La
crisi economica che ha investito l'Italia ha avuto grosse ripercussioni
sul sistema produttivo del nostro Salento. Anche qui assistiamo ad un
pauroso aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, e ad una
difficoltà delle imprese a stare sul mercato.
Ma un'analisi accurata che vada oltre l'aspetto congiunturale ci porta
ad evidenziare le peculiarità del nostro territorio, i suoi elementi
di debolezza, quelli di crisi, ma anche le sue potenzialità e
i fattori che possono condurre l'economia salentina verso una robusta
ripresa.
In realtà, quello leccese si presenta come un sistema economico
alquanto complesso, difficile da definire in maniera univoca. Anche
là dove sono evidenti i fattori di crisi, spuntano elementi positivi
che meritano di essere presi in considerazione. E' vero, tuttavia, che
prevale una lettura orientata sulla chiave della crisi e dell'arretratezza
per la tendenza in negativo mantenuta da alcuni importanti indicatori
economici: così il tasso di disoccupazione che continua ad essere
veramente alto (un leccese su 8 è iscritto nelle liste dei disoccupati),
e il reddito procapite che invece si colloca fra gli ultimi dieci dell'intero
Paese.
Ma ricordiamo pure la scarsa apertura verso i mercati internazionali,
con un indice pari a 35,3 contro il 45 della Puglia (posto uguale a
100 il valore medio italiano), la mancanza di rapporti qualificati fra
le imprese e fra queste e il mercato dell'offerta dei servizi alle imprese.
A questi elementi, che marchiano se vogliamo ogni tempo della storia
economica e produttiva della nostra provincia e del resto del Mezzogiorno,
altri si aggiungono, peculiari al nostro territorio, che fanno sicuramente
sperare in una ripresa non solo qualitativa, ma anche quantitativa,
dell'imprenditorialità salentina.
La provincia di Lecce ha registrato negli ultimi anni un forte incremento
della natalità delle imprese, in questo ponendosi decisamente
in controtendenza rispetto alle dinamiche nazionali. Il tasso di crescita
del valore aggiunto prodotto dai due settori dell'industria e dei servizi
nell'ultimo decennio supera di tredici punti quello regionale e di oltre
trenta il tasso di sviluppo nazionale. Sicuramente, dal '70 ad oggi,
la provincia ha modificato profondamente la propria struttura produttiva.
Da un sistema basato sull'agricoltura e sull'industria manifatturiera,
con forte prevalenza dell'artigianato e dell'industria edile si è
passati ad una economia in cui prevalgono l'industria e i servizi, soprattutto
privati. L'agricoltura, invece, ha subìto una vera e propria
recessione ed è stata relegata ad un ruolo pressoché marginale.
Agricoltura
in discesa
Nell'ultimo decennio, il valore aggiunto derivante da questo comparto
è cresciuto ad un tasso del 59,5%, contro quello tre volte
maggiore dell'industria di 194,2%. La velocità di crescita
dei servizi, poi, è stata addirittura quattro volte superiore
a quella del settore primario. Nel 1970 l'agricoltura costituiva il
221/0 del Pil dell'intera economia leccese; dieci anni fa essa pesava
solo il 14%; nel '90, questo tasso è sceso al 5,2%.
Diminuisce il peso dell'agricoltura nell'economia salentina, ma aumenta
il numero di aziende agricole. Muovendosi in controtendenza rispetto
alla media regionale, la provincia di Lecce registra una crescita
di circa il 3% nel numero di aziende censite: sono 70.853 nel '90,
contro le 68.796 dell'82. Nel 1993, le imprese attive registrate nel
ramo agricoltura, caccia, foreste e pesca sono state 557 in provincia
di Lecce: 238 per l'agricoltura e la caccia, 25 per la pesca, una
per le foreste e 293 per le attività connesse con l'agricoltura.
All'accresciuto numero di aziende agricole non corrisponde un aumento
della superficie agricola utilizzata, che anzi diminuisce del 3,3%
passando dal 195.694 ettari dell'82 ai 189.234 del '90.
In venti anni, la nostra provincia ha perso complessivamente 40.790
ettari di terreno agrario.
Diminuisce la superficie media delle aziende, mentre, se si guarda
all'andamento per classi di SAU, si osserva che guadagnano le classi
più basse, sia in numero di aziende sia in superficie utilizzata,
mentre perdono tutte le classi più alte. Nell'ultimo decennio
sono pochissimi i Comuni che hanno registrato un aumento della dimensione
media aziendale: fra questi emergono Parabita con una variazione percentuale
di 84,27% e Tiggiano con un tasso di crescita di 58,07%. La maggior
parte degli altri paesi salentini sconta invece un notevole arretramento
della dimensione media per azienda: Castro ha la perdita più
elevata, pari a -55,73% rispetto all'82; seguono Trepuzzi con -38,49%
e Botrugno con -30,42%.
