I) - Gli inizi della
questione meridionale risalgono ad oltre un secolo prima dell'unificazione
dello Stato italiano. Assumendo come inizio del moderno sviluppo l'avvento
al trono delle Due Sicilie di Carlo III di Borbone (1734), si può
affermare che il Mezzogiorno, nei 125 anni che hanno preceduto l'unità,
abbia avuto un'evoluzione istituzionale, economica e politica simile a
quella delle altre regioni d'Italia. La liquidazione dei residui feudali
e dei benefici ecclesiastici e corporativi e lo sviluppo della produzione
agricola sulla base dei nuovi rapporti di proprietà borghese e
dei meccanismi di mercato, hanno progredito nel Mezzogiorno, come nel
Centro e nel Nord. Analogamente, il Mezzogiorno ha preso parte - come,
e talvolta più delle altre regioni - ai processi del rinnovamento
politico e sociale del Paese, sia nel '700, in relazione al movimento
illuministico e riformatore, sia nelle vicende legate alla rivoluzione
francese, al dominio napoleonico e all'instaurazione di nuovi regimi,
sia infine nei moti liberali del Risorgimento.
L'unificazione, con l'annessione al Regno d'Italia, oltre ai gravi problemi
di ordine psicologico determinati dall'introduzione dell'ordinamento piemontese
nelle province meridionali, indusse gravi conseguenze di ordine economico
con l'improvvisa apertura di un mercato unico nazionale e l'introduzione
del regime fiscale di Torino. L'abbattimento delle barriere protezionistiche,
che avevano separato sino col 1860 il Mezzogiorno dalle altre regioni,
stroncò quasi per intero il complesso industriale sorto nell'ultimo
periodo borbonico, determinando in questo settore una situazione dalla
quale il Mezzogiorno a stento si solleverà solo dopo molti decenni.
Perfino la produzione agricola, che dall'allargamento del mercato (in
quel tempo di prezzi elevati) avrebbe dovuto trarre immediato vantaggio,
ne fu per qualche tempo turbata.
Il regime fiscale piemontese era divenuto particolarmente pesante in conseguenza
delle guerre di indipendenza, dal accresciuto apparato burocratico e della
costosa politica ferroviaria (la cosiddetta "cura di ferro")
voluta da Cavour con l'intento di accelerare l'unità economica
e politica del Paese. L'immediata applicazione di quel regime fu risentita
in modo particolarmente grave nelle province meridionali, per il raffronto
con il regime fiscale relativamente mite della finanza borbonica e per
l'alta incidenza dell'imposta fondiaria e di quelle indirette sui consumi
popolari (gravissima fra tutte l'imposta sul "macinato"), che
colpivano redditi e consumi tipici del Mezzogiorno e meno si prestavano
all'evasione (1).
Può dunque affermarsi che il problema del Mezzogiorno trasse le
sue ragioni da un complesso di elementi culturali ed economici, cioé
storici, stratificatisi in molti secoli, raggiunse li suo punto critico
nel periodo immediatamente successivo all'unificazione dello Stato e formò
oggetto di attente analisi, naturalmente ispirate dalle valutazioni politiche
di coloro che le formularono (2). La conclusione di gran parte di esse
può sintetizzarsi nella fiducia nel libero svolgersi delle forze
del sistema economico, nel quadro di uno Stato vigile, anche se non determinante;
mentre da talune, dissolto il mito del "buon governo", la soluzione
del problema fu vista attraverso la rottura dell'equilibrio per il contributo
determinante della borghesia umanistica o per l'unione degli operai del
Nord con i contadini del Sud.
La rivalutazione della questione, fatta successivamente alle due guerre
mondiali, l'ha posta nella luce sua propria, riportandola alle gravi deficienze
di strutture dell'economia e della società meridionale: raffrontato
con quello del Centro-Nord del Paese, il sistema economico del Mezzogiorno
apparve caratterizzato dalla scarsa incidenza, nella formazione del reddito,
delle attività industriali; dalle peculiarità fisiche e
strutturali dell'agricoltura, raramente inquadrata in forme aziendali
autosufficienti, nonché dall'eccesso della popolazione, con la
conseguenza di un cronico stato di disoccupazione e sottoccupazione: tutto
ciò causa ed effetto anche dell'inadeguatezza e talora della totale
mancanza delle cosiddette "economie esterne" o infrastrutture
civili e umane (scuole, strade, acquedotti, ospedali, elettrificazioni,
amministratori pubblici e privati; dirigenti e personale professionalmente
istruito e tecnicamente qualificato) che costituiscono la base, che sostiene
e qualifica una determinata società.
