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10 SETTEMBRE 1943
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IL RE A BRINDISI |
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Ada
Provenzano, Flavio Albini
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Era
un giorno da racconto romantico: il cielo azzurro, il mare blu e viola,
l'aria calda di un'estate che a Sud fa fatica a tramontare. Ed era invece
un giorno di tragedia: un venerdì, che il calendario dedicava
a San Nicola da Tolentino e indicava come 10 settembre dell'anno 1943.
Alle tre del pomeriggio, scesero in fila dal barcarizzo della corvetta
"Baionetta" ancorata fuori del porto di Brindisi. Erano Vittorio
Emanuele III, la regina Elena, il principe Umberto, e poi Badoglio,
gli aiutanti del campo Puntoni, Gamerra, Litta Modignani, Campello,
De Buzzacarini, il ministro della Real Casa Acquarone, il ministro della
Marina De Courten, il ministro dell'Acronautica Sandalli, il Capo di
Stato Maggiore generale Ambrosio, quello dell'Esercito Roatta, il cameriere
del Re Masetti, la cameriera della regina Rosa Gallotti, il nipote di
Badoglio Valenzano, e infine cinquantasette generali.
Erano i fuggiaschi di Pescara. Poco prima di sbarcare, avevano chiesto al Comandante della Piazza se in città vi fossero truppe tedesche. Il Comandante aveva risposto che avevano sgomberato la sera del giorno precedente. Tutti avevano tirato un sospiro di sollievo. Erano in salvo. Da quel preciso momento Brindisi, prestabilita come meta finale, diventava la nuova capitale dell'Italia libera, il cuore politico di quello che venne chiamato il Regno del Sud. Il Regno era formato da quattro province: Brindisi, Bari, Lecce e Taranto. Erano gli unici territori concessi dagli Alleati all'amministrazione italiana. Le sole ufficialmente non occupate. Vi risiedevano due milioni di abitanti, una quota minima di un Impero già crollato da anni. Due milioni di persone ignare di tutto quanto stava accadendo intorno. I fuggiaschi cercarono di sistemarsi alla meglio, da Roma avevano preso il largo fortunosamente, alla svelta, portando soltanto gli abiti che avevano addosso e poche valige. Ma non erano alla fame. Badoglio, poco prima di partire, aveva fatto accreditare la somma di 162 milioni di lire presso la filiale della Banca d'Italia di Bari: una precauzione non proprio inutile. Affannato, venne incontro alla corvetta che segnalava dal largo, l'ammiraglio Rubartelli, Comandante della Piazza, amico di De Courten e noto in Marina con il soprannome di "Bottiglione". A terra ebbero appena il tempo di schierare un picchetto di marinai per rendere gli onori ai Sovrani. I fuggiaschi passarono tra quei soldati come dei fantasmi, con espressioni stranite, affranti per i disagi del viaggio e per i pericoli e le incertezze che l'avevano caratterizzato; ma, nello stesso tempo, con un'evidente contentezza in viso per gli incubi finalmente finiti. Vittorio Emanuele III indossava un diagonalino, una divisa in verità un po' troppo larga per la sua corporatura scarsa: sudava, avanzava col passo incerto di un uomo di settantaquattro anni. La Regina Elena era in veli neri. Il Principe Umberto aveva un aspetto disfatto. Soltanto Badoglio esibiva un sorriso che gli spianava la faccia. Sembrava addirittura felice. Gli altri, e in particolare i cinquantasette generali, con ogni probabilità avevano un po' di vergogna: non avrebbero voluto trovarsi lì. I rituali all'aperto furono, più che brevi, velocissimi. Poi tutti entrarono nel palazzetto dell'Ammiragliato e si trovarono di fronte la moglie dell'Ammiraglio Rubartelli: in vestaglia, confusa, sbigottita, precipitosamente saltata giù dal letto dove stava facendo il riposo pomeridiano. Vittorio Emanuele le baciò la mano, poi chiese se poteva avere una tazza di caffè. Quando gliela porsero, la rovesciò sul tappeto. Sorrise mesto. E disse: "Vedete? Ricomincio a fare guai". Umberto cercava un cavastivali, da circa settanta ore