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LE RECENSIONI
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Un'indagine sull'Agricoltura salentina |
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Marcello
Vadacca
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L'agricoltura
salentina può difficilmente, per ovvi motivi storici, essere
proposta in termini di analisi senza che gli aspetti economici evidenzino
palesi contraddittorietà e che l'estrapolazione settoriale di
alcuni dati porti ad una visione viziata, in difetto od in eccesso,
in relazione all'aspetto tecnico considerato. Vi sono nel contesto dei
risultati dell'ultimo censimento agricolo alcuni dati che possono fornire
una visione globale della situazione generale e delle sue tendenze evolutive.
Questi riguardano essenzialmente la diminuzione del numero delle aziende,
della superficie totale e di quella agricola utilizzata, sia in assoluto
che a livello aziendale stesso.
I motivi per cui si è giunti ad una contrazione della superficie agricola sono da mettere in relazione a più fattori, di natura locale e generale, che hanno inciso diversificatamente sulle realtà produttive inducendo parallelamente una diminuzione della forza lavoro ed un abbandono di quelle aziende, o parte di esse, in cui l'esercizio agricolo, per motivi contingenti, risultava poco redditizio. La diminuzione del numero delle aziende non ha portato, ed è questo l'aspetto più preoccupante, ad un aumento della superficie totale media delle aziende stesse, riproponendo le identiche tematiche che agli inizi degli anni settanta furono evidenziate, in vari interventi sulla agricoltura salentina, da diversi politici e tecnici quali Ferrante, Vianello, Casalino ecc.ecc. La polverizzazione delle proprietà e la conseguente esiguità delle superfici aziendali costituiscono il problema fondamentale della agricoltura salentina. Problema contro il quale vengono in conflittualità tutte le proposte programmatiche che non considerino questo peculiare aspetto che prima di essere affrontato in termini economici deve far pensare per il suo significato sociale. Se da un'attenta disamina non si può fare a meno di sottolineare la naturale vocazione agricola del territorio provinciale, d'altra parte non bisogna dimenticare che circa il 70% dei suoli agrari presenta un modesto potenziale produttivo, in relazione alle caratteristiche pedologiche di base e nei confronti degli andamenti climatici, che impongono scelte e sistemi colturali tecnicamente inadeguati per un'agricoltura che in campo comunitario deve competere con nazioni a tecnologia avanzata, e comunque capace di lavorare a bassi costi. Nello specifico, ovviamente in maniera diversificata, problematiche complesse investono i settori tradizionali di produzione, quali: l'olivicoltura e la viticoltura per le colture arboree, la tabacchicoltura e l'orticoltura per le erbacee, la zootecnia nella sua totalità. Il comporto olivicolo riveste un'importanza economica notevole, occupando circa il 30% della superficie agraria dell'intera provincia di Lecce ed interessando circa il 71% delle aziende agrarie. Il rilancio di questa coltura, perennemente in crisi, va affrontato in termini di ristrutturazione generale, con piani di settore che interessino direttamente le aziende e miranti all'aumento della produttività, al rinnovo tecnologico ed alla diminuzione dei costi. Questo implica, a livello amministrativo, un'ottica programmatica che favorisca un intervento pubblico lontano dall'assistenzialismo e tendente a sviluppare l'imprenditorialità coltivatrice sia singola che associata. Per la viticoltura esiste una situazione sicuramente più rassicurante, dovuta ad una diversa organizzazione del settore stesso ed ad una presenza tecnica adeguata che ha saputo trasformare, con scelte innovative, in base alle esigenze del mercato, una produzione generica, specializzandola e dandole una precisa conformazione, In termini di prodotto finito, capace di imporsi concorrenzialmente in ragione della propria qualità. Negli stessi termini non si può certo discorrere sulla tabacchicoltura che negli anni sessanta sembrava essere il settore di maggiore potenzialità produttiva dell'agricoltura salentina. La liberazione della coltivazione del tabacco ha portato ad un eccessivo incremento produttivo a tutto discapito della qualità delle foglie, con un conseguente imbastardimento delle varietà ed un aggravio economico sul prodotto per la presenza di figure intermediarie, che oltre a non dare alcuna garanzia sulla qualità della produzione stessa, tendono a sostituirsi, ed è forse questo l'aspetto più dequalificante, al ruolo dei periti, che in passato hanno garantito gli ottimi livelli tecnici a cui oggi con rimpianto si aspira. La mancanza di programmazione e la conseguenziale eccessiva sensibilità delle produzioni agli andamenti di mercato, in assenza di una sviluppata industria