del tuo tempo
quotidiano. Sparisce laffanno irrassegnato del Testamentu,
e se ne perpetua lapprodo al nulla dellessere di vita
e morte: supremo gioco di poesia della verità di sé
e del mondo [...]».
Il poemetto Ci pecca e ppoi se mmenne, sarvu seste (Chi pecca e
poi si emenda, è salvo) può ritenersi una variazione
sul tema centrale di Èssere è lla Vita, o dellimmaginazione
del Tutto-Niente dellEssere nel Tutto-Niente della Vita. La
contiguità tra i due poemetti, oltre tutto, è anche
cronologica (marzo 2001, luglio dello stesso anno, le due date di
composizione).
Si snodano, da quel centro speculativo, motivi ricorrenti, come
linconoscibilità della condizione umana, la precarietà
di «lu jeu, lu moi, lu cquai»
(«l io, l adesso, il qui»),
lo sgretolarsi delle illudenti idee di un già giovanile platonismo
allavvicinarsi del tempo della morte, la transitorietà
delle infinitesime vite, fino alla potente intuizione poetico-filosofica
dellEssere come Vita e come Morte, e il suo infinito ripetersi
in una natura di un universo, di cui nessuna mente penetrerà
mai il niente e limmenso.
Un tristico monorimo esplicita con ironia il ditterio del titolo,
attraverso lidentificazione della filosofia del concreto con
una disincantata e vanificata visione retrospettiva della vita vissuta.
E il tempo ultimo della vita, emendato delle illusioni, o
tempo filosoficamente salvifico della verità del nulla: «Certu,
palore de nnu narfabbetu / pàrene, ma se sai tte quardi a
rretu, / le troi filosufia de lu cuncretu.» («Certo,
parole di un analfabeta / paiono, ma se sai guardarti indietro,
/ le troverai filosofia del concreto.»).
Lultimo poemetto, Cu lle vite, la Vita, riguarda il sentimento
del tempo, riconfermata ancora una continuità ideologico-speculativa
con i testi precedenti.
Passato e futuro: due niente, opposti e coesistenti dentro le vite.
Esiste solo lagostiniano presente; ma anchesso è
fittizio, senza spazio se non danima. Irrealizzante tempo:
vite infinite fagocitate da una Vita oscura, perpetuata dinconoscibilità.
Ancòra un contrappunto dironia lievita dassurdo
le illusorie soluzioni armonico-trascendentali, platonico-agostiniane,
del tempo, e le sue storicizzazioni in forme e norme di potere,
culturale, politico, religioso, dascendenza aristotelico-tomistica.
Particolare presenza di poesia il colloquiale esercizio di un ottuagenario
filosofo-poeta sullillusorietà del tempo, del suo essere
Vita di non-Vita: «De quista vita mea, jeu, lu prisente, /
ca è llu moi ca è llu cquai, fissu mme tene / allu
gnenzi de tiempu.» («Io di questa vita mia il presente,
/ che è ladesso e il qui, mi tiene fisso / al niente
di tempo.). Un esercizio che si lascia dietro ogni presunzione
di vita vissuta, di memorie e di storie...
Alla fine, un brivido di sgomento, in questo disilluso filosofare
«a llume de lu gnenti» («a lume del niente»).
Si vorrebbe che fosse un inganno. «Ma la Vita è scura».
Che altro di una Vita che uccide e annulla le vite, come il mare
le onde, istantanee e sparenti?
antonio mangione
Il
villaggio della salute
La malattia negata
Castigo divino, maleficio occulto, natura avversa, animali velenosi,
effluvi mortiferi: la storia del pensiero filosofico e medico abbonda
di ipotesi, spesso fantasiose, relative ai motivi capaci di scatenare
in noi uno stato di malattia. Interrogativi tormentosi, spesso senza
risposta, sono accompagnati da un sentimento ancestrale di dolore
e di angoscia per un evento misterioso e spesso incontrollabile.
Per evitare di farci ossessionare dalla paura, ci difendiamo pensando
alla malattia come a qualcosa che capita a qualcun altro o che riguarda
un futuro remoto: un giorno, forse, mi ammalerò.
