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- Un "provinciale insofferente"
"Parla del tuo paese e sii universale" è un aforisma
applicabile, senza enfatizzarlo, al nostro Antonio Verri (1949-1993),
il "provinciale" di Caprarica di Lecce.
La "salentinità", oggi un po' troppo proclamata, non
gli fa da remora, per i suoi slanci extra fines; essa non è per
lui che un privilegiato "punto di vista" (1). Ora che è
possibile abbracciare d'un colpo la sua non esigua produzione letteraria,
ce ne rendiamo sempre meglio conto. Anzitutto nei supporti ideologici,
innervati in complesse esperienze di vita e di cultura. Della sua partecipazione
alla sessione 1986 degli "Incontri Poetici Internazionali",
svoltasi nel settembre a Yverdon, in Svizzera, per citare l'evento più
significativo del suo contatto con esperienze d'oltralpe, ha redatto
egli stesso un vivace resoconto in dieci lettere, di alcune delle quali
noi qui ci avvarremo per individuare i postulati della sua poetica (2).
Altro tramite di scavalcamento fra tradizione e sperimentalismo è
la presenza di autori di varia nazionalità nei fascicoli della
sua rivista Pensionante de' Saraceni, nell'ultimo dei quali (gennaio
1987) compaiono argentini e brasiliani, inglesi e svizzeri, islandesi
e scandinavi, oltre agli italiani (3). Vi si affollano come in un pùllman,
diretto verso una "internazionale della poesia". Né
va taciuto, al riguardo, un decisivo dato esistenziale: l'esperienza
giovanile in una "Germania kafkiana", a Sciaffusa, "a
due passi dal Reno"; e qui, da uno spagnolo, compagno di lavoro,
ode parlare per la prima volta di Lope de Vega, e legge Hofmannsthal,
e dalle conversazioni con alcuni conterranei scopre Antonio De
Ferrariis: nozioni e suggestioni che si sedimentano e già fermentano
in una "voglia della letteratura" (4).
2 - Il primo
tempo
Gli esordi teorici di Antonio Verri sono impetuosi: "Il poeta
- scrive - ha una sua funzione sociale: mettersi o mettere continuamente
in discussione dogmi, tabù, cretinerie quotidiane e grossi
problemi [ ... ]. Il poeta non lavora più, o magari solamente,
sul nulla o sull'assenza, temi sempre affascinanti ma un po' vecchiotti;
il poeta ha sempre di più responsabilità e problemi
di linguaggio, di stile, di aderenza a una realtà abbastanza
complessa, di tensione, di rivolta" (5).
Sembrerebbe così allinearsi, Antonio Verri, sul versante di
un rinverdito neorealismo, o di un aggiornato "neoimpegno",
secondo etichette rispolverate tra gli anni Settanta e Ottanta, per
cui "non esiste l'arte per l'arte, un'arte al di sopra delle
classi e indipendente dalla politica" (6). Di fatto, cioè
nell'esercizio concreto della sua incipiente attività di scrittore,
Antonio Verri appare prevalentemente interessato agli aspetti formali
della istituzione letteraria, senza con ciò cedere alle lusinghe
dell'agnosticismo. Perché è l'enigmatica magmaticità
del tempo nostro a premere nella immaginazione di Verri, per il quale
occorre, sì, andare oltre la Conversazione di Vittorini e la
Cognizione di Gadda, ma à côté, pur se velleitariamente,
della sinistra letteraria americana degli anni Sessanta, della Beat
Generation, di Kerouac, di Ginsberg; un'America assunta a pretesto,
per motivare il proprio bisogno di refus (7).
In una lettera da Yverdon (13 settembre 1986), cogliendo spunto dal
tema del simposio "Parodia e originalità nella creazione
poetica", Verri riformula il suo credo estetico. La parodia è
considerata, anzitutto, come salvataggio della letteratura dalla morsa
della retorica, della tautologia; parodia che si accampi, operativamente,
nel genere narrativo: Al romanzo è luogo di infrazioni incredibili,
è il luogo del fatto, della ricerca e del presunto. Il nostro
termine parodia altro non è che quel che facciamo agire per
arrivare al testo, e poi è il testo stesso; parodia, in altri
termini, è qualcosa di estremamente razionale, è continua
riscrittura, continuo mettere in gioco parole e situazioni" (8).