non era riuscito a togliersi i bellissimi stivaloni di pelle rigida, i piedi erano indolenziti in modo insopportabile. Chi potè, fece un rapido bagno ristoratore, o una doccia rapidissima. Lo scirocco non dava tregua. Cercarono subito di rifare, nel piccolo capoluogo salentino, una copia in scala ridotta del Governo e della Corte di Roma capitale. L'Ammiragliato divenne un nuovo, striminzito Quirinale. I coniugi Rubartelli cedettero ai Sovrani l'intero piano e si ritirarono al piano sottostante. Di guardia, i cadetti delle navi-scuola "Colombo", "Palinuro" e "Vespucci": giunsero nei giorni successivi da Venezia e da Pola. Pietro Badoglio, Acquarone e Sandalli si sistemarono nella casermetta dei sommergibilisti. De Courten preferì essere alloggiato a bordo dell'incrociatore da battaglia "Scipione l'Africano". Poi Badoglio trovò una splendida villa presso l'aeroporto e decise di installarvisi. A settantadue anni aveva pure bisogno di qualche comodità. Per i cinquantasette generali, invece, vennero requisiti gli alberghi cittadini "Internazionale" e "Moderno". Ma subito dopo giunsero gli Alleati e li fecero sloggiare dalla mattina alla sera, costringendoli a trovare alloggio presso le case di alcune famiglie brindisine. La sera cenarono tutti insieme. Cucinò il cuoco dell'Ammiraglio, di nome Tommaso; e servì in tavola la governante Lena. Una cena abbastanza frugale. Nessuno pronunciava una parola. Il piccolo figlio di Rubartelli, otto anni, (che poi sarebbe divenuto un celeberrimo fotografo) guardava incuriosito quegli strani signori silenziosi con le teste chine, con gli occhi smarriti. Il giorno seguente il Re si levò molto presto, alle 5,30. Ormai dormiva poco, come tutte le persone anziane. Oltre tutto, c'era un unico bagno ed era necessario fare i turni, gli ospiti si presentavano con l'asciugamano e lo spazzolino da denti. Vittorio Emanuele cavallerescamente cedeva il posto alla cameriera della Regina, dicendo: "Madame, s'il vous plait ... ", perché i Savoia parlavano quasi esclusivamente in francese. Quel giorno stesso Vittorio Emanuele convocò Puntoni e insieme con lui scese per la consueta passeggiata mattutina, com'era solito fare nei giardini romani di Villa Ada. Riprendeva, nella nuova capitale, la sua abituale routine: al mattino la posta, i giornali, gli incontri con gli Alleati; a mezzogiorno la colazione, poi riposo fino a circa le quattro; in seguito, sedute con Badoglio e con Acquarone e scambio di informazioni sulla situazione presente e sui progetti futuri; alle 8 la cena; alle 9,30 a letto. Umberto, che andava in giro per ispezionare il microscopico Regno su una vecchia Lancia dalle gomme lise, faceva ritorno con le scatolette americane di "corned beef" e le regalava alla madre. La città di Brindisi reagiva con curiosità alla presenza di tante personalità capitate all'improvviso. Molte persone si affollavano nelle vicinanze dell'Ammiragliato per vedere il Re, la Regina, Badoglio, fino a quel momento conosciuti soltanto attraverso le fotografie. Il sindaco, il prefetto e persino il provveditore agli studi erano corsi a rendere omaggio al "Governo": che in realtà non esisteva, perché il Maresciallo d'Italia Badoglio aveva abbandonato a Roma tutti i ministri, senza nemmeno far sapere dove si sarebbe diretto. A parte questo, Brindisi non venne sconvolta più di tanto dall'arrivo dei fuggiaschi. I ristoranti erano aperti. E così le mense popolari continuavano a lavorare, i cinema a restare attivi, i tram a circolare. Di tanto in tanto transitavano automobili civili a carbonella. E alla sera la gente passeggiava per le vie, a prendere il fresco prima di mettersi a cena. Badoglio aveva chiamato da Bari il prefetto di quella città, Innocenti, un funzionario che egli conosceva bene e che stimava, di grandi capacità organizzativa. Innocenti raggiunse Brindisi, si sistemò nel palazzo della Provincia: fu lui, con una decina di impiegati fedeli, a mettere in piedi un minimo di intelaiatura