|
§
NEOAVANGUARDIA IN PUGLIA
|
PROGETTO E MEMORIA NELLA POESIA DI MIGLIETTA |
|
Gino
Pisaṇ
|
Può
sembrare strano che un geometra si inerpichi sui tornanti del Parnaso.
Eppure non è così, ove si consideri che ben altri colleghi
"euclidei" di Miglietta hanno frequentato la letteratura italiana
apportando contributi esemplari sul piano del sentimento poetico contemporaneo.
Penso, ad esempio, a Salvatore Quasimodo, a Nicola Lisi, a Carlo Betocchi,
il poeta dei cantieri, o a Piero Bargellini fondatore del "Frontespizio"
e scrittore fra i più tersi del Novecento. Sinisgalli era ingegnere.
Perfino Comi tentò, ma senza frutto, gli studi tecnici in un
collegio svizzero ad Ouchy, presso Losanna. Medesimo tentativo esperì
Montale in una scuola dei padri Barnabiti.
Enzo Miglietta è un geometra (poi laureato in lettere). Dato biografico sorprendente, per certi aspetti, significativo per altri. Significativo perché spesso la formazione classica inibisce di adire strade sperimentali e alternative. Questo fattore mi sembra il punto di partenza per un approccio alla sua poesia e, ovviamente, alla sua formazione sempre in progress, scandita da un continuo itinerario di ricerca della sua identità di uomo e di artista. Ricerca solitaria, fino all'incontro dei compagni d'avanguardia (Sanguineti, Barilli), quasi che l'esperienza esistenziale si consumi come rapido fuoco nel tripode di una storia collettiva. Il primo tempo dell'attività creativa di Miglietta è legato ai modelli culturali, ai linguaggi interdiscorsivi, ai codici linguistici epocali, agli archetipi mediterranei. Ma il motivo unificante, che congiunge il prima e il dopo nella scrittura di Miglietta, sta forse in un misticismo della parola e del segno che si fonda sulle percezione di un dio (si legga "Mio dio non t'amo" e il "Paradiso perduto") "minimo e tascabile" direbbe Macrí, il dio della terza era, per dirla con Hölderlin, quella che oggi ci sembra giunta al suo momento vesperale, sicché l'attesa, l'assenza, il silenzio della poesia riverberano la nostra coscienza del crepuscolo imminente. In questo orizzonte le due estremità della poesia di Miglietta: la prima o della parola-verbo, la seconda (e per ora ultima) del verbo-segno visivo. Percorso, intendiamoci, non nuovo se si consideri che già al discrimine fra Otto e Novecento, l'imagismo, il vorticismo, il futurismo, la poesia ideogrammatica di Pound e Apollinaire avevano dato ampio saggio di codesto percorso occupando un distintissimo seggio nel bastione delle avanguardie storiche, superando (basti nella pittura il solo esempio di Picasso, colto nella frenetica storia evolutiva della sua arte fra il 1890 e il 1920) la sedentarietà borghese di certe esperienze poetiche tradizionali, eppure al confine col nuovo corso orfico della parola. Gli è che quando la pressura della civiltà capitalistica, reificante e massificante, costringe violentemente alla remissione della identità individuale, più forte e sovversiva è la domanda o la risposta sul senso dell'essere e della sua autenticità. Allora, carattere topico è la spinta anarchica e ribellistica nei confronti della società e dei suoi modelli istituzionali. Anche quando recide, nella più radicale delle simbolizzazioni, i suoi nessi con la realtà, un testo "parla" il linguaggio della cultura cui geneticamente appartiene, cioè "vive" della sintesi dialettica fra messaggi intenzionali e messaggi epocali, fra esperienza individuale e Zeitgeist, fra strutture profonde e livelli di superficie (verbalità-visività). Cogliere la loro reciprocità e interferenza, trivellando la coltre semantico-stilistica, è operazione maieutica o, se si vuole, la funzione del critico che non esprime giudizi di valore estetico (poesia non poesia, ecc.) essendo egli quasi un idraulico il quale inalvea e razionalizza (ma quanto sfrido!) i flussi autonomi della poesia. Se si osservi il Novecento dal punto di vista generazionale, non delle "scuole", ci si accorgerà che, nei momenti di massima concentrazione e apoteosi del capitalismo, le minoranze si