Tale situazione non poteva non riflettersi sulla fisionomia civico-sociale
delle comunità meridionali, caratterizzate - come fu acutamente
rilevato - da una grande disgregazione sociale, derivante dal contrasto
tra una borghesia terriera sempre più tendente a distaccarsi dalla
terra, alla ricerca di altre occupazioni di sostegno, e la grande massa
dei contadini, sprovvisti o inadeguatamente provvisti di terra: non fu
quindi possibile realizzare la coesione tra questi gruppi, anche per la
mancanza di "corpi intermedi" che fungessero da coagulo delle
due componenti. Ne derivò debolezza di struttura e di qualificazione
negli Enti locali, nonché difetto di formazione, oltre che di spirito
comunitario, di una classe dirigente che potesse assumere il ruolo di
protagonista della rottura di quell'ambiente chiuso ed adeguarsi all'evoluzione
della restante parte del Paese (3). Tutto ciò rese sempre più
acuto il contrasto con la struttura economica e sociale delle regioni
del Centro-Nord, che mostravano una visibile tendenza al continuo sviluppo,
attraverso l'industrializzazione, il miglioramento delle colture agricole,
l'incremento dei traffici, l'aumento del benessere e del tenore di vita.
Il Sud, all'opposto, ristagnava in uno stato di depressione generale,
che anzi, con il passare degli anni, andava sempre più accentuandosi.
Le scarse industrie preesistenti andavano scomparendo sotto la pressione
della concorrenza di quelle settentrionali; l'agricoltura si impoveriva
ed era travagliata da crisi sempre più frequenti; i commerci languivano;
la disoccupazione si estendeva, alimentando un flusso migratorio sempre
più rilevante; le condizioni di vita, non soltanto economica ma
anche sociale e civile, andavano via via deteriorandosi.
Così si era venuta determinando e sempre più consolidando
quella struttura "dualistica" dell'economia del Paese, caratterizzata
dall'esistenza di due aree con caratteristiche, ritmi di produzione e
redditi del tutto diversi: con ovvii riflessi di ordine civile, economico,
sociale e culturale. Una società può essere definita "economicamente
unificata" quando le forze di lavoro, che danno o possono dare la
stessa prestazione, sono prontamente utilizzate nel compito e con il saggio
di retribuzione che le singole capacità professionali comportano
(4).
Il nostro Paese costituisce, ancora oggi (anche e soprattutto dopo le
gravi vicende determinatesi a partire dal 1973, a causa della crisi petrolifera
e all'estensione a tutto il territorio dei problemi dell'occupazione),
un tipico caso di economia "non unificata", in quanto sussiste
tuttora una forza di lavoro che non trova occupazione adeguata alle proprie
capacità.
Il rilevante divario economico esistente tra Nord e Sud apparve dunque
come uno dei più gravi problemi del nuovo Stato unitario; la storia
della legislazione di tale Stato, riferita al Mezzogiorno, si identifica
con i tentativi posti in essere con specifici provvedimenti legislativi
diretti a rimuovere le condizioni di arretratezza dell'area meridionale.
II) - Superate le
iniziali tendenze volte all'unificazione della legislazione in tutto
il territorio dello Stato, col progressivo attenuarsi delle remore poste
da quelle valutazioni globali, comparvero nella legislazione le prime
disposizioni che - nell'ambito delle opere previste dalla legge sui
lavori pubblici 20 marzo 1865, numero 2248, ali. F. - istituivano speciali
provvidenze per il Mezzogiorno nel modo di esecuzione di alcune opere
e nella previsione delle relative spese. Si trattava peraltro dell'inizio
di una diversificazione di trattamento finanziario in materia di opere
pubbliche, che non incideva sulla struttura del sistema economico, il
quale continuava ad operare secondo i suoi autonomi impulsi.