burocratica. Al Castello Svevo si installarono lo Stato Maggiore e il Comando Supremo, in altre parole gli uffici e lo staff di Badoglio, di Ambrosio e di Roatta, perché non si vede come si potessero definire Stato Maggiore e Comando Supremo pochi ufficiali senza alcuna autorità e soprattutto senza disponibilità di truppe. Nel piccolo Quirinale, le giornate di quell'inizio autunno pieno di sole erano lunghissime e tristi. La Regina lavorava di cucito con una sartina locale, oppure ricamava; la sera ritagliava figurine per il piccolo Rubartelli, o faceva solitari con le carte: ne conosceva una cinquantina. Umberto era quasi sempre assente. La signora Rubartelli si sentiva in imbarazzo, non sapeva proprio come ci si doveva comportare sedendo a tavola con un Re e con una Regina, ascoltando la radio accanto a loro. In un paio di settimane la povera donna aveva perduto sei chili per lo stress. E accusava qualche scarto fibrillare. Chi più chi meno, intanto, un po' tutti si erano rimpannucciati: la sera stessa del loro arrivo avevano fatto riaprire l'Unione Militare e si erano provveduto di camicie, fazzoletti, biancheria, qualche giubba kaki. Il Maresciallo Badoglio, che in tasca non aveva uno spicciolo, aveva firmato una cambiale di diecimila lire. Poi aveva mandato a prelevare un milione di lire alla filiale della Banca d'Italia per le prime esigenze amministrative. Rubartelli trascorse con il cuore in gola per l'angoscia la sera e la notte dal 10 all'11 settembre di quell'anno. Sapeva che i tedeschi avevano minato un grande deposito di munizioni alla "Masseria Flaminio", che si trovava alle porte di Brindisi, per farlo saltare in aria in caso di abbandono della città sotto la pressione dell'avanzata alleata. Se ora avessero deciso di dar fuoco alle micce, almeno mezza Brindisi sarebbe andata distrutta: una rovina immane, di cui la popolazione era all'oscuro. L'Ammiraglio decise di non informare il Re e Badoglio, perché aveva paura di provocarne chissà quali reazioni. Rimase sveglio fino al mattino, quando poté constatare che il generale von Gablenz e il suo gruppo di guastatori avevano abbandonato il campo, lasciando il deposito di armi intatto. E gli parve di ricominciare a vivere. Tre giorni dopo, il 13 settembre, arrivò a Brindisi la Missione Alleata incaricata di tenere i contatti con il "Governo" Badoglio: ciò significava, in parole semplici, dargli ordini. Era composta dal generale Mac Farlane e dai consiglieri politici Mac Millan, inglese, e Murphy, americano. C'era anche il generale Taylor, che avrebbe dovuto scendere su Roma l'8 settembre con i suoi paracadutisti, ma ne era stato impedito da Badoglio e da Carboni, sicché la sua stima per i generali italiani aveva subito un durissimo colpo. Quando i componenti la Commissione scesero dalle jeep, si formò attorno a loro un assembramento di curiosi: non tanto, o non solo, per la novità di quei personaggi, quanto perché la gente non aveva mai avuto occasione di vedere quelle strane vetture militari, e correva ad ammirarle. I membri della Missione Alleata erano divisi fra di loro: rude fino alla villania Mac Farlane, soprattutto con il vecchio Re, che pure lo ricevette con grande cortesia, rivolgendosi a lui in un inglese perfetto: signorile, ma anche un poco snob, Mac Millan; cordiale e franco Murphy, il quale alla fine del colloquio chiese al Re se potesse fare qualche cosa per lui. E si sentì rispondere: "Le sarei grato se mi potesse procurare una dozzina di uova fresche, alla Regina piacciono tanto e non riusciamo a trovarne". Ma, con ogni probabilità, si tratta di una battuta inventata. La favolistica sulla presenza della "Corte" rischiava di soffocare la realtà storica, e non soltanto a Brindisi. Si vivacchiò per due mesi. Natale e Capodanno furono molto malinconici: per il ricordo di Roma lontana, per la mestizia che procurava una sistemazione precaria, per la mancanza assoluta di prospettive, per l'incertezza sulle sorti della