Una "narratività" che entra ed esce, ammicca e irride,
discreta nelle pagine de Il pane sotto la neve, molecolare ne Il fabbricante
d'armonia, martellante in La Betissa, manieristicamente criptica ne
I trofei della città di Guisnes, intermittentemente assorbita
ne Il naviglio innocente e infine riemersa, pacata e distesa, nei
passaggi più felici, in Bucherer l'orologiaio; sempre inglobante,
comunque, la compresenza di diversi registri segnici, l'incontro -
scontro di tecniche e codici disparati. E' il pedaggio sui percorsi
dello sperimentalismo, dissimulato appena dalla profluvie barocca
tipicamente salentina. Il traguardo della "narratività"
non è, per il nostro scrittore, il roman idée bensì
il roman image (9), perché è sua convinzione "che
lo spazio, il margine che la letteratura oggi deve ricavarsi ha confini
solo verbali" (10); e profeti o maestri in tal senso sono Joyce
del Finnegans Wake e Raimond Queneau della Piccola cosmogonia portatile;
è frutto, insomma, di quel "demone radicale che vive di
suoni, di provocazioni, di follie, di derisione, di giochi verbali
impensabili, di esplosioni, di frantumazioni, di metafore, di analogie,
di rigonfiamenti, di arrotondamenti, morbidezze e ogni cosa che al
testo dà vita" (11). Le metafore, poi, non come semplici
ornamenti del linguaggio, ma piuttosto come "vere e proprie creazioni
di senso", che dunque potenziano e dilatano lo spessore della
"originalità" (12). Antonio Verri, in definitiva,
si riconosce in ciò che i partecipanti all'"incontro internazionale"
di Yverdon hanno, a suo giudizio, in comune: "un piacere di narrato,
un far scorrere, senza troppi esclamativi, la penna sulla pagina,
l'immediatezza a volte, a volte quel miracolo di sintesi (Montale
ne era maestro), quel riuscire a chiudere in poche righe un racconto,
una storia, magari situazioni epocali" (13).
Se ne può allora concludere che il rapporto tra Verri e il
suo linguaggio sembra essere di tipo heideggeriano: non è Verri
a dominare il linguaggio, ma questo a dominare lui; che, peraltro,
è un rapporto non infrequente nella poesia contemporanea, non
soltanto italiana, e che attinge la sua giustificazione nella situazione
storica d'angoscia, che segna la nostra epoca. La tendenza ad abbandonarsi
ad una "scrittura informale", ad un significante automatizzato
rispetto al significato, è abbastanza diffusa, com'è
noto, nelle esperienze scrittorie più recenti. Non si tratta
tanto di espedienti sperimentalistici, che vogliano irrompere nella
normalità comunicativa per lacerarla espressionisticamente,
quanto, più spesso, di una istituzionale rivendicazione della
sovrana autonomia della parola, di un rincrudito dérèglement
des sens, nel solco di una libera fluttuazione psicologica e, al tempo
stesso, di una idolatria della "parola innamorata" (14).
Non senza, certo, le pulsioni dell'inconscio, che tradiscono la non
facile ricerca dell'identità nell'universo onnivoro della manipolazione
linguistico-mediatica. Così, nelle prose lirico-narrative,
"O Mar, la zacchinetta" e "L'assedio assurdo"
15, il pastiche dialettal-letterario, plurisentimentale, che frantuma
e quasi polverizza i frammenti del "racconto" nel vorticare
di morfemi e di lessemi, di sintagmi e di tropi, di volta in volta
popolarescamente o dottamente allusivi, mentre rivela forti suggestioni
joyciane o beckettiane o gaddiane, nel contempo si impone - secondo
l'acuto rilievo di un critico canadese - "come une blessure,
una cicatrice inaffaçable"", che procede di pari
passo con la "soif de l'identité originale" (16).
3 - il cuore
antico
Intanto è opportuno muovere dal tipo di rapporto che Verri
instaura con la tradizione letteraria salentina più recente:
di Corni, Bodini, Pagano, Vittore Fiore.
Scriveva nel 1979: "Davanti non abbiamo altro che la nostra terra
vergine su cui Bodini intendeva operare, ed è nostro grande
padre, se vogliamo cercarci dei padri" (17). La "cospirazione
provinciale", di cui parlava Bodini, riaffiora nel primo Verri:
la provincia come ragione di rivolta, ma anche come risorsa ideale.