sono fatte levatrici della storia civile e letteraria. E a questa tesi di George Sorel va ricondotto l'impulso a contestare il potere per il tramite della rivolta e dell'utopia. E rivolta fu la provocazione di Duchamp o l'analogismo parossistico, dinamico, assoluto delle "parole in libertà, o della "immaginazione senza fili" dei futuristi o il frammentismo dei vociani o la frantumazione della figura e relativa disintegrazione dello spazio inaugurata dalle picassiane Demoiselles d'Avignon. Poi, in Italia, la poesia pura, la restaurazione rondesca, quindi l'assenza, "il golfo d'attesa metafisica", la parola vivente della mistica vita del Simbolo furono le correnti che attraversarono il ventennio fascista fino all'avvento del neorealismo. Questo, in breve, lo spartito storico-letterario che Enzo Miglietta trova già scritto allorché, nella seconda metà degli anni Quaranta, tenta le sue prime prove poetiche, prove, invero, adolescenziali, ma non c'è adolescenza senza poesia, né poesia senza adolescenza. In quegli anni gli veniva data, come egli stesso confessa, "l'educazione al parlare e al fare, non al silenzio e al pensiero". Il suono della sua parola si caricava, allora, di pietas e rivolta. Mi sembrano questi, infatti, i due margini entro i quali fluisce il magma delle prime liriche contenute in Procedimenti e pubblicate solo ora dall'editore Manni (Lecce, 1993) dove Miglietta ha voluto raccogliere questi risultati un po' acerbi o fin troppo testimoniali di un ventennio che si snoda dal 1959 al 1970. A prima vista, questa antologia diacronica sembra proporsi come la preistoria della sua arte destinata a un assoluto acrono e al superamento delle coordinate giovanili per apparire soltanto come il distintivo di un altro Miglietta che l'istmo del 1970 avrebbe reso unicamente, ma in apparenza, il poeta della rivolta e dell'utopia. Eppure il Miglietta della poesia visiva o della nuova scrittura, dei "manoscritti estetici", degli ideogrammi, insomma il Miglietta degli ibridi lessicali, delle ambiguità semantiche che connotano l'idioletto dell'Eroe di paglia, (1970), accampato sotto la tenda della neoavanguardia e della letteratura d'essai (il "laboratorio") è, rispetto al suo primo tempo creativo, altro e medesimo. Non so se di questa unità sostanziale dell'io, pur negata in cute dalla diversità delle tecniche, egli abbia piena consapevolezza. Il titolo del libro ci lascia supporre che egli, forse inconsciamente, abbia voluto processare il suo passato, oltre a semantizzare un'evoluzione poetica. Procedimenti chiama in causa, per associazione d'idee, alcunché di giudiziario, di burocratico, di inquisitorio. Ma, comunque, il semantema non ha in sé altro messaggio che non sia quello che gli deriva da un'etichetta antilirica, antimelica, antinovecentesca. Il titolo è il primo detector semantico dell'intenzione e della insorgenza del canto, sicché ci trasmette microonde tematiche prima ancora che abbia inizio la lettura dell'insieme, determinando, nel critico, una prima ipotesi circa il contenuto del testo oggetto della esplorazione; è il cosiddetto topic. Voglia di processare, dicevo, il suo passato alla luce dei nuovi percorsi e dei nuovi progetti inerenti alla sua scrittura creativa. Ma non è così. Miglietta ha affidato, infatti, al segno iconico della copertina di Procedimenti un messaggio esoterico per il critico e per il lettore. Il disegno (o figura) che sottostà al titolo (una raggera bieromatica verticizzata in un centro infinito) è allusivo della bipolarità di un dinamismo sempre in atto e dialetticamente istruito: Progetto e memoria. Non c'è progetto senza memoria. Ed ecco che codesta sua mnesi si fa significante: non c'è iato, non c'è soluzione di continuità (guai se ci fosse) in questa storia ideale e fisica che egli recupera e traccia. Tutto l'Erlebnis che precede il 1970 è ora diagrammato in questo libro mnestico che possiamo considerare una sorta di guado dentro un viaggio di formazione. Considerando gli anni in cui queste liriche si iscrivono, osserviamo