Altro che uomo astratto, universale! Luomo
di cui parlava
la Dichiarazione era
in realtà il borghese,
i diritti tutelati erano
i diritti del borghese.
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La Dichiarazione dei diritti delluomo e del cittadino fu
approvata dallAssemblea nazionale francese il 26 agosto 1789.
La discussione che portò allapprovazione si svolse
in due tempi. Dal 1° al 4 agosto si discusse se si dovesse procedere
a una dichiarazione dei diritti prima dellemanazione di una
costituzione. Contro coloro che la ritenevano inutile e contro coloro
che la ritenevano utile, ma da rinviare, o utile solo se fosse stata
accompagnata da una dichiarazione dei doveri, lAssemblea decise
quasi allunanimità che una dichiarazione dei diritti,
da considerarsi, secondo le parole di un membro dellAssemblea
ispirate a Rousseau, latto della costituzione di un popolo,
doveva essere proclamata subito e quindi precedere la Costituzione.
Dal 20 al 26 agosto il testo prescelto dallAssemblea venne
discusso e approvato. I testimoni del tempo e gli storici sono concordi
nel ritenere che questo atto rappresenti uno di quei momenti decisivi,
almeno simbolicamente, che segnano la fine di unepoca e linizio
di unaltra, e pertanto indichi una svolta nella storia del
genere umano. Un grande storico della Rivoluzione, Georges Lefebvre,
scrisse: «Proclamando la libertà, luguaglianza
e la sovranità popolare, la Dichiarazione costituì
latto di decesso dellAntico Regime distrutto dalla Rivolu-zione».
Tra le mille e mille testimonianze del significato ideale di questo
testo, che ci hanno lasciato gli storici del secolo scorso, scelgo
quella di uno scrittore politico, che pur fu il primo a mettere
in discussione limmagine che la Rivoluzione aveva avuto di
se stessa, Alexis de Tocqueville. Riferendosi alla prima fase dell89,
la descrive come «il tempo di giovanile entusiasmo, di fierezza,
di passioni generose e sincere, di cui, ad onta di ogni errore,
gli uomini serberebbero eterna memoria, e che, per gran tempo ancora,
turberà i sonni di coloro che gli uomini vogliono asservire
o corrompere».
Curiosamente, la stessa parola entusiasmo una
parola che il razionalista Voltaire detestava era stata usata
da Kant che, pur condannando come un abominio il regicidio, scrisse
che «questa rivoluzione di un popolo ricco di spiritualità»,
che pure aveva potuto accumulare «miseria e crudeltà»,
aveva trovato tuttavia «una partecipazione daspirazioni
che rasentava lentusiasmo», e non poteva avere per causa
se non «una disposizione morale della specie umana».
Definito lentusiasmo «la partecipazione al bene con
passione», spiegava subito dopo che «il vero entusiasmo
si riferisce solo e sempre a ciò che è ideale, a ciò
che è puramente morale», e che la causa morale di questo
entusiasmo era «il diritto che ha un popolo di non essere
impedito da altre forze di darsi una costituzione civile che esso
crede buona». In tal modo, Kant collegava direttamente laspetto
che egli riteneva positivo della rivoluzione al diritto di un popolo
di decidere da se stesso il proprio destino. Ebbene, questo diritto
si sarebbe rivelato, primamente, secondo Kant, nella Rivoluzione
francese. E questo diritto era il diritto di libertà in uno
dei due sensi principali del termine, come autodeterminazione, come
autonomia, come capacità di dare una legislazione a se stessi,
come lantitesi di ogni forma di potere paterno o patriarcale,
che aveva caratterizzato i governi dispotici tradizionali. Quando
Kant in un passo della Pace perpetua definisce la libertà,
la definisce in questo modo: «La libertà giuridica
è la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne,
se non a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso». In
questa definizione, chiarissima era lispirazione di Rousseau
che aveva definito la libertà come «lobbedienza
alla legge che ci si è prescritti».
Nonostante il dissenso più volte manifestato nei riguardi
dellidealismo astratto kantiano, e lostentazione di
una certa superiorità dei tedeschi che non avevano avuto
bisogno della Rivoluzione perché avevano avuto la Riforma,
Hegel, giunto a parlare, nelle sue lezioni di filosofia della storia,
della Rivoluzione francese, non può nascondere la sua ammirazione
e parla anchegli di «entusiasmo dello spirito»
(Enthusiasmus des Geistes), da cui il mondo fu percorso e agitato
«come se allora fosse finalmente avvenuta 1a vera conciliazione
del divino col mondo». Chiamandola «una splendida aurora»,
per cui «tutti gli esseri pensanti hanno celebrato concordi
questepoca», esprimeva con questa metafora la propria
convinzione che con la rivoluzione avesse avuto inizio una nuova
epoca della storia con un esplicito riferimento alla Dichiarazione,
il cui scopo era, a suo giudizio, quello tutto politico di tener
fermi i diritti naturali, di cui il principale è la libertà,
seguito dalluguaglianza di fronte alla legge come una sua
ulteriore determinazione. La prima difesa, ampia, storicamente documentata
e filosoficamente argomentata, della Dichiarazione fu quella contenuta
nelle due parti de I diritti delluomo di Thomas Paine che
appaiono rispettivamente nel 1791 e nel 1792. Lopera è
in gran parte un pamphlet contro Edmund Burke, che in difesa della
costituzione inglese aveva attaccato con acrimonia la rivoluzione
sin dalla sua prima fase e a proposito dei diritti delluomo
aveva detto: «Noi non ci siamo lasciati vuotare dei nostri
sentimenti per riempirci artificialmente, come uccelli imbalsamati
in un museo di paglia e cenci e insipidi frammenti di carta esaltanti
i diritti delluomo».