Per quanto riguarda le coltivazioni, diminuisce la superficie investita
a seminativi (il frumento scende a -13,66%); cresce invece quella
investita a patate (+14,1%). Fra le coltivazioni legnose agrarie diminuisce
la vite, che registra una riduzione pari al 25,22% della superficie
e al 18,06% delle aziende. Cresce invece l'olivo sia in superficie
(+1,54%) sia in numero di aziende (+6,20%). I migliori risultati sono
stati ottenuti dalla barbabietola da zucchero che registra un aumento
del 396,9% nella superficie e del 96,3% nel numero di aziende.
Anche per quanto riguarda gli allevamenti, i dati non sono confortanti:
crescono solo i caprini del 19,1%; mentre diminuiscono bovini e bufalini
(-33,9%), ovini (-33,5%), equini (-56,6%), suini (-35,6%) e allevamenti
avicoli (-21,6%).
In realtà, l'agricoltura riveste ancora un peso notevole nell'economia
locale, soprattutto per lo stretto collegamento con le industrie agro-alimentari
del luogo, da quelle vitivinicole a quelle olearie. Tuttavia, il settore
agricolo sconta crisi ricorrenti ed una progressiva separazione dagli
impulsi provenienti dal mercato, soprattutto a causa del prevalere
delle integrazioni di prezzo e dei sostegni alle produzioni. E mentre
i dati regionali sembrano affermare una tendenza al rafforzamento
della struttura agraria pugliese, nella nostra provincia le cifre
stanno ad indicare un progressivo disimpegno del settore agrario.
Si riduce il tasso di diversificazione del settore e quindi il suo
livello competitivo. Cresce la percentuale di superficie agricola
coltivata a colture tradizionali e sovvenzionate come grano, olivo,
vite e tabacco, che passa dall'80% del 1970 all'86% del 1988. Diminuiscono,
invece, le quantità prodotte e quelle esportate: tra il 1984
e il 1989, infatti, l'esportazione ortofrutticola leccese subisce
una contrazione di circa 163 mila quintali.
Industria in
crescita
Il settore secondario ha manifestato negli ultimi dieci anni una velocità
di crescita del valore aggiunto superiore non solo a quello della
Puglia e del Mezzogiorno, ma anche a quella nazionale. Tra l'80 e
l'89, infatti, la variazione percentuale del Pil del settore industriale
per la provincia di Lecce è stata pari a 194,2, contro il dato
regionale di 181,4 e del Mezzogiorno di 167,5; mentre per l'Italia
la percentuale è stata pari a 157,8. Contemporaneamente è
mutata la composizione strutturale del settore. Nonostante la presenza
di alti indici di natalità di impresa, le aziende artigiane
incidono progressivamente di meno rispetto al totale delle imprese.
Dal 1971 al 1989, il valore percentuale del peso delle imprese artigiane
sul totale delle imprese del settore industriale è sceso di
12,9 punti passando dal 92,7 al 79,8. Segno evidente dell'allontanamento
del tessuto produttivo provinciale dalla dimensione locale e marginale.
Per quanto riguarda i rami produttivi, diminuisce l'incidenza del
manifatturiero tradizionale, mentre acquistano maggiore rilievo la
lavorazione di metalli e il settore meccanico, con particolare riferimento
alla meccanica di precisione. Si sviluppa in maniera incisiva anche
l'impresa tessile; lo stesso settore dell'abbigliamento appare più
diversificato su quasi tutta la gamma. Al calzaturiero e all'abbigliamento,
che restano i settori portanti del sistema industriale della provincia
di Lecce, si aggiungono quindi nuovi spazi di attività i cui
indici di sviluppo sono molto rilevanti. Così il settore della
meccanica di precisione, il cui tasso di natalità tra l'89
e il '90 si assesta intorno al 25-30%, contro il 13% regionale. Anche
l'industria tessile, ripetiamo, fa un salto dimensionale e si assesta
su tassi di sviluppo pari al 10-15%, in armonia con la tendenza regionale.
In crisi, invece, il comparto alimentare, che manifesta un basso indice
di natalità e di sviluppo delle imprese in esso operanti. In
realtà, l'industria alimentare leccese non ha mai avuto un
forte peso specifico sull'apparato produttivo, fatta eccezione per
le attività olearie ed enologiche. Questo peso, poi, nell'ultimo
decennio, è andato riducendosi di circa un punto percentuale.
Inoltre, il settore continua ad essere caratterizzato dalla presenza
di imprese di piccola e media dimensione. Varie le cause, tutte comunque
riconducibili alla mancata rispondenza dell'agricoltura leccese alle
richieste dell'industria alimentare. Infatti, a fronte di una domanda
di prodotti che non siano di consumo immediato, perché necessari
alla trasformazione, si pone un'offerta agricola fortemente orientata
verso produzioni di buon livello qualitativo destinato al consumo
fresco. L'industria alimentare, per poter realizzare economie di scala
tali da consentirle di essere al passo con la concorrenza mondiale,
dovrebbe far perno su aziende agricole di medio-grandi dimensioni,
molto meccanizzate e a forte specializzazione. Tutte condizioni che
nel leccese non si realizzano, data la presenza di una dimensione
estremamente parcellizzata delle aziende agricole.