che, limitatamente al primo decennio, sono gli anni dominati, nel Salento, dalle presenze egemoni di Comi, Bodini e Pagano, nomoteti e monarchi della poesia salentina in quella fase storica della sua evoluzione. Se i primi due ci appaiono lontani da Miglietta, sia sul versante tematico sia su quello stilistico, non così Pagano, come cercherò di dimostrare. Vero è che il poeta dei Privilegi del povero quasi certamente non rientrava nelle letture del giovane Miglietta, né rientra nei suoi versi lo stile di Vittorio. Anzi ne è agli antipodi. Però vi è qualcosa di trascendentale, di categoriale che ci consente di accostare all'anima neobarocca di Pagano la rivolta di Miglietta: la tendenza all'iperfetazione di immagini, solitamente concentriche, il vorticoso misticismo del segno, il wagnerismo verbovisivo, l'analogia, il mauditisme esistenziale (che in Procedimenti si metaforizza, come vedremo nel poetagobbo), la bizzarria dell'invenzione contenuta, nell'uno, in simmetrie strofiche di forme metriche chiuse, nell'altro, in armonie geometriche ideogrammatiche. Di fatto, Miglietta, con Procedimenti, ci appare sostanzialmente un isolato nel panorama della cultura salentina di quegli anni, estraneo alla dialettica dei dibattiti e delle riviste epocali: l'Albero, l'Esperienza poetica, il Critone, Il Campo. Procedimenti si iscrive piuttosto (almeno per la sezione che non valica il '68) in una zona antinovecentesca e vi rimane fino a quando la parola poetica istituzionale non gli sembrerà inerte rispetto all'esigenza di velocità iconico-semantica che gli cova dentro ed esplode alle soglie degli anni Settanta, preludio i versi di Bassin bassè bassot (pag. 183) dove il ludico esercizio linguistico si copula con un ritorno a forme di matrice futurista e brilla la carica di tritolo, già da tempo innescata, della dissolvenza della forma in assonanze, varianti fonosimboliche, apofonie, iterazioni, anafore, metafore stilistiche. Si veda, su questa linea, Notturno 70 e poi si pensi all'epocalità e ai modelli culturali sottesi: il "Gruppo 63", il "Gruppo 70", le "Antologie confinanti", la rivolta sessantottina contro una omologante società leviatanica e borghese in nome dell'utopia millenaristica, liberistica, messianica di matrice e importazione americana. Sono gli anni compresi fra Woodstock e il sabba del Parco Lambro. A quella temperie rimontano le due pubblicazioni più significative di Miglietta: Pacò (1964) e L'eroe di paglia (1970). Due "esperienze opposte", confessa, "una è sofferta, l'altra è giocata; in una vi è la ricerca dell'uomo, nell'altra della parola". Pacò fu progettato tra il '62 e il '63. E' un primo tentativo di evasione dai canoni tradizionali, una silloge di sequenze, di diapositive localizzate dalla storia esistenziale e dalle connesse vicende del protagonista che si scopre in un universo non più gerarchizzato, dove tutto è centro e periferia insieme. Soltanto il punto di vista individuale (ed è già inconsapevolmente fenomenologia) ritrova alla fine un senso sia pure precario e parziale. Non è l'odissea "circolare" dell'Ulisse omerico, che ritorna ad Itaca arricchito nell'esperienza, ma quella del nuovo Ulisse di Joyce che naufraga nel mare della contingenza quotidiana e ha di fronte un futuro senza meta. L'odissea picaresca di Pacò è senza Itaca, senza fine. Pacò è "il ragazzo che entra nella vita subito dopo la guerra, vive quegli anni da sbandato. Poi stanco si ritira in casa, si sposa, diventa professore, insegna, commercia, giuoca i suoi interessi nella politica; appena a metà della sua vita è stanco ed esprime la sua insoddisfazione" [da un manoscritto dell'autore]. Pacò è il suo autore, ma anche ipostasi generazionale di quanti oggi hanno sessanta anni e vissero da adolescenti o da fanciulli, come Sciuscià, il trauma della guerra e la fame, ritrovandosi nelle povere brigate di monelli, non di piccoli Balilla, fra le macerie di un mondo che era crollato, senza che il nuovo si precisasse nella sua pienezza. E' una storia comune a molti. L'eroe di paglia