Naturali sono per Burke sentimenti come il timor di Dio, il rispetto
del Re, laffetto per il Parlamento, innaturali, invece, anzi
«falsi e spuri», quelli che (lallusione ai diritti
naturali è evidente) cinsegnano «una servile,
licenziosa e incomposta insolenza, una specie di libertà
che dura solo pochi giorni di festa, e ci rendono giustamente degni
di una eterna e miserevole schiavitù». Precisava che
gli inglesi sono uomini legati ai sentimenti più naturali,
anche se sono pregiudizi: «Ci guardiamo bene dal permettere
ad esseri umani di vivere e agire sulla scorta dei lumi della propria
individuale razionalità [...], perché riteniamo che
sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio di esperienza accumulato
dai popoli nel corso di lunghi secoli». Per fondare i diritti
delluomo Paine offre una giustificazione, e non poteva allora
essere altrimenti, religiosa. Per trovare il fondamento dei diritti
delluomo occorre, a suo giudizio, non restare dentro alla
storia, come aveva fatto Burke, ma trascendere la storia e arrivare
al tempo dellorigine, quando luomo era uscito dalle
mani del Creatore. La storia non prova nulla se non i nostri errori,
da cui dobbiamo liberarci. Lunico punto di partenza per uscirne
sta nel riaffermare lunità del genere umano che la
storia ha diviso. Solo così si scopre che luomo, prima
di avere dei diritti civili che sono il prodotto della storia, ha
dei diritti naturali che li precedono, e questi diritti naturali
sono il fondamento di tutti i diritti civili. Più precisamente:
«Sono diritti naturali quelli che spettano alluomo in
virtù della sua esistenza. A questo genere appartengono tutti
i diritti intellettuali, o diritti della mente, e anche tutti quei
diritti di agire come individuo per il proprio benessere e per la
propria felicità che non siano lesivi dei diritti naturali
altrui». Distinguendo tre forme di governo, quello fondato
sulla superstizione, o governo del clero, quello fondato sulla forza,
o dei conquistatori, chiamava il terzo, fondato sullinteresse
comune, quello della ragione.
Paine, prima di giungere in Francia, aveva partecipato attivamente
alla rivoluzione americana, con vari scritti e in particolare con
il saggio Common sense (1776), nel quale, pur da suddito britannico
qual era, aveva criticato aspramente il potere regio reclamando
il diritto degli Stati americani allindipendenza, partendo
dalla tesi, così caratteristica del più genuino liberalismo,
secondo cui era venuta lora che la società civile si
emancipasse dal potere politico, perché, mentre la società
è una benedizione, il governo, come le vesti che ricoprono
la nostra nudità, è lemblema dellinnocenza
perduta.
Con la sua azione e con la sua opera, Paine rappresentò la
continuità fra le due rivoluzioni. Non aveva dubbi che luna
fosse lo svolgimento dellaltra e che in generale la rivoluzione
americana avesse aperto la porta alle rivoluzioni in Europa: identici
erano i princìpi ispiratori, e il loro fondamento, il diritto
naturale; identico il loro sbocco, il governo fondato sul contratto
sociale, la repubblica come governo che respinge per sempre la legge
dellereditarietà, la democrazia come governo di tutti.
Il rapporto fra le due rivoluzioni, ben altrimenti complesso, è
stato in questi due secoli continuamente ripreso e dibattuto. I
problemi sono due: quale sia stato linflusso e se sia stato
determinante, della più antica sulla più recente;
quale delle due, considerate di per se stesse, sia politicamente
o eticamente superiore allaltra.
Rispetto al primo problema, il dibattito fu particolarmente acceso
alla fine del secolo, quando Jellinek in una nota opera uscita nel
1896 negò con un esame punto per punto loriginalità
della Dichiarazione francese, sollevando vivaci repliche di chi
sostenne che la somiglianza era dovuta allispirazione comune,
ed era anche improbabile per la scarsa conoscenza che i costituenti
avevano dei vari Bills of Rights americani.
