All'indomani della
unificazione del Mezzogiorno d'Italia al Regno sabaudo, si evidenziarono,
con immediatezza, i molti problemi che richiedevano interventi urgenti.
Ma uno su tutti mostrò drammatica e particolare rilevanza poiché
metteva a rischio l'esistenza stessa del nuovo Stato: all'epoca fu
chiamato "brigantaggio meridionale", in tempi recenti "la
guerra dei contadini del Sud".
Il brigantaggio non era un'esclusiva del Meridione, ma il precedente
tentativo del Cardinale Ruffo e la partecipazione dei briganti alla
controrivoluzione rappresentarono un facile e comodo motivo per fare
assumere quella denominazione, così da nascondere e rimuovere
altre e più profonde ragioni economiche, sociali e politiche
delle quali i reggitori del nuovo Stato erano consapevoli ma impreparati
e incapaci di affrontare.
In estrema sintesi le citate ragioni possono identificarsi nei tentativi
e negli atti tesi a ripristinare il regno borbonico; nella disillusione
popolare, e non solo, seguita all'atteso, promesso e non realizzato
riequilibrio economico e sociale; nella discrezionalità, faziosa
e prepotente, della nuova burocrazia borghese, che impropriamente
si autodefiniva liberale; nella dismissione di circa 100.000 soldati,
di entrambe le parti, molti dei quali, usciti dalle carceri per unirsi
ai garibaldini, avevano sperato che il governo di Re Vittorio Emanuele
li avrebbe condonati per reinserirli nella vita sociale; e in altre
ancora.
La lettura in chiave marxista ha identificato, poi, la ribellione
come lotta di classe per il rilievo della partecipazione dei contadini
che, al contrario, avevano scarsamente preso parte e contribuito alle
guerre risorgimentali. Sospinti dalla natura esistenziale dei propri
bisogni, non potendo accettare che anche il nuovo Stato liberale non
intendesse modificare lo stato delle cose nei loro confronti, aderirono,
pur con tutte le contraddizioni dovute all'incultura e alla miseria,
alla ribellione alimentata dalla politica di reazione dei Borboni.
Queste condizioni formarono il terreno fertile nel quale poterono
crearsi, crescere e prosperare uomini ribelli per natura, crudeli
per necessità e ardimentosi per abitudine, che si aggregavano
in bande al comando dei personaggi più decisi e più
capaci.
Tradizionalmente la loro azione, che non temeva di usare la violenza
sino all'estremo limite, era rivolta contro i ricchi possidenti e
qualche volta in difesa dei contadini più angariati.
Una tale situazione avrebbe richiesto una strategia politica di livello
maturo e superiore che ancora non poteva essere nel bagaglio culturale
delle troppo recenti strutture statali e politiche; ciò non
deve meravigliare se anche oggi, dopo quasi un secolo e mezzo, tale
livello non è stato raggiunto.
L'analisi del fenomeno ha impegnato sin da allora pensatori, intellettuali
e politici e rimane tuttora aperto a interpretazioni diverse e contraddittorie
che si estendono dal richiamo alla ribellione della Vandea all'analogia
con le guerre contro gli indiani d'America.
Queste ultime, in particolare, hanno esercitato ed esercitano un fascino
speciale e suggestivo, dovuto, anche, alla rappresentazione fotografica
di avvenimenti che erano contemporanei a quelli che interessavano
il Sud d'Italia, pur se profondamente diversi nelle cause e negli
sviluppi. Tant'è che le guerre americane sono diventate l'epopea
della nascita di una nazione, mentre le lotte del Meridione hanno
contribuito a creare un solco profondo ancora non colmato. Quanto
accomuna i due avvenimenti è rappresentato dalla crudeltà
dei comportamenti dei protagonisti documentata dalle immagini che
il nuovo mezzo, la fotografia, rendeva possibili.