Malattia e sofferenza, tuttavia, spesso irrompono allimprovviso,
inaspettatamente, mandando in frantumi il nostro senso di unità
e di armonia. La comprensione delle cause non chiarisce mai a sufficienza
il perché noi, piuttosto che unaltra persona.
Anche la comunità si difende, rifiuta la malattia e la sua
visione, la confina mandandola su unisola, nellospedale
o in clinica.
Lisola del dolore
Si ripete così, in forme rinnovate, ciò che si può
trovare anche fra le culture più antiche, dove i malati venivano
separati dal centro vitale e sistemati in un luogo di cura rituale.
Gli ospedali sono situati di rado in mezzo alla città; e
quando lo sono, sono isole chiuse in se stesse. Basta pensare allisola
Tiberina, dove sorgeva un tempio dedicato ad Esculapio, dio della
medicina, sul quale poi è stato edificato, incorporandovi
anche dei ruderi, lattuale Ospedale Fatebenefratelli. Più
spesso si staglia imponente ai margini della comunità
la Cittadella Sanitaria, zona separata da tutto il resto,
dove hanno cittadinanza altre leggi e altri linguaggi.
Il passaggio che unisce e separa la comunità urbana dallospedale
segna una cerimonia di iniziazione estremamente dolorosa.
I riti di passaggio
I riti di passaggio includono la recitazione delle
lamentazioni, il sottostare ad un esame di ammissione, la spoliazione
degli indumenti della vita quotidiana e il rivestimento con la divisa
del paziente (il pigiama), e infine laccettazione formale.
Questo transire da uno stato ad un altro ha i caratteri
della divisione, della scissione delle varie parti di sé,
del rischio della frantumazione irreparabile, di un viaggio in un
altrove sconosciuto che può essere senza ritorno. La paura,
langoscia, lo smarrimento, il senso della perdita e della
privazione accompagnano lammalato in questo attraversamento
da uno stato ad un altro. Tutto ciò precede e conduce ai
riti del trattamento vero e proprio.
Ma fermiamoci un attimo per analizzare questo passaggio. Non è
difficile ammettere che in questo trasferimento cerimoniale qualcosa
dellindividuo sofferente vada perduto.
Il regno diviso del malato
La separazione dellindividuo sofferente dalla sua terra anticipa
altre divisioni, altre scissioni, altre lacerazioni, dentro e fuori
di lui.
Se i riti di passaggio segnano la separazione dellindividuo
dalla comunità, i riti di trattamento segnano la divisione
e la frammentazione delle varie parti del paziente. Se la malattia
è qualcosa che succede agli organi, lo studio delle cause
di malattia si restringe alla ricerca di mutamenti locali nei tessuti.
La stessa organizzazione dellospedale riposa sul modello organicistico:
le malattie vengono suddivise per reparti in base allorgano
compromesso.
Come afferma la Consulta nazionale CEI, «il malato vive spesso,
sulla sua pelle, un sentimento di frantumazione, di essere guardato
e curato da vari operatori sanitari, ognuno dal suo punto di vista,
senza il dovuto rispetto alla sua interezza...».
Ma cè unaltra mutazione importante da non sottovalutare.
Al di là delle differenze dei singoli ammalati, il paziente
sembra regredire ad uno stadio infantile caratterizzato da dipendenza
sia fisica che psicologica. Il suo stato lo esime dai suoi doveri
normali. La sua vita sociale si riduce a subire terapie: mediche,
psicologiche, pedagogiche...
La dipendenza terapeutica fa sì che nellisola del dolore,
corpi sofferenti si affidino, come nellinfanzia e come nellantichità,
a divinità amate e temute per i loro poteri. Laccettazione
del ruolo di malato ha fatto sì che nellindividuo sofferente
sia stato negato il ruolo fondamentale del suo guaritore interno.
Larchetipo guaritore-malato
Salute e malattia, guaritore e malato, medico e paziente sono situazioni
archetipiche, bipolari. Quando una persona si ammala, viene costellato
larchetipo guaritore-paziente: il malato cerca il guaritore
esterno, ma nello stesso tempo si attiva anche il guaritore intrapsichico,
fattore interiore di guarigione. Nessuna ferita può rimarginarsi
e nessuna malattia può risolversi senza lazione curativa
del guaritore interno.