A ben osservare, alcune differenze di principio ci sono: nella Dichiarazione
dell89 non compare fra le mete da raggiungere la felicità
(lespressione felicità di tutti compare
solo nel preambolo), e quindi felicità non è
più una parola chiave del documento come era stata invece
nelle carte americane, a cominciare da quella della Virginia (1776),
nota ai costituenti francesi, dove alcuni diritti inherent (termine
tradotto con una certa forzatura innato) sono protetti
perché essi permettono il perseguimento della felicità
e della sicurezza. Che cosa fosse la felicità,
e quale fosse il rapporto fra la felicità e il bene pubblico,
era stato uno dei temi dibattuti dai philosophes, ma via via che
prese corpo la figura dello Stato liberale e di diritto, fu completamente
abbandonata lidea che fosse compito dello Stato provvedere
alla felicità dei sudditi. Anche in questo caso la parola
più chiara e illuminante fu detta da Kant il quale, in difesa
dello Stato liberale puro, il cui scopo è di permettere che
la libertà di ognuno si possa esplicare in base a una legge
universale di ragione, aveva respinto lo Stato eudemonologico, il
quale pretendeva che fosse suo compito rendere felici i sudditi,
mentre deve essere solo quello di dare ad essi tanta libertà
da permettere a ciascuno di perseguire la propria felicità
a suo modo.
Secondariamente, la Dichiarazione francese è, comè
stato più volte notato, ancor più intransigentemente
individualistica di quella americana. Che la concezione della società,
che stava alla base delle due dichiarazioni, fosse quella che nel
secolo successivo sarà chiamata, quasi sempre con una connotazione
negativa, individualistica, non ha bisogno di essere particolarmente
sottolineato, anche perché vi torneremo più oltre.
Alla formazione di questa concezione per cui lindividuo isolato,
indipendentemente da tutti gli altri, è il fondamento della
società, contrariamente allidea, tramandata nei secoli,
delluomo come animale politico, e come tale sociale sin dalle
origini, avevano contribuito sia lidea di uno stato di natura,
quale era stato ricostruito da Hobbes a Rousseau, come stato presociale,
sia la costruzione artificiale dellhomo oeconomicus fatta
dai primi economisti, sia lidea cristiana dellindividuo
come persona morale, che ha valore di per se stessa, in quanto creatura
di Dio. Tutte e due le dichiarazioni partono dagli uomini singolarmente
considerati; i diritti che esse proclamano appartengono agli individui
presi uno ad uno, che li possiedono prima di entrare in qualsiasi
società. Ma mentre lutilità comune
è invocata dal documento francese unicamente per giustificare
eventuali distinzioni sociali, le carte americane fanno
quasi tutte un riferimento diretto allo scopo dellassociazione
politica che è quello del common benefit (Virginia), del
good of the whole (Maryland), o del common good (Massachusetts).
I costituenti americani avevano collegato i diritti dellindividuo
con il bene comune della società. I costituenti francesi
intendono affermare primamente ed esclusivamente i diritti degli
individui. Ben diversa sarà lidea cui si ispirerà
la Costituzione giacobina, in cui campeggia larticolo 1, il
quale recita: «Scopo della società è la felicità
comune», e rimette in primo piano ciò che è
di tutti rispetto a quello che appartiene ai singoli, il bene del
tutto rispetto ai diritti delle parti.
Quanto al secondo tema, la controversia era antica. Già durante
la discussione allAssemblea nazionale uno dei suoi membri,
Pierre Victor Malouet, intendente di finanza, candidato della Bassa
Alvernia, aveva espresso parere contrario alla proclamazione dei
diritti, affermando che quello che era andato bene per gli americani
che «hanno preso luomo nel seno della natura e lo presentano
alluniverso nella sua sovranità primitiva», ed
erano quindi «preparati a ricevere la libertà in tutta
la sua energia», non andava altrettanto bene per i francesi,
di cui «una moltitudine immensa» era composta da uomini
senza proprietà che si attendono dal governo più la
sicurezza del lavoro, che li rende peraltro dipendenti, che la libertà».
Anche in questo caso, tra le molte testimonianze di tale controversia,
ne scelgo una che dovrebbe essere particolarmente familiare, anche
se ho limpressione che sia stata del tutto dimenticata. Nel
saggio su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana
del 1855, Manzoni affronta il tema della comparazione fra la rivoluzione
americana e quella francese proprio partendo da un confronto tra
la Costituzione americana del 1787 e la Dichiarazione dell89,
e non esita a dare la palma alla prima, con argomenti che arieggiano
a quelli dellintendente francese. A parte il fatto, egli osserva,
che la Costituzione americana del 1787 non si fece precedere da
nessuna dichiarazione, le dichiarazioni dei congressi precedenti
non riguardavano che «alcuni diritti positivi e speciali delle
Colonie di fronte al Governo e al Parlamento dInghilterra;
si limitavano, cioè, a proclamare e a rivendicare quei tanti
diritti che erano stati violati da quel Governo, e voluti invalidare
da quel Parlamento, contro un antico e pacifico possesso».
Concludeva che la somiglianza che si era voluta vedere tra le due
dichiarazioni era solo verbale e verbale era la loro enunciazione
tanto che, mentre le carte degli americani avevano avuto leffetto
voluto, della solenne proclamazione dei costituenti dell89
si poteva dire solo che aveva preceduto «di poco il tempo
in cui il disprezzo e la violazione di ogni diritto arrivarono a
un segno da lasciare in dubbio se nella storia ci si trovi un paragone».
Lasciamo la disputa sul rapporto fra le due dichiarazioni agli storici.
Nonostante linfluenza anche immediata che la rivoluzione delle
tredici colonie ebbe in Europa e il rapido formarsi nel vecchio
continente del mito americano, fu la Rivoluzione francese che costituì
per circa due secoli il modello ideale per tutti coloro che combatterono
per la propria emancipazione e per la liberazione del proprio popolo.
