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Crimine organizzato / La rete internazionale
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La mafia del Sol Levante |
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N.
O.
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Circa
ottantacinquemila giapponesi, generalmente vestiti con camicia bianca
e abito scuro, sono tornati all'abituale, imperturbabile vita di tutti
i giorni. Dopo lo scandalo che aveva scosso dalle fondamenta il Kabutocho
cioè la Borsa di Tokio, coinvolgendo Nomura e Nikko, cioè
due tra le maggiori società di intermediazione finanziaria del
mondo, quel nutrito gruppo di personaggi ha ripreso il sereno tran-tran
quotidiano casa-ufficio. Uomini d'affari estranei alle storie di malaffare
che stanno offuscando l'immagine della finanza nipponica? Ma proprio
per nulla. Gli ottantacinquemila, infatti, sono tutti gli affiliati
della Yakuza.
L'organizzazione criminale che in più occasioni negli ultimi tempi ha dimostrato di poter influire a suo piacimento sull'economia del Sol Levante, acquistando aziende, raggiungendo il controllo azionario di altre, stringendo patti di alleanza con finanzieri, uomini politici e la stessa polizia. Ma l'ultimo scandalo, un finanziamento di 350 miliardi di lire concesso a Susumu Ishii, boss di una delle più temibili famiglie di yakuza, non è - secondo gli esperti - che la punta di un iceberg. Le grandi organizzazioni criminali di tutto il mondo, da Cosa Nostra Siciliana alle Triadi cinesi, dai narcos del Cartello di Medellin e del Cartello di Cali alla Vodka connection russa, contano sempre di più nel mondo dell'economia, condizionano, nella loro zona d'influenza e nelle nazioni in cui riciclano i loro capitali, molte scelte della stessa politica. Insomma, se il Giappone trema, gli altri Paesi non possono certo dormire sonni tranquilli. Ma chi sono gli yakuza? E quanto contano in Giappone? La famiglia più importante, con circa ventimila affiliati, oltre cento capi perfettamente conosciuti dalla polizia, cinquecento sedi in tutto il Paese, con tanto di numero telefonico nelle guide, è quella Yamaguchi Gumi. Quartier generale è Osaka, giro d'affari annuo stimato in tremila miliardi di lire. La Yamaguchi Gumi non è stata direttamente coinvolta negli ultimi scandali, ma nel giro di quattro mesi è riuscita a rastrellare sul mercato il 5,6 per cento (15 milioni di azioni) del gruppo tessile Kurabo, diventando il secondo azionista. Altre importanti famiglie sono la Inagawa Kai e la Sumiyoshi Rengo, ma in tutto i gruppi organizzati, che associano qualcosa come 3.200 famiglie minori, sono una quindicina. Le attività sono in parte quelle tradizionali della malavita. Prostituzione, gioco clandestino, racket delle estorsioni (il 32 per cento degli imprenditori ha dichiarato di pagare regolarmente il pizzo) e, soprattutto, narcotraffico. E' quest'ultimo un business dal quale gli yakuza si erano tenuti lontani, specie per volere del vecchio boss dei boss, Mitsuo Taoka. Alla sua morte, undici anni fa, si scatenò una guerra tra yakuza. E sebbene ai funerali del grande capo la polizia avesse arrestato novecento uomini di rispetto (sequestrando 192 spade da samurai), l'organizzazione si è rafforzata, dedicandosi al traffico degli stupefacenti e arrivando a fatturare, un anno fa, oltre 16 mila miliardi di lire, un giro d'affari pari a quello delle organizzazioni criminali italiane degli anni Settanta. Figure particolari di yakuza sono i banzai sokaya (disturbatori di assemblee), i koike (estortori che invitano i dirigenti d'azienda a lussuosi ricevimenti facendo pagare stratosferici prezzi d'ingresso. Il rifiuto non è ammesso), i sarakin (usurai al tasso del 100 per cento al mese). E poi ci sono quelli che si dedicano ad attività apparentemente lecite: nel settore degli alberghi, ai quali impongono, a prezzi politici, la fornitura di biancheria, o in quello della ristorazione. Dopo molti decenni di autarchia criminale, gli yakuza stanno rapidamente allargando il campo d'azione. Cercano alleati negli Stati Uniti e investono migliaia di miliardi sia in America sia nell'area del Pacifico, a cominciare dalle Filippine e dalle Hawaii. La crescita di attività ha persino indotto alcune famiglie a ricercare affiliati attraverso annunci sui giornali. Chi invece è decisamente abituata a muoversi da tempo sul piano internazionale è l'organizzazione delle Triadi che, secondo le polizie di mezzo mondo, rappresentano la più ricca e feroce mafia del pianeta. A Hong Kong, sede centrale delle Triadi, convivono, secondo stime non si sa quanto attendibili, 100 mila miliardari e 300 mila affiliati alla mafia cinese. In pratica, un abitante su diciotto sarebbe un criminale. Il che fa dire comunemente che "la mafia, in realtà, l'hanno inventata i cinesi". Le Triadi, infatti, sono nate trecento anni fa. Per accedervi sono necessari ben trentasei giuramenti. Nella sola Hong Kong ci sono cinquanta Triadi, la più potente delle quali è conosciuta con la sigla 14K, che comprende trentamila affiliati. L'attività principale di queste organizzazioni, che controllano ogni aspetto dell'economia locale, è il traffico di droga: buona parte dei 200 miliardi di dollari che secondo la Dea ("Drug Enforcement Agency") rappresentano