Questa situazione ha portato l'apparato produttivo leccese a mettere
in secondo piano quella che è la "vocazione naturale"
del territorio, appunto l'industria agro-alimentare, e a ripiegare
su altri tipi di attività che sono poi diventati, o stanno
per diventare, gli assi portanti dell'economia locale, come il settore
dell'abbigliamento o della meccanica di precisione.
Dato caratteristico del sistema industriale leccese, rispetto al resto
della Puglia, è il forte indice di mortalità delle imprese,
segno di difficoltà ambientali mai superate e di processi selettivi
più severi che altrove. Al contrario, l'indice di natalità
rispecchia l'andamento regionale, a conferma dell'esistenza nel territorio
di spinte imprenditoriali molto forti che però nella fase di
attuazione si scontrano con le difficoltà sopra accennate.
Quindi, a differenza di altre aree del Sud, nella provincia di Lecce
non è tanto un problema di nascita di nuove imprese, quanto
un problema di sostegno all'impresa appena nata.
Altro dato peculiare dell'industria leccese, già evidenziato
parlando del settore agro-alimentare, è la prevalenza della
piccola e media impresa nata da processi interni all'area e solo raramente
da interventi insediativi esterni. L'imprenditoria locale rappresenta
il 97% delle unità produttive della provincia e dà lavoro
al 76,2% del totale degli occupati in industria. Solo il 3% delle
imprese industriali operanti a Lecce risulta di proprietà extra-meridionale,
nessuna invece di proprietà straniera, contro l'8,7% della
Puglia e il 13% del Sud.
Terziario qualificato
a debole domanda
Assieme all'industria, il terziario soprattutto privato gioca un ruolo
importantissimo nell'economia leccese. All'inizio degli anni '70,
il settore assunse prevalentemente la funzione di rifugio per la forza
lavoro che veniva espulsa dall'agricoltura e per la cosiddetta "emigrazione
di ritorno". Negli anni successivi, invece, l'espansione del
settore e il consolidarsi di un rapporto diretto tra i servizi e il
resto dell'economia hanno portato ad una vera e propria esplosione
dei servizi vendibili (commercio, alberghi, pubblici esercizi; trasporti
e comunicazioni; credito e assicurazioni; altri servizi). Alla fine
degli anni '80, essi rappresentano quasi il 50010 del valore aggiunto
provinciale, passando dal 167,8 miliardi di lire del 1970 a 5.028.8
miliardi del 1989.
Diverso è invece il discorso per il cosiddetto "terziario
produttivo", quello cioè dei servizi alle imprese, che
stenta a decollare. Sono solo poco più di 800 le imprese di
servizi operanti nell'ambito leccese, e che vanno dalla consulenza
finanziaria e assicurativa alla consulenza contabile, fiscale e amministrativa,
dalle attività immobiliari e di mediazione, agli studi tecnici,
alle pubbliche relazioni e alla pubblicità. La fragilità
della domanda di servizi è dovuta in primo luogo ad una carenza
culturale e ad una prevalenza nel territorio dei settori manifatturieri
tradizionali in cui più forti sono le resistenze verso fattori
innovativi di sviluppo. In questo contesto si inserisce poi la figura
dell'imprenditore "tuttofare", difficilmente disponibile
a delegare ad altri funzioni anche semplici e quindi quanto mai avverso
a rivolgersi all'esterno per individuare e soddisfare i bisogni innovativi
della propria impresa. D'altro canto, le poche grosse imprese esistenti
in provincia preferiscono rivolgere la loro domanda di terziario qualificato
verso le aree del Nord. Si innesca così un circolo vizioso
in cui il settore non decolla per mancanza di domanda e di conseguenza
non cresce in professionalità ed esperienza. Le piccole e medie
imprese, che rappresentano la quasi totalità del tessuto produttivo
della nostra provincia, rivolgono una richiesta di consulenza di assai
basso livello qualitativo.
Per loro, molto spesso, è il commercialista che esercita anche
consulenza finanziaria e direzionale e che si avventura, senza avere
le necessarie cognizioni, nelle analisi di mercato. Si assiste cioè
ad uno sconfinamento delle proprie funzioni da parte dei professionisti
locali che arreca solo danni allo sviluppo dell'impresa in termini
di innovazione e di competitività. Così negli altri
rami di consulenza: la consulenza nel marketing e nella pubblicità
viene svolta da operatori grafici; mentre le competenze degli studi
tecnici industriali vengono esercitate da studi e imprese del settore
edilizio.
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