Furono i princìpi dell89 che costituirono, nel bene
come nel male, un punto di riferimento obbligato per gli amici e
per i nemici della libertà, invocati dagli uni, esecrati
dagli altri. Della sotterranea e immediata forza espansiva che la
rivoluzione francese ebbe in Europa, permettetemi di ricordare la
splendida immagine di Heine, che paragonava il fremito dei tedeschi
nelludire le notizie di quel che accadeva in Francia al mormorio
che esce dalle grosse conchiglie, che si mettono per ornamento sul
caminetto, anche quando sono ormai da tempo lontanissime dal mare:
«Quando a Parigi nel grande oceano umano le onde della rivoluzione
salivano, ribollivano e infuriavano tempestosamente, al di là
del Reno i cuori tedeschi mormoreggiavano e fremevano».
Quante volte echeggiò il richiamo ai princìpi dell89
nei momenti cruciali della nostra storia! Mi limito a ricordarne
due, il Risorgimento e lopposizione al fascismo. Pur preconizzando
una nuova epoca che chiamò «sociale», Mazzini
riconobbe che nella Dichiarazione dell89 erano stati riassunti
«i risultati dellepoca cristiana, ponendo fuor dogni
dubbio e innalzando a dogma politico la libertà conquistata
nella sfera dellidea dal mondo greco-romano, leguaglianza
conquistata dal mondo cristiano e la fratellanza, chè
conseguenza immediata dei due termini». Carlo Rosselli, nel
libro programmatico, scritto al confino e pubblicato in Francia
nel 1930, Socialismo liberale, disse che il principio di libertà,
estesosi alla vita culturale durante i secoli XVII e XVIII, aveva
raggiunto lapogeo con lEnciclopedia e «finì
per trionfare in sede politica con la Rivoluzione dell89 e
la sua Dichiarazione dei diritti».
Nel bene e nel male, ho detto. La condanna dei princìpi dell89
è stato uno dei motivi abituali di ogni movimento antirivoluzionario,
da De Maistre fino allAction Française. Ma basti citare
un brano del principe degli scrittori reazionari (col quale amoreggia
da qualche tempo una nuova sinistra senza bussola), Friedrich Nietzsche,
il quale in uno degli ultimi frammenti pubblicati postumi scrisse:
«La nostra ostilità alla Révolution non si riferisce
alla farsa cruenta, allimmoralità con cui si svolse;
ma alla sua moralità di branco, alle verità
con cui sempre e ancora continua a operare, alla sua immagine contagiosa
di giustizia e libertà con cui si accalappiano
tutte le anime mediocri, al rovesciamento dellautorità
delle classi superiori». Dopo non molti anni gli facevano
eco alcuni suoi, forse inconsapevoli, nipotini italiani, che schernivano
«lapoteosi delle rimbombanti blagues della Rivoluzione
francese: Giustizia, Fraternità, Eguaglianza, Libertà».
Il nucleo dottrinale della Dichiarazione è contenuto nei
primi tre articoli: il primo riguarda la condizione naturale degli
individui che precede la formazione della società civile;
il secondo, il fine della società politica che viene, se
non cronologicamente, assiologicamente dopo lo stato di natura;
il terzo, il principio di legittimità del potere che spetta
alla nazione. La formula del primo: «Gli uomini nascono e
rimangono liberi ed eguali nei diritti» è stata ripresa
quasi letteralmente dal primo articolo della Dichiarazione universale
dei diritti delluomo: «Tutti gli esseri umani nascono
liberi ed eguali in dignità e diritti». Rousseau aveva
scritto allinizio del Contratto sociale: «Luomo
è nato libero ma dovunque è in catene». Si trattava,
comè stato detto più volte, di una nascita non
naturale ma ideale. Che gli uomini non nascano né liberi
né eguali era dottrina corrente, da quando la credenza in
una mitica età delloro, che risaliva agli antichi ed
era stata ripresa durante il Rinascimento, era stata soppiantata
dalla teoria, che da Lucrezio era arrivata sino a Vico, dellorigine
ferina delluomo e della barbarie primitiva.
Che gli uomini fossero liberi ed eguali nello stato di natura descritto
da Locke allinizio del Secondo trattato sul governo civile,
era unipotesi razionale: non era né una constatazione
di fatto né un dato storico, ma era unesigenza della
ragione che sola avrebbe potuto capovolgere radicalmente la concezione
secolare secondo cui il potere politico, il potere sugli uomini,
limperium, procede dallalto in basso, e non viceversa.
Questa ipotesi doveva servire, secondo lo stesso Locke, «a
bene intendere il potere politico e derivarlo dalla sua origine».
Era questo esattamente il fine che si erano proposti i costituenti,
i quali subito dopo nel secondo articolo dichiarano che «lo
scopo di ogni associazione politica è la conservazione di
diritti naturali e imprescrittibili delluomo», quali
la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza
alloppressione. Nellarticolo non ricorre lespressione
contratto sociale, ma lidea del contratto è
implicita nella parola associazione. Per associazione
sintende, non si può non intendere, una società
di contratto. Il collegamento tra i due articoli è dato dal
fatto che il primo parla di eguaglianza nei diritti, il secondo
specifica quali siano questi diritti tra cui non compare più
leguaglianza, che riappare però nellarticolo
6 che la prevede di fronte alla legge, e nell articolo 13
che la prevede in campo fiscale.