nasce, invece, dalle occasioni che si risolvono e si polverizzano nel divertimento e nell'eresia linguistica, quasi a significanza del fluire senza senso delle forme, della loro labilità, del loro assurdo frantumarsi in essenze, assente un principio metafisico che riduca ad unum il molteplice e il polimorfo. Completa la trilogia La strada nuova, inedito atto di accusa contro le strade asfaltate, contro l'esproprio di identità della terra genesiaca, contro la contraffazione dei connotati animici in luogo dei quali si affermano strutture omologanti e neutre. Parallelamente a questo percorso, si snoda, in diacronia, Procedimenti il cui nucleo tematico più caratterizzante è, come dicevo, l'ambiguità di una esistenza dimidiata fra "pietas e rivolta", senza che l'una si pacifichi nell'altra o la sormonti fino ad escluderla. Miglietta non intravede ancora quella strada che adesso va percorrendo nella sintesi delle sue antinomie, le quali ora si denominano progetto e memoria. Con la poesia verbovisiva siamo, altresì, di fronte alla radicalizzazione più estremistica della poesia-baleno, del frammento lirico e folgorante teorizzato da Callimaco prima ancora di Coleridge, Poe, Mallarmé, Onofri. E' il rifiuto di quanto vi è di inerziale nella poesia. E, motus in fine velocior, le essenze si fanno intuizione eidetica della realtà. Allora nella codificazione del fenomeno che affiora alla coscienza, l'artista sa prescindere dagli aspetti empirici, contingenti, eteronomi. Ed è simbolismo. La pagina si fa silenziosa, ma non bianca alla maniera di Mallarmé. La voce del silenzio è quella del colore, delle armonie, della serialità visiva. In questo confine si attua una simbiosi fra passato e presente, reciprocamente funzionali nella sfera mandalica. In Procedimenti c'è già il futuro Miglietta, così come nell'ultima sua produzione si sedimentano, rarefatte e nebulizzate nella figura, le pulsioni emotive del periodo giovanile. Dicevo della rivolta antiborghese che quest'arte sottende. E a parlarne non sono il solo. Donato Valli, nella sua bella introduzione al volume in parola, scrive così: "da una parte la ribellione contro i detentori della ricchezza e del potere [ ... ], dall'altra l'insorgenza di uno spirito sacrificale autopunitivo, per cui il poeta diventa la vittima di ogni stortura sociale, ne assume su di sé il peso, al fine di redimerla nel bagno salutare della creazione". Ma è sul carattere epilinguistico di alcune composizioni, nelle quali Miglietta riflette sulla poesia e ne "esplicita il significato salvifico della funzione" (Macrí), è su questo carattere che voglio fermarmi. L'autore ci offre di sé e del poeta in rivolta due chiare metafore: il poeta-gobbo e il poeta-padrone del cielo, ma al tempo stesso, spaventapasseri. In quest'ultima immagine non è arduo scorgere una variazione dell'antinomia baudelairiana che consiste nella metafora dell'albatro "principe dei nembi", ma "goffo e imbelle" una volta caduto sulla tolda. Quella sospensione fra ideal ed ennui, fra epicentro lirico positivo e sue negative insorgenze, che si dialettizzano neutralizzandosi nell'astrolabio della poesia, quell'attrito fra l'essere "il folle padrone del cielo" e, insieme, "poeta nudo" che "spaventa nell'orto i passeri. / Due assi sghembi in croce, / una papalina e un cencio al vento", perciò farfalla e verme, quell'attrito rinvia a una radice di mauditisme che fu propria di tutti i poeti della rivolta: da Rimbaud a Verlaine, fino ai nostri Pagano, Stefano Coppola, Salvatore Toma, Antonio Verri. In questa logica dell'arte si iscrive l'altra metafora: quella del poeta-gobbo in cui esplode il sentimento tragico della deiezione e dello scacco o, piuttosto, la voluttà di un destino vittimale, ma salvifico e catartico. Con la lirica La Gobba (p. 14) ritorna, mercè lo straniamento surreale-fantastico, il tema dell'albatro caduto in sintonia con quello del poeta fool, giullare, palazzeschiano saltimbanco dell'anima, spregevole e brutto come lo scarafaggio di Kafka ("Nacqui con la gobba e avevo in