Del poeta de La luna dei Borboni ritorna il gusto dell'assalto e della
dissacrazione, il cenno di uno sberleffo clownesco, l'anticonformismo;
così come dell'altro salentino fuggiasco, Carmelo Bene, ricompare
qualche fremito di "disobbedienza civile" (18).
Ma poi in Verri resiste sino al rimpianto la "cultura dei tao",
com'egli ha ribattezzato, in una suggestiva plaquette, la cultura
contadina, della quale, anche quando viene travolta dalla antropologia
tardo -capitalistica, rimarrà sempre "l'idea del dialogo
con la terra che l'uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso
respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina,
mirando nella vastità dei campi, con accanto, sentinelle silenziose,
gli alberi d'argento" (19). Cultura dei tao che è invece
del tutto assente nel mondo poetico bodiniano, o, al più, episodicamente
recepita con l'animo raffinato del fruitore d'eccezione.
C'è infine la divaricazione generazionale, storica tout court:
il dopoguerra di Bodini, Fiore, Pagano, con la loro ingenua persuasione
"che la poesia, l'arte poteva risolvere tutto, un po' tutto saldare"
(20), da un lato; dall'altro, la presa di coscienza di una incolmata
alterità meridionale, il rifiuto di ogni consolazione metafisica:
"niente discesa alle madri, niente incanti, niente condizione
dell'anima o categoria dello spirito" (21).
Da una pur sommaria analisi del corpus creativo di Antonio Verri -
da Il pane sotto la neve a Il fabbricante d'armonia, a La Betissa,
a I trofei della città di Guisnes, a Il naviglio innocente
e al postumo Bucherer l'orologiaio - è possibile rilevare le
ragioni letterarie di fondo della sua fibrillante immaginazione, dell'arduo
scavo dentro e fuori di sé (22). E si va dalla memoria storico-topografica,
che si condensa nei miti delle vicende otrantine e nella figura del
Galateo con il suo ideale di armonia greca, alla cultura terragna,
ancestrale, con la fantasiosa leggenda del monaco rissoso che vola
tra gli alberi; alla sommessa e compressa protesta sociale, che ruota
intorno alle figure della madre, del padre e del figlio quindicenne,
"mezzo intontito, parecchio smodato, che cominciava a coltivare
speranze di fuga, alla ricerca di un domani che [ ... ] avvertiva
difficile, a volte con paura, a volte con disperazione" (23);
alla trepida, pudica utopia della funzione salvifica della "scrittura",
del "naviglio innocente"; e infine alla disperata, tracimante
anamnesi, propizia alla naturale illusione del non omnis moriar.
Ne Il pane sotto la neve, senza indulgere a untuosi pietismi, cova
il sogno di un riscatto sociale della gente del Sud, estrosamente
rivendicato nella memoria storica della tragedia otrantina, che però
è ripensata da Verri al di fuori di ogni oleografia agiografica,
cioè restituita alla nudità cronachistica. Gli eventi
del 1480 sono immaginosamente rivissuti in una dimensione interamente
umana e non ne vengono perciò impoveriti, spogli della "aureola
dei martiri"; ne risultano anzi arricchiti di una perennità,
che è quella conferita ad essi eventi dal "mattatoio"
della storia. Per Verri non serve la contrapposizione della presunta
humanitas dei cristiani alla presunta ferinitas degli ottomani, sicché
Idrusa, piuttosto che immolarsi per cieco fanatismo, si innamora di
un turco, acquistando in concretezza psicoantropologica schiettamente
popolare.