dinastia. C'era pochissimo carbone, la Regina soffriva il freddo. Il 13 dicembre era scivolata e si era rotta una caviglia, sicché fu necessario ingessarla. Penava per l'impossibilità di muoversi. Diventava sempre più triste. Assisté alla Messa di mezzanotte, celebrata da un prete del luogo nella stanza da pranzo: fu costretta a restare sdraiata su una poltrona nella camera contigua, accanto al Re. A mezzogiorno pranzarono soli. Umberto era al fronte. Non vi fu alcuna festa. Anche l'ultimo giorno dell'anno trascorse così, e sicuramente non lieto era stato il compleanno del Re, che cadeva l'11 novembre. Acquarone aveva portato una bottiglia di spumante, ma non si brindò: tutti si erano dimenticati della ricorrenza. Soltanto il generale Puntoni si alzò in piedi e fece gli auguri al vecchio sovrano. Poi si presentarono il duca d'Aosta, che era arrivato da Genova il 23 settembre, e i duchi di Genova, che lo avevano preceduto fin dal 12. Fu una mesta riunione di famiglia. Molto presto incominciò a diffondersi l'opinione che Vittorio Emanuele III dovesse abdicare, se intendeva salvare la monarchia, perché veniva considerato un Re impresentabile. In questa direzione premevano gli Alleati; la pensavano alla stessa maniera Benedetto Croce a Napoli, il conte Sforza rientrato dall'America, e anche vecchi monarchici come Porzio, Arangio Ruiz, Rodinò, De Nicola. Vittorio Emanuele resisteva testardamente, senza addurre una sola buona ragione. Ad un certo punto, anzi, arrivò a chiamare attorno a sé i generali, temendo che Pietro Badoglio e i "politici" intendessero estrometterlo con un colpo di Stato. Ormai diffidava di chiunque, anche dei collaboratori più stretti. Era diventato taciturno, più di quanto non lo fosse stato nel passato; e scontroso, come del resto era nell'intimo suo temperamento. Rivolgeva soltanto domande, eludeva esplicitamente le risposte. Sentiva, opprimente, il peso della solitudine. Riteneva di poter contare solo sui militari. Il Re continuava a visitare il suo piccolo regno su un'Alfa Romeo guidata da Masetti e si sentiva riconfortato dagli applausi delle folle che lo attendevano nelle strade e nelle piazze. Un giorno gli venne proposto di passare i poteri al nipote, il piccolo Vittorio Emanuele, che avrebbe avuto un reggente, che poteva essere lo stesso Badoglio. Non ne volle sapere. Anzi, andò su tutte le furie. Non intendeva nemmeno dichiarare la guerra alla Germania. E aveva ragione: era un gesto ridicolo. Anzi, tragicomico. C'è una storia poco conosciuta, in merito. Una vicenda che conferma appunto quanta sciocca fosse l'intenzione italiana di rivolgere le armi - inesistenti, sbandate, in fuga - italiane contro quelle germaniche. E l'episodio è questo: a presentare la dichiarazione di guerra fu incaricato l'ambasciatore italiano a Madrid, Paulucci, il quale doveva presentarla al collega tedesco. Ma costui si rifiutò di riceverlo. Allora Paulucci mandò un segretario, che venne immediatamente cacciato via, non prima però di aver lasciato il documento ad un usciere, il quale a sua volta lo mostrò ad un funzionario. Ma appena costui verificò di che cosa si trattava, il segretario venne rincorso e la dichiarazione di guerra gli fu rimessa a forza nella tasca. In parole povere, l'Italia aveva dichiarato la guerra ad un usciere! Il 13 novembre venne costituito un governo composto tutto da sottosegretari, dal momento che continuavano ad essere ritenuti buoni come ministri quelli che erano stati abbandonati a Roma. Non fu facile trovar loro una sistemazione logistica. Vennero accampati alla meglio. A Brindisi rimasero il Maresciallo Badoglio, lo Stato Maggiore, Il Comando Supremo, la Missione Alleata, l'Ufficio Affari Civili del Prefetto Innocenti e i Trasporti. Invece la Marina passò a Taranto, la Guerra a Lecce, gli altri sottosegretari vennero fissati più lontano, nella città di Bari. A Brindisi trovare una camera era come vincere un terno al lotto. I prezzi erano saliti alle stelle, gli