Non molto diversa è la situazione del guaritore. Limmagine
del guaritore ferito trova nella mitologia esempi preziosi.
Per brevità di esposizione, citiamo soltanto limmagine
di Chirone, il centauro che insegnò ad Esculapio larte
di guarire, affetto lui stesso da piaghe incurabili. Queste immagini
mitologiche ci insegnano che non solo il paziente ha un guaritore
dentro di sé, ma anche che nel guaritore esiste un malato
che chiede di essere curato.
Il regno diviso del guaritore
La medicina, che era la maggiore delle arti, perché comprendeva
tutto intero il suo soggetto corpo, spirito, psiche, e lo
stesso mondo ha dimenticato lampiezza del suo regno,
costringendosi quasi esclusivamente nel regno di una fisiologia.
In ospedale il malato è curato, quasi esclusivamente, per
i suoi sintomi somatici.
Nella transizione storica della Medicina da arte a scienza, sullo
spirito ha preso il sopravvento la Teologia, la psiche è
stata lasciata alla Psicologia, il mondo e i rapporti con il mondo
sono stati affidati ai Servizi Sociali, quando non sono stati negati
del tutto. Sui regnanti dei piccoli, sempre più limitati
poderi, sui tecnici dei vari frammenti in cui è stato diviso
lindividuo, grava il rischio del burn-out, dello sgonfiarsi
professionale, dellagire spicciolo e incolore di ogni giorno,
fatto di rapporti professionalmente formali, atti burocratici, stanchi,
ripetitivi, annoianti.
In questo scenario di quotidiana alienazione, gli operatori sanitari
possono arrivare a considerare i malati più come materia
di lavoro che non come persone, fatte della stessa materia
corruttibile di cui essi stessi sono fatti. Quando ciò succede,
il guaritore ferito nega la sua malattia, che rischia di farsi spazio
in questo mondo autistico, in questisola della sofferenza
e della depressione. Al contrario, la certezza durevole e sofferta
della degenerazione del proprio corpo e della propria mente, e la
convinzione che solo per una serie di circostanze favorevoli siamo
noi, in quel momento, a dover curare anziché essere curati,
rendono loperatore sanitario fratello del paziente e capace
di un incontro umano significativo e al tempo stesso salutare per
entrambi.
Il non ascolto come difesa
Il malato che ha disattivato il suo guaritore interno si affida
così ad un guaritore che, spesso, ha dimenticato dessere
a sua volta ferito. Il potere del guaritore si confronta con limpotenza
passiva dellammalato che chiede speranzoso, come ad una divinità,
di essere liberato dal male.
Delega, dipendenza infantile, alienazione di funzioni caratterizzano
lo stato dellammalato. Lindividuo sofferente, al cospetto
di chi spera possa ridargli la salute, cerca di parlare della sua
storia, confessare le sue colpe, cercando ascolto, conforto, espiazione;
ma le labbra dellammalato vengono chiuse prima dalla prescrizione
degli esami di routine, poi dalla diagnosi espressa in termini tecnici,
freddi, perentori, definitivi. Loperatore divinizzato
non può che difendersi da questo enorme investimento di responsabilità,
seguendo una prassi consolidata che sembra proteggerlo da un coinvolgimento
che, oltre che estremamente faticoso, può apparire pressoché
inutile.
I grandi progressi tecnici sono stati accompagnati spesso da un
regresso dal punto di vista del rapporto, del coinvolgimento umano,
con il risultato che la malattia non è più vissuta
come espressione di un problema che riguarda tutta la persona, ma
solo la sua parte malata. Ciò è sempre più
evidente nella standardizzazione dei protocolli per malattia. Vengono
eluse e annullate la storia del paziente e la sua individualità,
egli viene ridotto a caso di una categoria, a elemento di una classe
extra-temporale. Da qui il mito della specializzazione e la focalizzazione
sulla singola malattia organica, che di fatto apre la strada, il
più delle volte, a unattenzione frettolosa, che tende
a negare tutta una serie di sintomi che non corrispondono ai modelli
teorici di riferimento.