La specificità delle situazioni del "brigantaggio meridionale"
non può adattarsi ad altre condizioni che possano rappresentare,
solo a rischio di forzature ideologiche e politiche, un termine di
paragone. Gli eventi sono troppo complessi per permettere la lettura
e la comprensione di avvenimenti sfuggenti e non semplici, se non
attraverso la ricerca e la rilevazione di elementi rintracciabili
nei documenti, di qualunque natura; trarre "indizi", che
possono essere considerati quali tasselli di una sorta di mosaico,
consente di formare un quadro cui attribuire il carattere di generalità
secondo un'analisi che almeno garantisca un certo grado di oggettività.
Questo insieme di elementi rappresenta la l'accumulazione di indizi".
Nella riflessione riguardante l'immagine fotografica si è avuto
modo di rilevare, tra gli altri, il significato documentale che ad
essa può essere attribuito quando, nel suo essere traccia della
realtà, illustra aspetti che si connettono al processo storico.
Rimangono, comunque, valide tutte le osservazioni, già sviluppate,
nei confronti del mezzo fotografico e del suo prodotto, la fotografia.
Quelle osservazioni appaiono ancora più rilevanti e influenti
se le immagini, nella loro valenza di documento, divengono elementi
significativi e illustrativi di fatti, eventi e personaggi che hanno
determinato, e determinano, la nostra vita attuale.
E', però, importante in primo luogo la verifica della veridicità,
di luogo e di tempo, delle immagini così da consentire l'identificazione
del mostrato e del suo accadimento; in secondo luogo, devono essere
ricercate e accertate le premesse e le condizioni di acquisizione
delle stesse; infine devono essere riconosciute le motivazioni e le
eventuali ragioni che le hanno rese necessarie o opportune, o possibili
e, in particolare, come e perché finalizzate.
Le accennate condizioni, a integrazione di quelle già identificate
ed esposte, si rendono necessarie al fine di assumere le immagini
fotografiche quali documenti da utilizzare nell'analisi storica di
quest'ultimo secolo e mezzo.
La fotografia, da parte sua, è il congelamento dell'attimo
fuggente; le immagini, riprese nel tempo e nei luoghi, formano l'accumulazione
di attimi che, se consecutivi, danno luogo alle sequenze di immagini.
L'accumulazione
di attimi, quando disponibili, può essere messa in corrispondenza
all'accumulazione di indizi, permettendo e giustificando l'analisi
storica attraverso le fotografie premettendo, però, una prudente
riserva da conservare nei riguardi dell'autenticità e veridicità
di esse; tale analisi permette di scoprire elementi, espliciti o meno,
atti a formare visioni, considerazioni e giudizi nel rapporto tra
gli eventi e gli autori, tra questi e le eventuali finalità
recondite o palesi.
Negli autori di
storia contemporanea, e in particolare in quelli che hanno affrontato
il tema del "brigantaggio meridionale", il metodo richiamato
è stato applicato parzialmente, seppure diffusamente, raccogliendo
e riportando testimonianze dirette dei protagonisti, noti e meno noti,
sia di una parte che dell'altra, con le fotografie che accompagnano
i testi, in genere, nella funzione semplicemente illustrativa, quasi
a loro conferma supplementare.
Nel presente caso, le opere di differenti anonimi autori, incaricati
dai comandi militari sabaudi di documentare la cattura dei "briganti",
pur nella non eccellente qualità, soprattutto di riproduzione,
riescono a dire, nella loro grezza drammatica semplicità, molto,
e in molti casi di più, di quanto narrato e riportato.
Confidando nella giusta attribuzione dei personaggi e dei luoghi,
si può tentare di verificare la corrispondenza tra i documenti
testuali e fotografici, ovvero l'eventuale differenza, con lo scopo
di riconsiderare, dall'analisi delle immagini, giudizi e riflessioni.
Le fasi, che la tecnologia fotografica dell'epoca rendeva quasi impossibili,
venivano rappresentate con disegni e i personaggi, tipici e idealizzati,
in costumi variopinti in modo da fornire al lettore un'immagine utile
alle tesi che si volevano fossero avvalorate.
Essi, nel caso presente, sono la premessa indispensabile per il confronto
con le immagini fotografiche come primo anello della catena della
"narrazione" che fornirà interpretazioni degli avvenimenti
e dei personaggi che si incontreranno.