aumenti avevano toccato il 450 e anche il 500 per cento. Le campagne erano spoglie, i contadini difendevano con le forche e con le doppiette i pochi prodotti agricoli che riuscivano a coltivare. Dappertutto era un panorama di miseria e di disperazione. Uomini e donne erano disoccupati. Il Sud non aveva industrie. Il recente passato lo aveva ridotto ad esempio "luminoso" della battaglia del grano, che era stata alla base della perpetuazione dell'economia agro-pastorale, senza imprenditorialità e senza un vero e proprio mercato. Si viveva di espedienti e di cento grammi di pane per persona al giorno, ricevuti con la tessera. Fioriva il mercato nero, in larga misura alimentato dagli stessi Alleati. Chi le possedeva, spendeva Am-Lire. La fame dava un nome al presente e tagliava fuori orizzonti diversi. Contrabbando e prostituzione alimentavano un'economia da corte dei miracoli, un'economia ancora più stracciona di quella della corte o del vicolo che aveva caratterizzato l'arretratezza e l'infinita povertà di beni e di servizi nelle regioni meridionali durante il Ventennio. Si arricchivano i borsaneristi e i protettori delle "segnorine", i trafficanti d'ogni tipo, gli speculatori. In questi scenari drammatici si consumò la storia dinastica dei Savoia. Il 29 settembre Badoglio aveva firmato a bordo della nave corazzata britannica "Nelson", alla fonda nel porto di Malta, il cosiddetto armistizio lungo, fingendo poi di essere stato ingannato dagli inglesi e dagli americani, che gli avrebbero tenuto nascoste le clausole. Il 28 e il 29 gennaio 1944 si svolse a Bari il Congresso dei Comitati di Liberazione, vale a dire dei partiti politici ancora "in nuce": la mozione finale non lasciava adito a dubbi, il Re Vittorio Emanuele III doveva far le valige e andarsene. Dai microfoni di Radio Bari il professor Adolfo Omodeo invitò addirittura Vittorio Emanuele e Umberto II a suicidarsi: clamorosa conferma che di tanto in tanto anche i più celebri docenti universitari danno di volta al cervello. Una soluzione, comunque, era necessario trovarla. E ci lavoravano in molti, anche monarchici, o soprattutto monarchici, in quei giorni: preoccupati di salvare la dinastia e, parallelamente, di controbattere l'offensiva del "vento del Nord". Fino a quando il grimaldello fu inventato, e a metterlo in atto fu proprio un monarchico di antica fede, poi destinato a diventare il primo presidente della Repubblica: Enrico De Nicola propose a Vittorio Emanuele III di nominare luogotenente il figlio Umberto, e di cedergli i poteri una volta che la Corte fosse tornata a Roma. Avvenne nel corso di un colloquio a Ravello, nella splendida villa del duca Riccardo di Sangro, dove il Sovrano viveva insieme con la Regina Elena dal 14 febbraio 1944, dopo cinque mesi trascorsi a Brindisi, quando fu deciso di trasferire il governo a Salerno. De Nicola vi giunse di sera. Faceva un gran freddo, sembrava che volesse nevicare, e alcuni vetri delle finestre erano rotti e non era possibile sostituirli. Cenarono a lume di candela, mentre fuori aveva preso a soffiare un vento triste, algido. Parlarono a lungo, riservatamente, a bassa voce. Il Re difese le sue ragioni, e lo fece con determinazione, adducendo molte giustificazioni. Ma De Nicola, con la sua capziosa abilità giuridica, alla fine riuscì a sgretolare le autodifese di Vittorio Emanuele e a convincere il vecchio monarca ad abbandonare il campo. Il suo posto sarebbe stato preso nell'antica capitale da Umberto II. De Nicola dormì nella villa: poche ore, agitate, un sonno greve e rotto da improvvisi soprassalti. Lui, che era monarchico di sicura fede, era riuscito là dove avevano fallito anche i più stretti collaboratori del Re, compreso Badoglio. Ripartì per Napoli il mattino seguente, di buon'ora. Si era reso conto che la storia d'Italia aveva voltato pagina ancora una volta. Ma forse non si rendeva conto che sarebbe stato proprio lui uno dei maggiori protagonisti della nuova storia.