i profitti annuali del traffico di eroina, sono controllati dalle Triadi, che dispongono così di una eccezionale liquidità. Tutti i capitali che vengono spostati dalle banche di Hong Kong verso investimenti nelle case da gioco del Centro America, verso le Bahamas e verso altri paradisi fiscali. Le organizzazioni cinesi hanno sempre avuto contatti con le altre organizzazioni criminali e soprattutto con la mafia italo-americana. Una loro ramificazione è stata scoperta in questi ultimi mesi persino a Roma. Ma i problemi cominceranno proprio adesso. Nel 1997 Hong Kong tornerà alla Cina, e le Triadi hanno già cominciato a trasferire le attività in altri Paesi, soprattutto in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Le quattro città del Drago, fuori dall'Asia, sono oltre a San Francisco e a Manchester, Vancouver in Canada e Perth in Australia. Come è stata possibile la crescita delle Triadi che, nel traffico di eroina, hanno ormai superato Cosa Nostra Siciliana? E' molto semplice. Elemento determinante è stata l'alleanza con Khun Sha, il re del Triangolo d'Oro (Laos-Birmania-Thailandia), che l'anno scorso ha raccolto tremila tonnellate di oppio e che dispone di un esercito personale di circa ottomila uomini. Le Triadi, in pratica, hanno costruito una rete di smistamento planetaria di questa ingente produzione. Un business da far impallidire la mafia turca, che attraverso la rotta balcanica ha finora portato in Italia e poi in Germania la morfina-base. Poco più di un anno fa i rappresentanti di trenta Paesi si incontrarono a Oslo con l'obiettivo di mettere a punto una strategia comune contro le grandi organizzazioni criminali. E per molti fu una sorpresa sentire per la prima volta il ministro dell'Interno russo denunciare la preoccupante situazione del suo Paese, dove il numero di tossicodipendenti èaumentato a 100 mila consumatori abituali, mentre i reati connessi al traffico di droga rappresentano in alcune città il 70 per cento del totale. Le organizzazioni criminali, al di là della vecchia cortina sovietica, hanno registrato rapidi progressi. Il mercato moscovita, ad esempio, è controllato dalla potente cosca dei Dolgoprudnya, che si dedica anche al controllo del racket delle estorsioni, alla prostituzione e al traffico di auto rubate. A contrastarne l'avanzata ci sono altri clan: gli Assyrian e gli Ingusci. La nascente mafia russa rappresenta ancora un'incognita nel panorama delle organizzazioni criminali. Secondo alcune inchieste, gli affiliati sono seimila nella sola area moscovita, dove operano dodici grosse organizzazioni. "Nelle file dei trafficanti militano nascostamente persino governanti, parlamentari, funzionari, agenti di polizia corrotti, uomini d'affari e banchieri che riciclano ed investono il denaro sporco". Così scrive nel suo libro, La guerra della droga, Giuseppe Di Gennaro, ex responsabile dei programmi antidroga dell'Onu. In America Latina, per esempio, il narcotraffico ha creato dal nulla fortune colossali: il patrimonio personale del boss Pablo Escobar è di tre miliardi di dollari; quello di un altro boss, Rodriguez Gacha, èdi un miliardo e mezzo di dollari. Tutti i narcos latino-americani realizzano profitti annui pari a cinque o sei miliardi di dollari. Eppure, secondo l'opinione di Pino Arlacchi, in America Latina, a differenza di altri Paesi del mondo dove operano i grandi cartelli mafiosi, non è avvenuta la saldatura diretta tra economia reale ed economia criminale. Il gran fiume di soldi proveniente dal narcotraffico non è confluito direttamente nel mare del denaro pulito. "In Colombia, in Bolivia e in Perù", afferma Arlacchi, "non rientrano ogni anno più di due miliardi di dollari prodotto col commercio della coca. Il resto dei profitti resta nei paradisi fiscali". Sono cifre non piccole ma che, per quanto riguarda per esempio la Colombia, rappresentano una quota che va dal 3 al 6 per cento del reddito nazionale. Quanto basta e avanza per investire in grandi tenute, nel turismo, nell'edilizia, e per condizionare in qualche modo la vita politica e sociale del Paese. La domanda è: è pensabile, oggi, un'economia internazionale senza denaro sporco? Secondo una ricerca del Centro Einaudi, se il commercio di stupefacenti fosse sconfitto, nel mondo accadrebbe qualcosa di simile a un grande terremoto. Il dollaro, strumento finanziario elettivo del narcotraffico, avrebbe una forte caduta. Molti Paesi del Terzo Mondo precipiterebbero in una crisi acutissima. Nei Paesi industrializzati, invece, la crisi sarebbe vissuta dalle istituzioni finanziarie, perché è impensabile che una loro parte non sia infiltrata o almeno inquinata dall'economia illegale. Anche in Italia ci sarebbero contraccolpi. "Va considerato", si legge nella ricerca, "che il valore aggiunto delle attività legate alla droga è stimato pari al 2,5-3,5 per cento del prodotto interno lordo, sicché anche solo un suo dimezzamento avrebbe forti effetti depressivi sulla congiuntura italiana". Ora il brigante non si ricicla più Combattere la
criminalità organizzata nel momento in cui si mimetizza nel
riciclaggio significa soffrire di una occulta debolezza che si unisce
alle altre, molte e note, di ordine giuridico, politico e organizzativo. |
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