Il linguaggio del porcospino
Quasi ventanni fa osservavo come il linguaggio scientifico,
pur se funzionale e strumentalmente efficace, nasconde lipocrisia
dellinganno dietro una facciata di apparente oggettività.
Lincapacità e la paura di riconoscere laltro
nella sua situazione di sofferenza, così complessa e così
antica, inducono il tecnico della salute ad utilizzare diagnosi
elaborate in termini tecnici, che con la loro concretezza
sopraffattoria sbarrano la strada alla possibilità
di pensare, di replicare, di analizzare ulteriormente.
Questo linguaggio, volutamente acritico e antidialettico, è
formato da parole-maschera e da parole mascherate che proteggono
dalla possibilità di essere coinvolti in un gioco di cui
non si conoscono le regole. Per mezzo di questo linguaggio
scudo, il tecnico della salute è in grado di difendersi
dalluomo sofferente nel momento in cui, tentando di stabilire
un legame affettivo con il proprio medico, questi si appresta a
parlare della sua vita, della sua storia. Tutto ciò è
paura del passato, paura dei contenuti sovversivi della memoria,
ma è soprattutto paura del confronto con la propria e altrui
angoscia di morte e con le immagini perverse che laccompagnano.
La morte del dialogo conduce al disconoscimento dellumanità,
ma soprattutto vuole ignorare che la sofferenza possa avere un significato,
una motivazione, un fascio archetipico corrispondente. Dietro le
rappresentazioni meccaniche di organismi difettosi, una umanità
con urla mute e disperate chiede di essere riconosciuta, ascoltata,
accettata.
Lindividuo come totalità sincronica
La trappola dellisolamento specialistico, capace di produrre
visioni necessariamente parziali, aveva negato per troppo tempo
il senso della globalità delluomo e conseguentemente
aveva impedito la comprensione cosciente di meccanismi estremamente
semplici e tuttavia estremamente significativi. La ricerca scientifica
contemporanea, al contrario, sta ritrovando partendo da settori
di ricerca totalmente separati, le antiche certezze relative allunità
psicofisica dellindividuo e sta individuando sempre più
chiaramente i canali di comunicazione del rapporto mente-corpo,
tanto da aver aperto la strada a nuovi campi di indagine scientifica,
quali la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI).
Dalla metà degli anni Settanta, studi sistematici hanno evidenziato
sempre più chiaramente il rapporto che intercorre tra il
sistema nervoso centrale, il sistema endocrino e il sistema immunitario.
Secondo le scoperte della PNEI, il sistema nervoso centrale, il
sistema endocrino e il sistema immunitario farebbero quindi di ununica
entità integrata capace di scambiarsi informazioni
ed emozioni. Oggi, alla luce di queste scoperte, il problema della
salute e della malattia diventa un problema legato allequilibrio
di questi tre apparati, che pur rispondendo a stress differenti,
quello immunologico a stress infettivi, quello nervoso a stress
psico-emotivi, quello endocrino a stress prevalentemente di natura
fisica, nello stato di salute agiscono in sincronia, mentre lo stato
di malattia evidenzia uno squilibrio dellintero sistema. Si
è definitivamente accertato, e accettato, che lindividuo
è una totalità sincronica, così come si è
accertato e accettato che esiste un dialogo interno tra i nostri
apparati più importanti.
La scoperta, a nostro parere, tende a restituire alluomo di
scienza il senso della globalità, dellorganicità
viva del tutto, delluniversalità.
Miracolosamente dalla settorialità, dallisolamento,
dallesasperata specializzazione si sta ritornando ad una visione
più ampia e comprensiva che facilita lo studio dellessere
umano e la capacità di intervenire nella cura delle sue malattie.
La promozione dellincontro
e della comunicazione
La cura, laver cura in senso lato, non può non avere
il carattere della reciprocità comunicativa, conoscitiva
e modificante. Nellincontro vi è un aspetto dinamico,
landare incontro allaltro, superando la distanza, la
separazione. Operatore sanitario e paziente condividono per gran
parte del loro tempo lo stesso spazio e partecipano ad una comune
vicenda. Nonostante ciò, il contatto diretto persona-persona
genera una forma di smarrimento, il sentimento dellignoto,
una sorta di tempesta emotiva che si può tacitare catalogando
laltro in categorie preformate.