Ancor più addentro nel "cuore antico" ci immette
Il fabbricante d'armonia, che è, per Verri, Antonio De Ferrariis:
vissuto tra due epoche, stridentemente contraddittorie fra loro, l'età
medioevale e l'età moderna, il Galateo, nel pensiero e nell'azione,
cerca di risolvere il contrasto all'insegna della "armonia"
tra fede e ragione, tra scienza e humane litterae; e a tale scopo
anche il protomedico e filosofo, come Idrusa, sceglie la misura della
umana quotidianità. Come scrive Mario Agrimi, nella "tagliente
e sottile presentazione magico-poetica" della figura del Galateo,
"l'antico e grecanico umanesimo di Terra d'Otranto trova un punto
di feconda apertura a una storicità problematica e creativa",
che poi allinea il De Ferrariis al Campanella, a Giordano Bruno, al
Della Porta, a Giulio Cesare Vanini (24): tutti, a loro modo, sognatori
e "folli", tutti variamente precursori della modernità,
a caro prezzo. Ma l'armonia, che singolarmente si riesce a realizzare,
è il solo tramite che permette il reinserimento nella l'armonia
cosmica" del filosofo-poeta del De l'infinito universo et mondi:
"Ho bisogno di tornare ad essere - viene rimeditando il De Ferrariis
- un granellino, una cosa che vive, che partecipa, una cosa piccola,
magari marginale, umilissima, ma che esiste, che pulsa, che vibra
nel gran respiro del mondo" (25).
Armonia che il Galateo riscopre, in pienezza di coscienza e di vita,
nella sua terra d'origine; e l'esilio, cui lo ricaccia "la meretrice
che mai da l'ospizio / di Cesare non torse gli occhi putti",
diventa stagione di autoricognizione perfetta, gratificante. Il monologo
conclusivo è tutto un canto dolente al bisogno dell'armonia,
della saggezza socratica: "Poche volte sono preda di dubbi, di
tormenti; il segreto, credo, è nella semplicità di vita
di questa gente azzurra che mi avvicina, che quanto più conosco
più mi appassiona, mi coinvolge [ ... ]. Mi troverete anche
più vecchio, mi troverete forse più stanco [ ... ],
ma quanto più maturo, quanto più sereno! La gente, qui,
per me [ ... ] ha il colore del mare, ha l'andatura di un'onda, il
cuore negli occhi..., è stupenda questa gente... anche nel
dolore, anche quando urla, quando impreca..., questa gente ha l'umore
di questa terra, cresce con essa, ad essa confida i suoi mali, le
sue gioie, i suoi dubbi, le sue ondulate tristezze" (26).
4 - La Betissa
o della disarmonia prestabilita
Il titolo del poemetto traduce il francese bêtise, che significa
stupidità bestiale, e se ne può immediatamente arguire
che essa stupidità è stigma di più evidente risalto
del tempo nostro, o meglio della civiltà di massa e della conseguente
"disarmonia" che, dunque, soffoca ogni anelito alla l'armonia"
galateana. Grazie alla congenita polisernia di ogni testo poetico,
noi non riusciamo a leggere il poemetto di Verri se non nelle sue
strutture profonde, che, nella cupa allegoria, adombrano il presentimento
del declino nel nulla di tante illusioni umane. E', questa, la tormentosa
sensazione che penetra nel tessuto del testo, il cui filo narrativo
- che si snoda in una sequenza di vaste lasse, fortemente dilatate
nei ritmi del gioco ossessivo delle anafore e delle metafore - traccia
una fantasiosa (e a volte volutamente stravagante) cosmogenesi, cui
assistono, testimoni più stupiti che sgomenti, un uomo e una
donna, progenitori di quell'umanità futura che fra poco inonderà
il pianeta, miniaturizzato in una località del Salento, che
è Castro, dove una torre è l'unico segno di una civiltà
indigena, senza memoria.
Quel minuscolo lembo di terra a picco sul mare si popola di commercianti,
di merciai, di venditori di svariate spezie, e il volto delle cose
cambia repentinamente. Si profila una ecumène mercificante
e mercificata. A questo punto, nel poemetto, si innesta il mito di
Icaro, interpretato in una chiave inedita: un giovane dai capelli
rossi, che più di tutti avverte la morsa della pervasiva bétise,
progetta un suo congegno, un suo "trabiccolo", munito di
ali, che lo sospinga lontano, in alto, in un mondo di purezza, di
semplicità, di sogno, finalmente sgombri, l'occhio e i sensi,
dal pattume della "betissa", che è "donna-terra-stupidità-madre-materia".