Così, la tavola n. 1, a colori, è un disegno che rappresenta
due briganti nel loro pittoreschi vestiti, con il capo coperto dal
noti cappelli a cono impreziositi da nastri multicolori, armati di
primitivi fucili ad avancarica, indossanti pantaloni stretti appena
sotto il ginocchio, con calzari di pelle tenuti da lacci avvolti lungo
il polpaccio intorno a fasce che proteggono questo e il piede. Completa
il disegno la figura di una donna, che persino nel disegno sembra
"silenziosa", agghindata con il semplice e bellissimo vestito
tradizionale, comune a tutte le donne del Meridione pur nelle numerose
varianti locali.
Questa immagine, che non è quindi una fotografia, assume proprio
per questa ragione una valenza di confronto altamente significativa,
e pone sinteticamente ed emblematicamente in risalto la visione tradizionale
e popolare del brigante e della sua donna.
In contrasto, la tavola n. 2, cioè la prima fotografia, mostra
la figura imponente del capobrigante Carmine Crocco Donatelli, (uno
dei pochi sfuggiti alla fucilazione, restando in carcere per circa
40 anni fino alla morte), dallo sguardo magnetico e penetrante, il
cui viso è incorniciato da una gran barba fluente che poggia
sulla giacca e il gilet. L'intensità del volto dona al brigante
una elevata statura, mista di autorità e di decisione, di "uomo"
cui si può attribuire, sotto alcune pregiudiziali notazioni,
anche aspetti di fredda crudeltà; certamente, comunque, non
ispira alcuna idea di personaggio folcloristico.
Le sintetiche osservazioni che si offrono dall'esame del suo ritratto
fotografico corrispondono a quanto contenuto nei documenti che lo
riguardano: l'interrogatorio nel processo intentato contro di lui
e conclusosi nel 1872 con la condanna a morte, condonata, due anni
più tardi, nella pena ai lavori forzati a vita; la sua autobiografia
raccolta e trascritta dal capitano Massa, che curò anche alcune
proprie descrizioni e relazioni; le note su di lui dello spagnolo
Borjés, inviato dal Borboni per coordinare e dirigere la controrivoluzione;
l'intervista che Ribolla e Ottolenghi gli dedicarono poco prima della
sua morte avvenuta nel 1905 nel penitenziario di Portoferraio; infine
le conclusioni di una visita avvenuta nel 1901 da parte dello psichiatra
dell'Università di Napoli, professor Pasquale Penta, che così
lo descrive: "Alto nella persona, robusto, svelto, con occhio
indagatore, sospetto, attento [ ... ], la persona è ancora
dritta e resistente, dopo una vita agitata, piena di sofferenze, di
stenti, di timori e di pericoli di ogni sorta. E' una intelligenza
non ricca al certo né libera di superstizioni (anch'egli porta
il rosario al collo, abitini ed amuleti), ma chiara, ordinata e sicura".
Di tutt'altro genere è la rappresentazione, nella fotografia
n. 3, del capobrigante Luigi Alonzi detto Chiavone, inquadrato a busto
intero, dal corpo magro e smilzo, con occhi cerulei e barbetta e baffi,
in divisa militare con fascia alla vita da cui spunta, e non a caso,
il calcio e il grilletto di una pistola ad avancarica: tutti gli elementi
lo fanno apparire di buona famiglia, distinto e intelligente, se non
fosse quell'arma a sottolineare il suo ruolo.
Già queste prime due immagini, nel loro apparente realismo,
contengono elementi simbolici ed emblematici che le fanno grandemente
diverse dalla rappresentazione folcloristica del disegno, consentendo
di rilevare, da alcuni "attimi", "indizi" che
concorrono a rettificare opinioni e giudizi consolidati.