trasformativa, costituiscono i fattori di labilità del settore ortofrutticolo. Settore che ha potuto raggiungere eccellenti risultati quanti-qualitativi sia per condizioni bioclimatiche favorevoli, che per una maggiore diffusione della irrigazione. Risultando però eccessivamente esposto ai danni delle superproduzioni ed alla assenza di proiezioni sugli andamenti del mercato e dei consumi, che evidenziano in quale clima di incertezza maturino le scelte degli operatori e quanto avvilenti e costosi, per l'intera comunità, siano gli ammassi e le distruzioni cui periodicamente sono soggetti i prodotti ortofrutticoli, al fine di contenerne il prezzo a livelli non remunerativi, ma capaci di far rientrare le spese colturali. La zootecnia salentina, oltre a particolari situazioni locali che hanno determinato una riduzione del patrimonio bovino, rischia di andare incontro ad un ulteriore collasso a causa di scelte comunitarie destinate alla protezione di territori ad alta produzione, alimentando le dipendenze passive, in termini di una vera e propria colonia di mercato, di quelle regioni in cui la produzione stessa, a livello locale, non riesce a soddisfare la domanda. La conversione produttiva, da latte a carne, per mezzo di un cospicuo contributo per l'abbattimento delle lattifere e l'acquisto di animali da ingrasso, attraverso il quale si cerca di arginare, o quantomeno contenere, i danni causati da detta politica, rischia di esitare, almeno per ciò che riguarda il Salento, negativamente, o di non sortire gli effetti desiderati. In quanto l'allevamento carneo necessita di scelte colturali e strutturali completamente diverse da quello che è l'assetto agricolo-zootecnico del territorio. La cospicua contrazione del numero dei capi bovini registrato nell'ultimo censimento, il 36% in meno circa, deve essere messa in relazione ai provvedimenti sanitari che furono presi, verso la metà degli anni settanta, per ovvi motivi di profilassi sociale e che portarono alla distruzione degli allevamenti nelle zone urbane e periurbane. Fino al 1970, come ampiamente dimostrato dai relativi censimenti dell'epoca, il numero dei capi bovini era distribuito, in una percentuale superiore al 50%, in allevamenti di uno-due capi. Allevamenti nei quali l'attività zootecnica non era dominante e costituiva una delle molteplici attività cui i coltivatori erano soggetti al fine di giungere alla definizione di un reddito. E' intuitivo che l'attività zootecnica avesse un'impostazione estensiva, che per altro non ha perso, legato alla polverizzazione della proprietà agricola tanto dal proporsi in termini direttamente proporzionali a questa. L'ovinicoltura, al contrario dell'allevamento bovino, continua ad essere un settore stabile e soggetto ad incrementi continui, sia per l'immigrazione di pastori e greggi da altre regioni italiane, fenomeno questo che va tenuto in debito conto per le capacitò professionali ed imprenditoriali di alcuni pastori sardi, sia per il fatto che comunque, in relazione alla sua rusticità, la pecora èun animale da reddito. Ovviamente l'ovinicoltura industriale non è legato unicamente al numero di capi, ma alla volontà di incentivare e quindi di interessare all'allevamento superfici adeguate sia da un punto di vista strettamente agronomico, che da quello tecnico. La zootecnia in senso generale ha bisogno di strutture permanenti, a duplice funzione sperimentale e dimostrativa, allo scopo di incentivare la produzione, favorire l'introduzione di nuove razze e selezionare le autoctone, come sarebbe quantomai necessario fare per la podolica pugliese e per la moscia leccese, razza a triplice attitudine che può dare ottimi risultati sia per la produzione carnea che per quella lattea. Da quanto sommariamente e superficialmente disaminato risulta naturale, parlando di questioni agricole in senso generale, accentrare in un nucleo di proposte le possibili soluzioni. Ricette taumaturgiche in agricoltura non esistono, in quanto il nucleo centrale dell'intera questione agricola, come ampiamente dimostrato in altre regioni italiane, ruota intorno a due specifiche problematiche di base che sono rappresentate dall'assistenza tecnica e dall'associazionismo, che per quanto si vogliano disgiungere sono fra loro collegate. La cooperazione, come ampiamente viene dimostrato dal Prof. De Meo nella sua opera, che più che una attenta analisi può essere definita un diagnostico radiografico del movimento cooperativistico della provincia di Lecce, è una realtà a grosse potenzialità di sviluppo, che può affrontare diversi dei problemi a carattere economico, sociale e programmatico che affliggano la penisola salentina. Trascinando con sé specifiche competenze e la necessitò di assistenza tecnica, strumento indispensabile per incidere radicalmente sul tessuto agricolo partendo dalla conoscenza delle esigenze materiali che da questo emergono. |
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