Le misure prese in questa prima fase (fase che si prolungherà
per circa un quarantennio) tendono all'obiettivo principale della politica
d'intervento, quello di unificare il quadro nel quale l'imprenditoria
delle diverse regioni poteva operare. Più precisamente, quella
politica si propose di unificare: a) le pubbliche istituzioni operanti
nel campo economico; b) i modi e le condizioni dell'azione svolta dalle
istituzioni stesse, nonché c) le strutture fondamentali della
proprietà terriera. Tale obiettivo è stato definito come
obiettivo di "unificazione normativa".
Caratteristica di tale unificazione fu il suo settorialismo, in quanto
essa si riferì a talune scelte, in prevalenza connesse a quella
dei lavori pubblici, stabilendo, nell'ambito della disciplina generale
posta dalla legge 20 marzo 1865, speciali provvidenze per il Mezzogiorno
(cfr. R.D. 12 ottobre 1865, numero 2530; R.D. 15 agosto 1866, numero
3442; legge 27 giugno 1869, numero 5147), ovvero ebbe di mira il miglioramento
della situazione di alcune realtà regionali, considerate meritevoli
di particolare cura (così la legge 2 agosto 1897, numero 382
per la Sardegna, con finalità prevalentemente agricole; la legge
31 marzo 1904, numero 140, per la Basilicata, che segna una maggiore
estensione e diversificazione degli obiettivi; la legge 25 giugno 1906,
numero 255, per la Calabria, e quella 9 luglio 1908, numero 445, a favore
della Basilicata e della Calabria).
III) - Peraltro,
l'azione di "unificazione normativa" non vale ad avvicinare
l'obiettivo generale dell'unificazione; importanti elementi, del tutto
nuovi, devono essere introdotti nell'azione intrapresa immediatamente
dopo l'unificazione e la natura di tali elementi sta ad indicare che
è fenomeno superabile solo mediante provvedimenti unificatori
di istituzioni, di politiche e di strutture proprietarie, cioé
come effetto della già ricordata politica di unificazione normativa;
per la prima volta si ha qualche misura ispirata da intenti di propulsione
economica, cioé non sorretta soltanto dalla esigenza di livellare
situazioni di partenza, ma anche dalla finalità di creare situazioni
di favore nel Mezzogiorno nei confronti delle altre regioni d'Italia
(5).
Siffatta concezione, che emergeva dalle impostazioni più illuminate,
venne a trovarsi in una difficile posizione tra la "scelta nordista
e industrialista" di Giolitti, la cecità e ostilità
delle Deputazioni meridionali nel parlamento e l'impossibilità
di un contributo efficace delle forze di lavoro meridionali (ancora
prive del diritto di voto e incapaci di dar vita a un movimento paragonabile
a quello del Nord). Essa fu costretta a muoversi sul piano intellettuale
dell'analisi critica e delle azioni di minoranza; non valse a mettere
definitivamente in luce, oltre che le ragioni del divario tra Nord e
Sud, le contraddizioni per le intrinseche debolezze della costruzione
unitaria. Per questo la sua influenza si fece sentire in seguito in
modo duraturo nella formazione della coscienza storica e politica della
nazione. Ispirandosi a una concezione austera dello Stato e ad una visione
rigorosamente unitaria dei problemi, essa considerò la questione
meridionale esclusivamente nel quadro e nei termini di una corretta
condotta della politica nazionale (6).
Nella corrente di idee, che suoi definirsi come "meridionalismo",
e che si incentra sulla figura di Giustino Fortunato, si profilano due
tendenze: quella di Salvemini, che corre fino a Guido Dorso e ad Antonio
Gramsci, che ipotizza il radicale mutamento dei rapporti di classe nella
società meridionale e italiana, attraverso la rottura del sistema;
quella che ripone la speranza nello sviluppo guidato dall'intervento
pubblico e dalla programmazione e accetta, pur volendo modificarla,
la realtà sociale e politica, qual'essa è: Nitti, Amendola,
Sturzo. L'incisiva frase di Giovanni Amendola del 1919 riassume questo
indirizzo: "Occorre che lo Stato si assuma tutto intero il peso
e il merito dell'iniziativa per trasformare razionalmente il Mezzogiorno"
(7).