Più di maniera, anche se con la pretesa e la presunzione di
presentarsi come un'istantanea, è la fotografia n. 4 del capobrigante
Sacchitiello che, insieme ai suoi luogotenenti armati, è ripreso
nell'atto di caricare il suo fucile, attento e concentrato nell'azione,
con espressione del viso fieramente dignitosa; tutti e tre i personaggi
sono ben vestiti e formano una composizione triangolare la cui base,
che mette in evidenza la figura del capobrigante, è segnata
dalla canna di fucile del personaggio di destra.
L'immagine dei vinti, messa in scena dai vincitori, appare nella fotografia
n. 5 che ritrae il capobanda Schiavone, il quale, rivestito di un
mantello avvolto sul corpo a modo di saio penitenziale, mostra il
suo stato di prigioniero per via della lunga, grossa e vistosa catena
che gli cinge il polso, che sbuca, con la mano, da quella specie di
sacco che lo copre. I volti dei personaggi subalterni esprimono un
misto di incredulità, diffidenza e timore, mentre il viso di
Schiavone emerge dal saio-coperta fiero e truce, non domato.
Queste prime fotografie dei capibanda e dei loro luogotenenti, i più
vicini e i più fidati, ci restituiscono atteggiamenti e sguardi
consapevoli, determinati e fieri con i quali si confrontano i vincitori,
mostrando qualcosa d'altro che la ferocia e la crudeltà animalesca
ad essi attribuite da alcune narrazioni. Le immagini restituiscono
la dimensione umana dei protagonisti di vicende drammatiche e tragiche
che ci inducono alla riflessione per meglio capire.
Così gli stessi intensi ed espressivi sguardi si ritrovano
nelle fotografie nn. 6a, 6b, 6c, 6d, 6e, nelle quali le "brigantesse"
sono state riprese nei costumi tradizionali e tipici del luogo di
origine, ma con armi in pugno per rendere ben visibile e rimarcare
il loro ruolo e la loro condizione. I vincitori-autori di queste immagini
è da ipotizzare che volessero nello stesso tempo sottolineare
la tipicità della loro femminilità e la singolarità
della condizione di amazzoni guerriere.
E' un dato storico di novità la partecipazione della donna,
in particolare del Meridione, ad azioni armate, che contrasta con
il personaggio femminile in genere pensato come secondario e sottomesso.
Ma nella fotografia n. 7 di Michelina De Cesare, il folklore e la
teatralità mistificatoria lasciano il posto al realismo e alla
crudeltà dell'immagine: il nudo della donna uccisa accusa,
più di qualunque requisitoria, l'esibizione lampante del trionfo
del cacciatore sulla preda.
Lo stesso crudele atteggiamento di chi ha .,curato la messa in scena",
di chi vi ha partecipato e di chi l'ha ripresa, si ritrova nell'immagine
n. 8 del brigante Curcio, ormai ucciso, il cui cadavere è messo
in posa tra il sacerdote a sinistra, che sorregge una candela e un
crocefisso, e il soldato con il fucile, baionetta innestata, sulla
spalla in posizione di riposo. Con grande probabilità, la figura
del prete, abbastanza rara nelle fotografie conosciute, fu, in questa,
introdotta per voler mostrare che i sacerdoti erano dalla parte dei
sabaudi, per controbattere le voci che invece li ponevano dalla parte
opposta.
Un aspetto non secondario del "brigantaggio meridionale",
seppure di facciata, era quello della guerra di religione che, come
detto, ha stimolato il paragone con la Vandea. Invero ogni comunicato
dei Borboni e dei loro sostenitori' iniziava e finiva con un'invocazione
religiosa, i briganti si mettevano sul panni oggetti di ispirazione
sacra, i preti dal pulpiti e sulle piazze non facevano mistero della
loro avversione nei confronti del governo degli "atei liberali"
sia per riguardo al Papa di Roma, che ancora resisteva ai piemontesi,
sia per sostenere e difendere i propri privilegi.
Ancora più raccapricciante è la fotografia n. 9 del
capobrigante Nicola Napolitano, la cui testa è tenuta alzata
dal brigadiere che lo ha ucciso, presa dai capelli, quasi fosse un
animale, per mostrare la devastazione della bocca operata dal colpo
inferto.