essa cannoni e petardi. / Dissi ad altri gobbi: Cantiamo? Ed uscì fuori la bal / lata delle gobbe. / Poi mi dissero: vattene tu. lo che / potevo fare? Me ne andai; però lasciai loro la forma / della mia gobba. Per disperazione mi tirai un pugno / al rovescio sin nella gobba"). Di questa struttura versale si osservi il carattere antilirico, antinovecentesco (non una sinestesia), prosastico, discorsivo, surreale, caro e comune a un altro poeta maudit salentino come Salvatore Toma. E maudit ci appare, in questa fase, Miglietta. Il poeta-gobbo è metafora fortemente allusiva ed evoca il destino del poeta per eccellenza, estraneo e in rivolta, ma anche il prometeico poeta della Ginestra, gobbo e dal "disadorno ammanto". Con codesto archetipo concomita un altro di carattere antropologico ed esorcistico: il gobbo "porta fortuna". Ed ecco, scrive Miglietta, A gobbi portano fortuna". Ma "portare la fortuna", nel nostro gergo arcaico, vuol dire anche divinare, profetizzare, vaticinare. Vate è, dunque, il poeta. Estraneo, deietto, espulso perché ribelle, diverso, disatteso come Cassandra cui "non era concessa fede per detto" (p. 15). Ed ecco lo straniamento che sussume quella concrezione tergale: "i gobbi si dice portino fortuna [ ... ] per un'affezione potente che essi sono capaci di immagazzinare nel loro petto che si sprofonda fin nella gobba". Lettura chimerica, folklorica, straniata della deformazione fisica. Ad essa si connette il manifesto della poetica di Miglietta: il poeta estrae dalla sua gobba non i cannoni che "uccidono" ma i "petardi" che "fanno sorridere". La poesia è, allora, un petardo, non un cannone; non è guerrafondaia, tale è, invece, l'ideologia, cioè il cannone. Ma se i petardi fanno sorridere, talvolta, però, fanno piangere ("mi brucio al fuoco delle fu / cine e voi mi toccate rovente e dite: Ma che è questo? / E' pianto"). La poesia è, dunque, pianto e riso (la gobba). Ed ecco il carattere ludico della scrittura che nasconde sotto il mantello del saltimbanco il dolore dell'anima: "Io mi sto divertendo [ ... ]. Scrivo di mie gobbe fantastiche e pen / so a mie passioni vere". Il poeta è la prima vittima di se stesso: "Io mando a spasso i miei pensieri. Seguitemi ancora e / vedrete che turlupinatura faccio io di me stesso". Segue un fraseggio di sintagmi sciolti, balbettati (i passaporti). Infine la ripresa del tema profetico-decadente-simbolista della poesia che fiorisce dalle radici del male: "Una gobba piena di trucioli [si colga, forse, un'eco sbarbariana], di bronchi raccolti da ampie valli a spiovente verso un pozzo di acqua santa". Ed ecco il significato salvifico di quell'acqua santa: "Basta sapere che lo non voglio / perdermi, né, tanto meno, essere pazzo". Si noterà la continua simbolizzazione, o meglio, la costante allegoria della condizione umana, storica, esistenziale che si codifica nel linguaggio poetico. Il gobbo, ad un attento monitoraggio semantico, ci appare non solo il simbolo dell'infelicità, ma un'immagine che si capovolge continuamente nel suo opposto come i Sileni di Platone, di Rabelais, di Erasmo. Statuette grottesche che incorporano una divinità, così come il comico può contenere il tragico, la follia, la saggezza, la docta ignorantia dei mistici, la conoscenza. E, al contrario, l'approccio tradizionale e normale alla verità può nascondere la sua impotenza, alla stessa stregua del vecchio saggio aristotelico fustigatore dell'asino, ma che aveva in sé, inesplorata, la sua asinità. Un solo accenno all'eresia religiosa di Miglietta afferente all'edulità di un Dio derubricato da Spirito a carne. Cito da Mio dio non t'amo: "Io lo sento, lo chiamo, lo amo, / poi, se la carne è inferma, lo sbrano". Pietas e rivolta, progetto e memoria esiteranno nel silenzio musicale e nelle armonie cromatiche di un universo figurale rotante come i cieli danteschi. Ultimo paradosso: in quel silenzio il canto o forse l'ultima meta di un cammino salvifico. Che è poi il viaggio dal non-essere all'essere della poesia.
|
Tutti i diritti riservati © 2000 |