Dei quattro diritti elencati, solo la libertà vi è
definita (art. 4); ed è definita come il diritto di «poter
fare tutto ciò che non nuoce ad altri», che è
definizione diversa da quella corrente da Hobbes a Montesquieu,
secondo cui la libertà consiste nel fare tutto ciò
che le leggi permettono, e da quella di Kant secondo cui la mia
libertà si estende sino a che è compatibile con la
libertà degli altri. La sicurezza sarà definita nellart.
8 della Costituzione del 1793 come la «protezione accordata
dalla società a ciascuno dei suoi membri per la conservazione
della sua persona, dei suoi diritti e delle sue proprietà».
Quanto alla proprietà, che lultimo articolo della Dichiarazione
considera «un diritto inviolabile e sacro», è
quella su cui si appunteranno le critiche dei socialisti e consegnerà
alla storia la Rivoluzione dell89 come rivoluzione borghese.
La sua appartenenza ai diritti naturali discendeva da unantica
tradizione giuridica ben precedente allaffermarsi delle dottrine
giusnaturalistiche. Era una conseguenza dellautonomia, nel
diritto romano classico, del diritto privato rispetto al diritto
pubblico, della dottrina dei modi originari di acquisto della proprietà
attraverso loccupazione e il lavoro, e dei modi derivati,
attraverso il contratto e la successione, modi, gli uni e gli altri,
appartenenti alla sfera dei rapporti privati svolgentisi al di fuori
della sfera pubblica. Per non risalire troppo indietro, era ben
nota la teoria di Locke, uno dei principali ispiratori della libertà
dei moderni, secondo cui la proprietà deriva dal lavoro individuale,
vale a dire da unattività che si svolge prima e allinfuori
dello Stato.
Contrariamente a ciò che oggi si potrebbe pensare dopo le
storiche rivendicazioni dei nullatenenti contro i proprietari guidate
dai movimenti socialisti del sec. XIX, il diritto di proprietà
fu considerato per secoli un argine, il più forte argine,
al potere arbitrario del sovrano. Fu se mai il più rigoroso
teorico dellassolutismo,Thomas Hobbes, che ebbe lardire
di sostenere essere una teoria sediziosa, e quindi da condannare
in uno Stato fondato su princìpi di ragione, «che i
cittadini abbiano la proprietà assoluta delle cose in loro
possesso».
Che anche dietro laffermazione del diritto di resistenza alloppressione
ci fosse il pensiero di Locke, nonostante fosse molto più
antico, è pacifico. Avendo sostenuto che la ragione per cui
gli uomini entrano in società è la conservazione delle
loro proprietà, oltre che della libertà, Locke ne
deduceva che quando il governo viola questi diritti, si mette in
stato di guerra col suo popolo, il quale è da quel momento
sciolto da ogni vincolo di obbedienza, e non gli rimane che il «comune
rifugio che Dio ha offerto a tutti gli uomini contro la forza e
la violenza», cioè riprendersi la libertà originaria
e resistere. Giuridicamente, il diritto di resistenza è un
diritto secondario, allo stesso modo che sono norme secondarie quelle
che provvedono alla protezione delle norme primarie: è un
diritto secondario che interviene in un secondo momento quando vengono
conculcati i diritti di libertà, di proprietà e di
sicurezza, che sono diritti primari. Diverso, anche perché
il diritto di resistenza interviene a tutelare gli altri diritti,
ma non può essere a sua volta tutelato e pertanto devessere
esercitato a proprio rischio e pericolo. A stretto rigor di logica,
nessun governo può garantire lesercizio del diritto
di resistenza, che insorge proprio quando il cittadino non riconosce
più lautorità del governo, e il governo a sua
volta non ha più alcun obbligo verso di lui. Con una possibile
allusione a questo articolo, Kant dirà che «affinché
il popolo sia autorizzato alla resistenza, dovrebbe esserci una
legge pubblica che la permettesse», ma una tale disposizione
sarebbe contraddittoria, perché nel momento in cui il sovrano
ammette la resistenza contro di sé rinuncia alla propria
sovranità e il suddito diventa sovrano al posto suo. Non
è possibile che i costituenti non si rendessero conto della
contraddizione. Ma, come spiega Georges Lefebvre, linserimento
del diritto di resistenza fra i diritti naturali era dovuto al ricordo
immediato del 14 luglio e al timore di un nuovo assalto aristocratico,
e quindi non era altro che la giustificazione postuma della lotta
contro lAntico Regime. Nella Dichiarazione universale dei
diritti delluomo del 1948 non compare il diritto di resistenza,
ma nel preambolo si legge che i diritti delluomo, che saranno
via via enumerati, debbono essere protetti «se si vuole evitare
che luomo sia costretto come ultima istanza alla ribellione
contro la tirannia e loppressione». Come dire che la
resistenza non è un diritto, ma è in determinate circostanze
una necessità (come indica la parola costretto).