L'ambizione estetica del nostro scrittore punta a tradurre in un turbinio
di fonosimboli il caos della contemporanea "animalità
barbara"; e ce ne informa una lettera del giovane dai capelli
rossi, indirizzata alla madre (presenza costante nella ispirazione
di Verri): un tempo, le parole, cioè la letteratura - confida
-, la poesia, gli erano d'aiuto, lo servivano, avevano un senso, offrivano
la chiave di decrittazione dei fenomeni; ora non più, o almeno
non nella stessa misura; o il più delle volte - dice ancora
- "le parole che affibbio alle cose non reggono, pare non abbiano,
le parole, appigli di nessun genere, e come niente, come fosse la
cosa più naturale del mondo, mi restano in mano; me le ritrovo
a mucchio, nelle palme congiunte, con mia grande sorpresa; eppure
un tempo, col vigore che avevo, le buttavo in aria, aspettandomi,
a terra toccata, di assistere e di gustare una di quelle meraviglie
che solo il caso sa così bene fornire; se il magico risultato
non veniva, le ributtavo, e così via; un tempo, tutto questo
era possibile, oggi non più" (27). Non più dunque
res et verba convertuntur, secondo la lezione del nostro umanista
scienziato Antonio De Ferrariis? E' succeduto - confessa ancora alla
madre - "uno sfinimento, l'ostinazione a leccare bruciature che
non sono nate certo con me".
5 - Nel labirinto
di una città immaginaria e l'allegoria dei "Trofei"
In effetti, l'uso desaussuriano della "parole", che rompe
con violenza il convenzionalismo della "langue", è
ancora abbastanza funzionale allo sperimentalismo della Betissa, come
lo sarà per l'allegoria de I trofei della città di Guisnes;
un "romanzo", o, meglio, un antiromanzo, nel quale la poetica
dell'hasard si cimenta col blocco dei circuiti frastici, con le insidie
degli svincoli formali. L'atmosfera dell'antiromanzo si percepisce
ad apertura del testo, i cui scaltriti accorgimenti retorici rimbalzano
dal terreno della verosimiglianza a quello sdrucciolevole della improbabilità
e del sortilegio; lo stesso nel quale lo "sbellicato genietto"
dell'autore ama "perdersi, svuotarsi, cedere alla lusinga":
"C'è un castello di cotone, una cattedrale di riso, un
vascello di marinai che amano il mutamento e non altro, delle case
di mercanti che hanno il soffitto giallo canarino, delle rane fulminate
in una palude, altoparlanti qua e là che trasmettono le voci
senza fine degli annegati, piupi e frottole per ogni dove, delle scritte
rosse che inneggiano a dei padri che tutti aspettano, dei tao sospesi
a mezz'aria, intontiti " (28).
Dall'accanimento dell'hasard dovrebbe uscire accresciuta anche l'implicanza
tematico-problematica, il cui nucleo, a primo acchito, sembra invece
lasciarsi individuare in una posizione ideologica di assoluto refus
(alla Alen Robbe-Grillet); secondo la quale le strutture logico-concettuali,
su cui si è sinora sorretta l'impalcatura gnoseologica del
mondo, si sono arrugginite ed hanno ceduto irrimediabilmente; sicché
i "fabbricanti di carta che hanno perduto i loro ottobri"
è tempo che rinuncino in buona pace all'illusione di avere
presa cognitiva sugli avvenimenti, sui problemi dell'esistenza umana.
Insomma, tra la scrittura e la realtà, esterna ed interna a
noi, si è aperto un abisso invalicabile. Fa capolino, per così
dire, l'avventura di un "io", di uno "scrivitore",
che tra mille raggiri e assalti e agguati, sempre ritrovandosi al
punto di partenza come un cavaliere antico, si affanna, con sovrano
distacco, nel tentativo d'imprimere una forma, sia pure cangiante,
all'informe esistenza (e la "forma costa cara", soleva ripetere
Valéry), di supporre un "ordine", anche soltanto
verbale, al caos della "città" degli uomini, di indovinare
un "senso", pur se illusorio, nel garbuglio del sordo e
monotono succedersi delle opere e dei giorni.
Ne I trofei, la città di Guisnes è lo stereotipo dell'ecumène,
col suo gnomo, tra ctonio e picaresco, Zèbel, "il battito
divertito" del cui cuore "si può ascoltare a mezzodì,
appoggiando l'orecchio destro sul più vicino crepaccio",
e la cui "voce possente e il terrore li si può invece
avvertire avvicinando lo stesso orecchio ad un'erba selvaggia"
(29). Ma noi lettori, oltremodo incuriositi, ci domandiamo, montalianamente:
per scoprire, forse, "lo sbaglio di natura, / il punto morto
del mondo, l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente
ci metta / nel mezzo di una verità"? Il tipico procedere
ellittico del nostro scrittore pone a guardia dei suoi Trofei un passo
dei Chants de Maldoror di Lautrémont: "Non avete notato
la fragilità di un grazioso grillo, dai movimenti accorti,
nelle fogne di Parigi? Non c'è che quello: era Maldoror! Magnetizzando
le fiorenti capitali, con un fluido pernicioso, le induce in uno stato
letargico in cui sono incapaci di sorvegliarsi come dovrebbero".