Nella stessa macabra posa vengono sistemati i personaggi delle successive
foto n. 10 e n. 11, mentre, cosa abbastanza singolare, nella foto
n. 12 lo stesso brigante, Ninco Nanco, della n. 10 è ripreso
appena caduto, in posizione che si potrebbe definire classica per
il taglio della composizione, per le ombre che si ritagliano su tutta
l'immagine, prototipo di successive rappresentazioni cinematografiche.
Nella ricostruzione storica, realizzata con il mezzo cinematografico,
verrà ripreso il ritmo della narrazione così profondamente
diversa da quella fotografica che, come ci dimostra la presente analisi,
è rivolta a documentare.
Le immagini n. 13 e n. 14 ci fanno scoprire i cosiddetti "briganti
galantuomini", cioè borghesi che tentarono di reagire,
nell'unico modo al momento possibile, al nuovo corso degli eventi
nella sostanza non controllati dal potere centrale e pertanto determinato
dai soldati e dalle "amministrazioni locali" gestite da
una nuova borghesia emersa e arricchitasi con l'assegnazione dei terreni
demaniali.
La fotografia n. 15 documenta insieme vincitori e vinti, poco prima
del momento della fucilazione; i primi in numero di 8 sono in piedi,
con fucili con baionetta innestata, seri e compunti; i secondi seduti,
tenuti per le spalle da mani di cui non si ravvisano i padroni, con
l'eccezione del quarto, trattenuto per il bavero, che ha sul viso
un sorriso che sembra una smorfia ironica.
La n. 16 è l'ultima fotografia che viene qui riprodotta: essa
presenta, su di una terrazza, il generale Cialdini con il suo Stato
Maggiore composto per lo più da giovani ufficiali con i visi
decorati di baffi, barbe e pizzetti, eleganti nelle loro divise, in
atteggiamenti posati ma che vorrebbero apparire spontanei. Il gruppo
ricorda una riunione nel circolo ufficiali e nasconde la drammaticità
del loro compito e la crudeltà dell'azione da essi esercitate,
tranne che per il generale che, il solo seduto in sedia, è
in atteggiamento severo e serio, preoccupato, forse, più della
posa fotografica che del suo tremendo ruolo.
Le fotografie qui riprodotte sono un limitato esempio scelto nel materiale
conosciuto e disponibile. Ai nostri occhi assuefatti a una valanga
di immagini e di informazioni, esse possono apparire quasi scontate
e anche poco suggestive; ma all'epoca vennero riguardate con tutt'altra
emozione e il loro impatto risultò rilevante e influente con
ricadute "politiche" e assunzione di significati anche imprevedibili.
Quanto veniva riferito e raccontato doveva trovare nelle immagini
diffuse e pubblicate una verifica e doveva convincere il lettore con
l'evidenza del mostrato, in un linguaggio che era da chiunque comprensibile
in una società la cui maggioranza era ancora analfabeta, in
un Paese i cui cittadini, a causa dell'isolamento storico e geografico,
ignoravano luoghi e fatti delle varie e acquisite regioni. La finalità
raggiunta da quelle rappresentazioni è dimostrata dall'influenza
esercitata sull'immaginario collettivo che, nonostante le voci dissidenti
e critiche, ha tramandato sino ai nostri tempi pregiudizi e distorsioni
storiche.
Per concludere, si può citare una frase pronunciata da Bixio
alla Camera dei Deputati nella seduta del 18 aprile 1863, in occasione
della discussione sul bilancio del ministero di Grazia e Giustizia:
"Nel Mezzogiorno tutti quelli che hanno un cappotto vogliono
trucidare tutti quelli che non lo hanno".
Disse Ugo Valcarenghi nel 1910: " ... lo scopo della fotografia
è di rammentare la verità in quanto questa valga la
pena di essere ricordata" e, in altra occasione, affermò
che "la verità fotografica reca necessariamente in se
stessa un elemento prezioso, sostanziale, indiscutibile e indistruttibile,
che appartiene alla scienza ed è anche la base, il principio
della creazione geniale, cioè il documento".