Il terzo articolo, secondo cui «il principio di ogni sovranità
risiede essenzialmente nella nazione», rispecchia fedelmente
il dibattito che si era svolto nel mese di giugno quando era stata
respinta la proposta del conte di Mirabeau di adottare la parola
popolo che segnava la differenza rispetto agli altri
due ordini, anziché nazione, più comprensiva,
unificante e conglobante, sostenuta dallabate Sieyès,
donde era nato il nome di Assemblea nazionale; ed esprime il concetto,
destinato a diventare uno dei capisaldi di ogni governo democratico
del futuro, che la rappresentanza è una e indivisibile, cioè
non può essere divisa in base agli ordini o stati in cui
era divisa la società del tempo, e nella sua unità
e indivisibilità è composta non da corpi separati
ma da individui singoli, che contano ciascuno per uno, in conformità
di un principio che giustifica da allora in poi la diffidenza di
ogni governo democratico per la rappresentanza degli interessi.
Nel concetto della sovranità una e indivisibile della nazione
era implicito anche il principio del divieto di mandato imperativo
sostenuto fermamente da Sieyès, un principio già adombrato
nellart. 6 secondo cui la legge è lespressione
della volontà generale, e formulato esplicitamente allart.
8 del preambolo della legge 22 dicembre 1789 che recita: «I
rappresentanti nominati allAssemblea nazionale dai dipartimenti
dovranno essere considerati non come i rappresentanti di un dipartimento
particolare, ma come i rappresentanti della totalità dei
dipartimenti, cioè dellintera nazione». Rappresentanza
individuale e non per corpi separati, e divieto di mandato imperativo,
erano due istituti che concorrevano alla distruzione della società
per ordini, dove, ogni ordine avendo un suo ordinamento giuridico
separato, gli individui non sono eguali né nei diritti né
di fronte alla legge. Da questo punto di vista la Dichiarazione
poteva ben essere detta, come la definì un grande storico
della Rivoluzione, Alphonse Aulard, latto di morte dellAntico
Regime, anche se il colpo di grazia sarà dato solo nel preambolo
della Costituzione del 1791, là dove seccamente sarà
proclamato che «non cè più nobiltà,
né paria né distinzioni ereditarie, né distinzioni
di ordini né di regime feudale, non cè più
per nessuna parte della Nazione, né per nessun individuo,
né privilegio né eccezione al diritto comune di tutti
i Francesi».
La Dichiarazione è stata sottoposta da allora a oggi a due
critiche ricorrenti e opposte: è stata accusata di eccessiva
astrattezza da parte dei reazionari e dei conservatori in genere,
e di eccessivo legame agli interessi di una classe particolare da
parte di Marx e della sinistra in genere. Laccusa di astrattezza
è stata ripetuta infinite volte: del resto, lastrattezza
del pensiero illuministico è uno dei luoghi classici di tutte
le correnti anti-illuministiche. Non sto a ripetere la celebre battuta
di De Maistre, il quale vedeva inglesi, tedeschi, francesi e, grazie
a Montesquieu, sapeva che cerano anche i persiani, ma luomo,
luomo in generale, non laveva mai visto e se esisteva
era a sua insaputa. Basterà citare, meno noto ma non meno
drastico, un giudizio di Taine, secondo cui la maggior parte degli
articoli della Dichiarazione «non sono che dogmi astratti,
definizioni metafisiche, assiomi più o meno letterari, cioè
più o meno falsi, ora vaghi ora contraddittori, suscettibili
di più significati e di significati opposti [...], una specie
dinsegna pomposa inutile e pesante che [...] rischia di cadere
sulla testa dei passanti scossa ogni giorno da mani violente».
Chi non si accontenti di queste, non sai se chiamarle più
deprecazioni o imprecazioni, e cerchi una critica filosofica, dovrà
andare a leggere lAggiunta al Paragrafo 539 dellEnciclopedia
di Hegel, dove, oltre a molte importanti considerazioni, è
detto che libertà ed eguaglianza sono così poco per
natura che sono «un prodotto e un risultato della coscienza
storica», diversa fra laltro da nazione a nazione.
Ma è proprio vero che i costituenti francesi fossero così
poco accorti, avessero la testa così nelle nuvole e i piedi
così poco per terra? A questa domanda è stato risposto
con losservazione che quei diritti apparentemente astratti
erano in realtà nellintenzione dei costituenti strumenti
di polemica politica e ciascuno di essi doveva essere interpretato
come lantitesi di un abuso di potere che si voleva combattere,
giacché i rivoluzionari, come aveva già detto Mirabeau,
più che una dichiarazione astratta di diritti avevano voluto
fare un atto di guerra contro i tiranni. Se poi questi diritti furono
proclamati come se fossero iscritti in una tavola delle leggi fuori
del tempo e della storia, ciò era dipeso, come spiegherà
Tocqueville, dal fatto che la Rivoluzione francese era una rivoluzione
politica che aveva operato come le rivoluzioni religiose, che considerano
luomo in se stesso senza soffermarsi su ciò che le
leggi, le costumanze e le tradizioni di un popolo possono avere
innestato di peculiare su quel fondo comune, ed aveva operato come
le rivoluzioni religiose perché «sembrava tendere alla
rigenerazione del genere umano; più ancora che alla riforma
della Francia». Fu del resto questa la ragione per cui, secondo
Tocqueville, poté accendere passioni che sino allora le rivoluzioni
politiche anche più violente non avevano mai potuto produrre.