Zèbel, lo sgorbo "diabolico", nella città
squinternata di Guisnes, come Maldoror "nelle fogne di Parigi"?
(30)
6 - Il fascino
del "non finito" e la morte
"Morirò fra tre anni, ripeteva", ricorda Aldo Bello,
che aggiunge: "Noi non stavamo a quel gioco. Ma lui continuava
a dire che sarebbe immancabilmente morto entro tre anni" (31).
Suo vade mecum, allora, per l'ultimo tratto di vita, Il naviglio innocente:
non per disacerbare il trapasso bensì per esorcizzarne, col
Plotino leopardiano, gli effetti laceranti tra i suoi "amici
e compagni". Non è dunque il bateau ivre di Rimbaud, ma
la sua immagine rovesciata; naviglio che vaga innocuo, "preda
delle grandi masse d'acqua / mentre tenta di risalire / immenso /
al grande suo silenzio, al gesto originario"; il naviglio della
sua poesia come scrittura assolutizzante, sostitutiva della realtà
del mondo non integrativa di essa; forte della sua innocenza, e perciò
stesso, all'occorrenza, irriverente, insolente, istituzionalmente
antiletteraria, anticonvenzionale, perché "naviga nel
vuoto, nella dissolvenza dei generi, / senza convenzioni / oggetto
poetico, grande smorfia. / Numerosa e mnemonica. / Immensa forma esclusa".
Una scrittura sottratta all'uso della tribù che batte il trivio
non meno di quella paludata dei cenacoli? Maleficio dannunziano, per
il nostro conterraneo che esce dalla cultura dei "tao",
filtrata persino dalla follia del De Ferrariis?
Il "racconto" che vi si imbarca, le "metafore precarie"
che vi dondolano ad ogni sobbalzo, il sensus abditus, che non di rado
trabocca, serbano il fascino del "non finito", per usare
una categoria estetica rimessa in circolazione dal Ferroni, che a
riguardo riporta un passo di Montaigne: Al arriva sans y aller où
il pretendait, plus grandement et glorieusement que ne portoit son
desir et esperance.
Et devança par sa cheute le pouvoir et le nom où il
aspiroit par sa course" (32). Il naviglio di Verri, che avanza
per otto tappe quanti sono i nuclei del "racconto", si rianima
autoctono nel continuo rimando interno, tra lirismo e sarcasmo, tra
anamnesi e ironia, tra "durata e simultaneità": bergsonianamente:
"parce que nous vivons une vie sociale et même cosmique
autant et plus qu'une vie in dividuelle" (33).
In quel "naviglio innocente" palpita la perfezione, come
aspirazione, dell'essere, individuale, sociale e cosmico, attraverso
l'integrità della scrittura. Ambizione troppo alta, certo,
pur se "non eran da ciò le proprie penne". Come annota
Antonio Errico, "Aveva un sogno, Stefan, e nel sogno una paura:
non riuscire a creare il mondo con un libro. Stefan [che è
Antonio Verri] sapeva che il grande libro è impossibile, che
la grande forma non esiste, che esistono solo abbozzi di forma, solo
frammenti del libro" (34). Il suo messaggio estremo è
affidato a Bucherer l'orologiaio: un congedo dall'arte, dalla scrittura,
che per Verri era più a cuore della vita stessa; l'ultimo saluto,
nel ricordo prolungato ma non accorato delle stagioni che furono;
non senza uno sberleffo stoico al destino: "Un giorno sistemerò
questo corpo immenso lungo la Niederdorf, lontano dai canali, lontano
da tutta questa eccitazione. E mio corpo come la città. Mentre
nei miei visceri vermi spietati. E le nuove cavalle che indicheranno
la via: quello che non possono fare più le mie mani che adesso
mi guardo come fossero futili trofei ... " (35).