E FURONO I GIORNI DELL'ATOMICA
18 aprile: 21 aprile: 25 aprile: 26 aprile: 26 aprile: 27 aprile: 28 aprile: 28 aprile: 29 aprile: 2 maggio: 24 marzo: 6 aprile: 17 aprile: 19 aprile: 21 aprile: 22 aprile: 30 aprile: 1 maggio: 7 maggio: 28 agosto: 30 settembre: 29 dicembre:
5 marzo: 1-2 luglio:
1946: MONARCHIA O REPUBBLICA? 12 marzo: 9 maggio: 9 maggio: 3 giugno. 10 giugno.
13 giugno: 18 giugno: 28 giugno: 27 dicembre:
LA MORTE DEL RE 28 dicembre: Alessandria d'Egitto - Si è spento oggi Vittorio Emanuele III, ex re d'Italia. 28 dicembre: L'ex re Vittorio Emanuele è deceduto oggi alle ore 13,20 all'ospedale "Al Moassat" di Alessandria d'Egitto. Era ammalato di congestione polmonare da circa due settimane. Sei giorni fa, per l'aggravarsi delle sue condizioni, il suo medico particolare ne aveva ordinato il ricovero in ospedale, dove, in seguito a trattamento penicillinico, era sembrato in primo tempo che il suo stato migliorasse. Per sopravvenute complicazioni diabetiche ed arteriosclerotiche, le condizioni del malato peggioravano di molto la notte scorsa, e l'ex regina Elena telegrafava all'ex re Umberto chiedendogli di venire d'urgenza. La fine, però, sopraggiungeva prima dell'arrivo del figlio. Al momento del decesso si trovavano al capezzale dell'ex re soltanto l'ex regina Elena, l'ex regina Giovanna di Bulgaria e la contessa Calvi di Bérgolo. 29 dicembre. UFFICIALE
- Roma - Sua maestà il re d'Egitto ha inviato al capo provvisorio
dello Stato il seguente telegramma: "Ho il grande dolore di annunziare
a V.E. il decesso di Sua Maestà il molto compianto Re Vittorio
Emanuele, avvenuto ieri in Alessandria alle ore 2.30 pomeridiane.
Farouk Re d'Egitto". 29 dicembre: Roma - Il presidente del Consiglio ori. De Gasperi, ai giornalisti che gli chiedevano un pensiero sulla morte di Vittorio Emanuele, ha risposto: "Mi inchino con emozione dinanzi alla morte di un uomo che finì in esilio per errori suoi e di altri, ma il cui nome fu legato frequentemente ad avvenimenti indimenticabili della nostra storia". 29 dicembre: Il
Cairo - Si apprende intanto che i medici che hanno curato Vittorio
Emanuele affermano che l'ex re "si stava rimettendo normalmente
dalla sua congestione polmonare e che il suo stato non ispirava alcuna
inquietudine, quando la confisca dei suoi beni lo turbava profondamente.
Si manifestava allora la crisi cardiaca e lo stato del paziente subiva
un rapido peggioramento".
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