La critica opposta, secondo cui la Dichiarazione, anziché
essere troppo astratta, era invece tanto concreta e storicamente
determinata da essere in realtà non la difesa delluomo
in generale, che sarebbe esistito allinsaputa dellautore
delle Serate di San Pietroburgo, ma del borghese, che esisteva in
carne ed ossa e lottava per la propria emancipazione di classe contro
laristocrazia e senza troppo preoccuparsi dei diritti di quello
che sarebbe stato chiamato il Quarto Stato, era stata fatta da Marx
giovane nellarticolo sulla Questione ebraica, troppo noto
perché convenga indugiarvi, e poi ripetuta ritualmente da
diverse generazioni di marxisti. Altro che uomo astratto, universale!
Luomo di cui parlava la Dichiarazione era in realtà
il borghese, i diritti tutelati erano i diritti del borghese, delluomo,
spiegava Marx, egoista, separato dagli altri uomini e dalla comunità,
delluomo «in quanto monade isolata e chiusa in se stessa».
Quali siano state le conseguenze, che io ritengo funeste, di questa
interpretazione, che scambiava una questione di fatto, cioè
loccasione storica da cui la richiesta di quei diritti era
nata, che era certamente la lotta del Terzo Stato contro laristocrazia,
con una questione di principio, e vedeva nelluomo solo il
cittadino e nel cittadino solo il borghese, è un tema su
cui forse, col senno di poi, abbiamo idee più chiare dei
nostri padri. Ma siamo ancora troppo dentro alla corrente di questa
storia per poter vedere dove andrà a finire. Mi sembra difficile
negare che laffermazione dei diritti delluomo, in primis
di quelli di libertà, o meglio delle libertà individuali,
sia uno dei punti fermi del pensiero politico universale da cui
non si torna più indietro. Laccusa che Marx muoveva
alla Dichiarazione era quella di essere ispirata a una concezione
individualistica della società. Laccusa era giustissima,
ma è accettabile?
Certo, il punto di vista da cui si mette la Dichiarazione per dare
una soluzione alleterno problema dei rapporti fra governanti
e governati è quello dellindividuo, dellindividuo
singolo, considerato come il titolare del potere sovrano, in quanto
nellipotetico stato di natura presociale non cè
ancora alcun potere al di sopra di lui. Il potere politico, ovvero
il potere degli individui associati, viene dopo. E un potere
che nasce da una convenzione, è il prodotto di uninvenzione
umana, come una macchina, anzi è, secondo la definizione
di Hobbes, la cui ricostruzione razionale dello Stato parte con
assoluto rigore dagli individui singolarmente considerati, la più
ingegnosa e anche la più benefica delle macchine, la machina
machinarum. Questo punto di vista rappresenta il rovesciamento radicale
del punto di vista tradizionale del pensiero politico sia classico,
in cui le due metafore predominanti per rappresentare il potere
sono quella del pastore (e il popolo è il gregge) e quella
del nocchiero, del gubernator (e il popolo è la ciurma),
sia medioevale (omnis potestas a Deo). Da questo rovesciamento nasce
lo Stato moderno, prima liberale, in cui gli individui che rivendicano
il potere sovrano sono solo una parte della società, poi
democratico, in cui sono potenzialmente tutti, e infine sociale,
in cui gli individui diventati tutti sovrani senza distinzioni di
classi rivendicano, oltre i diritti di libertà, anche i diritti
sociali, i quali sono anchessi diritti dellindividuo:
lo Stato dei cittadini, che non sono più solo i borghesi,
né i cittadini di cui parla Aristotele allinizio del
terzo libro della Politica, definiti come coloro che possono accedere
alle cariche pubbliche e sono, tolti gli schiavi e gli stranieri,
anche in una democrazia, una minoranza.
Il punto di vista tradizionale aveva per effetto lattribuzione
agli individui non di diritti ma prevalentemente di obblighi, a
cominciare da quello dellobbedienza alle leggi, cioè
ai comandi del sovrano. I codici morali e giuridici sono stati nei
secoli, dai Dieci comandamenti alle Dodici tavole, insiemi di regole
imperative che stabiliscono per gli individui obblighi, non diritti.
Osserviamo ancora una volta, invece, i primi due articoli. Prima
compare laffermazione che gli individui hanno dei diritti,
poi laffermazione che il governo, proprio in conseguenza di
quei diritti, si obbliga a garantirli. Il rapporto tradizionale
fra diritti dei governanti e obblighi dei sudditi è perfettamente
invertito. Anche le cosiddette carte dei diritti che precedettero
quelle del 1776 in America e del 1789 in Francia, dalla Magna Charta
al Bill of Rights del 1689, i diritti o le libertà non le
riconoscevano come esistenti anteriormente al potere del sovrano,
ma le concedevano, le accordavano, e dovevano apparire, anche se
erano il risultato di un patto fra sudditi e sovrano, come un atto
unilaterale di questultimo. Il che equivaleva a dire che senza
la concessione del sovrano il suddito non avrebbe mai avuto alcun
diritto. Non diversamente accadrà nell800: quando sorgeranno
le monarchie costituzionali si dirà che le Costituzioni sono
state octroyées dai sovrani: che esse fossero la conseguenza
di un conflitto tra re e sudditi, concluso con un patto, non doveva
cancellare limmagine sacralizzata del potere, per cui ciò
che ottengono i cittadini è il risultato di una graziosa
concessione del principe. Le dichiarazioni dei diritti erano destinate
a rovesciare questa immagine. E lavrebbero a poco a poco rovesciata.