Dare spazio e tempo allincontro porta tuttavia al fiorire
della conoscenza nella quale anche la parola terapeutica e lo stesso
farmaco acquistano senso e non unaura mistica sostenuta, quando
cè, da una cieca fede nel tecnico della salute, nellazione
magica del potente stregone. Vi è in sostanza un metodo che
usa la relazione, considerandola essa stessa terapeutica e curativa
e un metodo che tratta la relazione come un ostacolo.
La promozione della salute
Linteresse per la malattia e per la terapia, più che
per il malato e per la sua cura, ha finito talvolta per far dimenticare
che Esculapio oltre a Panacea, aveva una figlia chiamata Igea che,
secondo la mitologia, insegnava ai greci come essere sani.
Nella pratica clinica spesso si curano i sintomi, non si guarisce
la persona. I sintomi spariscono, ma la malattia e i motivi alla
base di tale malattia non vengono curati. Questo perché si
è scelta la strada della soppressione del sintomo, non quella
della sua significazione. Se la terapia viene dallesterno,
la guarigione è un processo che ha luogo allinterno
della persona: un processo che restituisce integrità ed equilibrio.
Limpegno a rispettare lo spirito di Igea, si è limitato
il più delle volte a percorrere, spesso svogliatamente, la
strada della prevenzione della malattia; raramente ci si è
spinti sui sentieri della promozione di comportamenti
che favoriscano la salute.
Il concetto di prevenzione porta con sé il carattere della
staticità, come della necessità di proteggersi con
uno scudo difensivo dallattacco di eventuali nemici che potrebbero
minacciare la nostra integrità. Al contrario, porre laccento
sulla pro-mozione della salute richiede un movimento
di realizzazione della persona, di un processo di immersione nel
cambiamento che deve coinvolgere necessariamente il suo ambiente
interno, ma anche la complessa rete delle sue relazioni sociali,
e il territorio nel quale si trova a vivere e a operare. Un concetto
positivo di salute, quindi, che supera le vecchie concezioni relative
ad un dato e ad uno stato da conservare, e si allarga ad un concetto
di ben-essere individuale e collettivo.
Unimpostazione di questo tipo comporta a vari livelli, anche
a quelli delle scelte di politica sanitaria, una riorganizzazione
delle priorità, con un deciso impegno teso a sfruttare le
situazioni, sociali e individuali, capaci di produrre salute positiva
e benessere collettivo.
Il villaggio della salute
Perché la guarigione, e non solo la scomparsa dei sintomi,
sia una possibilità culturale reale, vi è bisogno,
a mio avviso, che il dolore della malattia, isolato nellospedale,
sia restituito alla comunità, al villaggio. La malattia riguarda
la comunità intera e così la guarigione. Per ritrovare
la guarigione nel nostro mondo è necessario che si cominci
a chiedere alla malattia cosè che vuole farci capire,
che si comincino a vedere le cause sociali che portano alla malattia,
che si comincino a manifestare socialmente le emozioni che a questo
dolore si accompagnano.
Il villaggio della salute non si difende dalla debolezza e dalla
paura, ma vi trova invece un significato condiviso di umanità,
vi trova gli archetipi di un inconscio collettivo, vi trova la propria
anima, che è lanima del mondo di cui spesso ci dimentichiamo
di appartenere, come piccole gocce dacqua allinterno
di unonda maestosa, londa incessante ed eterna dellumanità.
Se vogliamo che il villaggio globale nel quale viviamo
non incida ulteriormente sul processo di spersonalizzazione e di
isolamento del singolo individuo, dobbiamo necessariamente e consapevolmente
ritenere che il fattore umano debba essere ricucito, tenuto insieme,
unitariamente considerato. Ma affinché lunitarietà
dellindividuo sia conservata e trovi risposta, cè
tuttavia necessità di ricucire pure il sistema-servizi deputati
alla cura della persona, dando una risposta unitaria e armonica
ai problemi complessi della salute.
vincenzo ampolo
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