NOTE
1) Cfr. M. Marti, Dalla Regione per la Nazione, Napoli, 1987.
2) A. Verri, I poeti sanno dove sono le capre d'inverno, in "Sudpuglia",
a. XII, n. 4, dicembre 1986, pp. 196-208. Leggere il penetrante profilo
di Aldo Bello, Il merlo eretico, in A. Verri, Bucherer l'orologiaio,
Banca Popolare Pugliese, 1995, pp. VII-XX.
3) "Pensionante de' Saraceni". Corriere internazionale,
a cura di Antonio Verri, Maglie, 1987. D'ora in avanti, per i testi
di Verri ometteremo l'indicazione del nome.
4) Libri e progetti, in "Caffè Greco", maggio 1981,
pp. 99 sgg.
5) Ci scopriamo poeti ma leggiamo poco, in "Quotidiano",
26 maggio 1981.
6) Cfr. G. Manacorda, La poesia italiana dopo le neoavanguardie, nel
vol. coll. Poesia oggi, Milano, 1986, p. 274.
7) Quando ci spunta un fiore in bocca, in "Quotidiano",
3 giugno 1981. Sulla problematica qui appena accennata, rimando a
V. Spinazzola, Dopo l'avanguardia, Bologna, 1989 e R. Barilli, La
neoavanguardia italiana, Bologna, 1995.
8) I poeti sanno.... in "Sudpuglia", a. XII, n. 4, dicembre
1986, p. 202.
9) Su tale distinzione, cfr. R.M. Albérès, Metamorphoses
du roman, Paris, 1966: "Nous tenions en 1950 le roman pour l'expression
d'une métaphisique et d'une morale. Nous devons le voir en
1966 comme la formulation d'une manière de sentir et de décrire,
comme une esthétique et une phénoménologie, et
non plus comme une morale et un débat moral" (p. 11).
10) I poeti sanno..., p. 202.
11) Ibidem.
12) P. Ricoeur, La Metafora viva, trad. it., Milano, 1981.
13) I poeti sanno..., p. 203; la sottolineatura è dell'autore.
14) Cfr. G.L. Beccaria, "Grande stile" e poesia del Novecento,
in "Sigma", a. XVI, 2-3, 1983, pp. 7-20; ora in Le forme
della lontananza, Milano, 1989.
15) Il pane sotto la neve, Lecce, 1983, rispettivamente, pp. 26-32
e 68-83.
16) M. Kapetanovich, En quête des origines, in "Perspectives",
a. XXXVII, n. 30/1370, novembre 1984.
17) Editoriale, in "Caffè Greco", aprile 1979, p.
3.
18) A dieci anni dalla morte di Vittorio Bodini, in "Caffè
Greco", ottobre 1984, p. 14, e Questa "Signora" è
proprio nostra, in "Quotidiano", 29 giugno 1980.
19) La cultura contadina, Taviano, 1986, p. 15.
20) Il poeta dei liburni e dei corbezzoli, in "Sudpuglia",
a. XII, n. 4, dicembre 1986, p. 209.
21) Ibidem, sottolineatura dell'autore.
22) Il pane sotto la neve, Lecce, 1983; Il fabbricante d'armonia,
Maglie, 1985; La Betissa, Matino-Lecce, 1987; I trofei della città
di Guisnes, Parabita, 1988; Il naviglio innocente, Maglie, 1990; Bucherer
l'orologiaio, Matino-Lecce, Banca Popolare Pugliese, 1995.
23) Nota introduttiva a Vitangelo Manca, Caprarica di Lecce, 1986.
24) In M. Nocera-A. Verri, Dieci anni in rivista, Banca Popolare Sud
Puglia, 1990, p. 93.
25) Il fabbricante d'armonia, p. 76. Il filosofo-poeta è Giordano
Bruno.
26) Ivi, pp. 89 e 91.
27) La Betissa, p. 231.
28) I trofei... p. 9.
29) Ivi, p. 66.
30) Ivi, p. 173.
31) A. Bello, Il merlo eretico, cit., p. XII.
32) G. Ferroni, Dopo la fine, Torino, 1996, p. 20.
33) H. Bergson, Durée et simultanéité, Paris,
p. 49.
34) A. Errico, Di Stefan, del sogno di un Declaro, in A. Verri, Bucherer
l'orologiaio, p. XXIX.
35) Bucherer..., p. 79.