Mi è accaduto spesso di dire che sarebbe più corretto
parlare, quando ci riferiamo a una democrazia, di sovranità
dei cittadini che di sovranità popolare. Popolo
è un concetto ambiguo, di cui si sono servite anche tutte
le dittature moderne. E unastrazione talora ingannevole:
quanta parte degli individui che vivono su un territorio il termine
popolo comprenda non è chiaro. Le decisioni collettive
non le prende il popolo, ma gli individui, tanti o pochi, che lo
compongono, nel momento in cui gettano la scheda nellurna.
Potrà sembrare ostico a chi non può pensare la società
se non come un organismo, ma, piaccia o non piaccia, la società
democratica non è un corpo organico, ma una somma di individui.
Se non fosse così, non avrebbe alcuna giustificazione il
principio di maggioranza, che pure è la regola fondamentale
di decisione democratica. E la maggioranza è il risultato
di una semplice somma aritmetica, dove ciò che si somma sono
i voti dei singoli, uno per uno. Concezione individualistica e concezione
organica della società sono irrimediabilmente in contrasto.
Assurdo domandarsi quale sia più vera in senso assoluto.
Non assurdo, ma assolutamente ragionevole, affermare che lunica
vera per capire e far capire che cosa sia la democrazia è
la seconda, non la prima. Occorre diffidare di chi sostiene una
concezione anti-individualistica della società. Attraverso
lanti-individualismo sono passate più o meno tutte
le dottrine reazionarie. Burke diceva: «Gli individui scompaiono
come ombre; solo la comunità è fissa e stabile».
De Maistre diceva: «Sottomettere il governo alla discussione
individuale significa distruggerlo». Lamennais diceva: «Lindividualismo,
distruggendo lidea di obbedienza e di dovere, distrugge il
potere e la legge». Non sarebbe molto difficile trovare analoghe
citazioni da parte della sinistra antidemocratica.
La concezione individualistica della società ha fatto molta
strada. I diritti delluomo oggi sono stati riconosciuti e
solennemente proclamati nellambito della comunità internazionale,
con una conseguenza che ha letteralmente sconvolto la dottrina e
la prassi del diritto internazionale: ogni individuo è stato
elevato a soggetto potenziale della comunità planetaria,
i cui soggetti erano stati sinora considerati gli Stati sovrani.
In tal modo il diritto delle genti è stato trasformato in
diritto delle genti e degli individui, e accanto al diritto internazionale
come diritto pubblico esterno, lo ius publicum europaeum, sta crescendo
un nuovo diritto che potremmo chiamare, prendendo in prestito la
parola di Kant, cosmopolitico, anche se Kant lo limitava
al diritto di ogni uomo ad essere trattato da amico, e non da nemico,
ovunque egli si recasse, al diritto, così egli diceva, di
ospitalità. Ma pur entro questi limiti Kant vedeva
nel diritto cosmopolitico non «una rappresentazione fantastica
di menti esaltate», ma una delle condizioni necessarie per
il perseguimento della pace perpetua in unepoca della storia
in cui «la violazione del diritto avvenuta in un punto della
terra è avvertita in tutti i punti».
Noi, giunti alla fine del secolo che ha conosciuto due guerre mondiali
e la minaccia di una guerra sterminatrice, possiamo anche sorridere
dellottimismo di un filosofo vissuto in unetà
in cui la fiducia nella inarrestabilità del progresso era
quasi universale.
Ma potremmo sostenere sul serio che lidea della Costituzione
fondata sul diritto naturale sia stata dimenticata? Non è
oggi il tema dei diritti delluomo, che era stato imposto allattenzione
dei sovrani dalla Dichiarazione dell89, più attuale
che mai? Non è uno dei grandi temi verso cui, insieme con
quelli della pace e della giustizia internazionale, sono trascinati
irresistibilmente, volenti o nolenti, popoli e governi? Riconosco
che affermazioni di questo genere si possono fare solo nellambito
della storia profetica di cui parlava Kant, e quindi di una storia
le cui anticipazioni non hanno la certezza delle previsioni scientifiche
(ma poi sono possibili previsioni scientifiche nella storia umana?).
Riconosco anche che sfortunatamente è accaduto per lo più
che i profeti di sventura non sono stati creduti, e gli avvenimenti
da loro annunziati si sono verificati, mentre i profeti di tempi
felici sono stati subito creduti e gli eventi da loro annunziati
non si sono avverati.
Perché non potrebbe accadere una buona volta che il profeta
di sventura abbia torto e quello che prevede tempi felici abbia
ragione?
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