L'elemento comune, dunque, di queste tendenze - che è il carattere
unitario, nazionale, del problema del Mezzogiorno - fu felicemente riassunto
nelle seguenti proposizioni:
1) l'aderenza delle misure di intervento alla situazione e all'evoluzione
degli elementi che la caratterizzano;
2) la considerazione del problema del Mezzogiorno nell'ambito dei temi
delle aree depresse;
3) il riferimento costante del problema specifico al quadro generale
e unitario del Paese: lo sviluppo del Mezzogiorno è da considerare
come condizione per lo sviluppo dell'intera economia nazionale;
4) la necessità di adeguamento del disegno al mutamento delle
vicende generali e il costante controllo del "costo" di tali
generali vicende sull'azione meridionalistica (8).
Nel secondo dopoguerra i primi interventi legislativi per il Mezzogiorno
non si ispirarono a tale concezione, poiché furono inizialmente
caratterizzati dalla finalità di soccorrere situazioni di emergenza,
con conseguente carattere di provvisorietà (9). Si tratta di
provvedimenti in gran parte determinati da necessità contingenti,
per rimediare alle più elementari insufficienze amministrative,
tecniche, finanziarie, civili ed organizzative (ad esempio, la totale
carenza degli organi del credito industriale e la penuria di capitali,
con i conseguenti altissimi saggi di interesse).
Soltanto nel 1950 il problema fu visto con carattere di organicità
e fu elaborata la legge che impegnava lo Stato italiano ad affrontare
con ampia visione la "questione meridionale", con un primo
tentativo di rottura dello schema tradizionale dell'intervento rivolto
frammentariamente ad ovviare alle più palesi insufficienze nel
campo delle opere pubbliche. Questa volta si affrontavano le necessità
del Mezzogiorno come un tutto, come una vasta regione tutta bisognosa
di essere reimmessa nel circuito economico del Paese. Si può
dire che nel 1950 si prese piena coscienza del carattere "dualistico"
dell'economia italiana, per cui oltre un terzo del Paese ristagnava
in forme di economia arretrata, mentre le regioni più vicine
ai centri, dai quali nel corso del secolo XIX si era irradiato lo sviluppo
economico europeo, continuavano a progredire (10).
Il governo, presieduto da De Gasperi, presentava infatti il 17 marzo
1950 un disegno di legge (numero 1170) nella cui relazione si affermava:
"L'esigenza di creare le condizioni necessarie perché l'annosa
questione meridionale trovi modo di avviarsi verso una soluzione definitiva,
suscettibile di ulteriori naturali sviluppi, comporta un'impostazione
d'insieme che deve derivare da un impegno globale pluriennale dello
Stato, capace di consentire più ampio respiro nella programmazione
delle opere e nel coordinamento dei singoli progetti. Pertanto il presente
disegno di legge prevede che siano eseguite opere per un importo complessivo
di 1.000 miliardi. Solo attraverso un impegno preciso e determinato
nel suo ammontare può darsi vita ad un efficiente e coordinato
programma di opere, evitando una frammentaria programmazione, inadeguata
a risolvere così gravi problemi, e una discontinuità di
realizzazione".
Nella stessa relazione, dopo essersi posto in rilievo che per l'effettiva
disponibilità di così ingente somma sarebbe occorso tanto
tempo da rendere l'esecuzione del programma discontinua, irrazionale
e dispendiosa, si rilevava la necessità di un meccanismo in grado
di integrare le disponibilità di bilancio attingendo al mercato
del risparmio e si precisava: "La necessità di dar vita
ad un simile meccanismo ha concorso, insieme con altre ragioni, a far
ritenere indispensabile la costituzione di un Ente apposito che presiedesse
allo svolgimento del programma per unicità e costanza di direttive
e con l'elasticità necessaria per adottare la programmazione
e l'esecuzione delle opere, con adeguata sollecitudine, alle mutevoli
esigenze economiche e sociali". E più oltre: "E' appena
il caso di rilevare che il nuovo Ente di diritto pubblico, cui viene
attribuita la denominazione di Cassa per opere straordinarie di pubblico
interesse nell'Italia Meridionale e, più brevemente, di Cassa
per il Mezzogiorno, pur nella sua autonomia di struttura e di funzione,
opererà con riguardo alla sostanziale disciplina legislativa
nei vari settori nei quali essa svolgerà i suoi programmi"
(11).
Se si riflette al dibattito parlamentare, che fu occasionato dalla discussione
del disegno di legge De Gasperi, non si può non rimanere impressionati
dalla novità con cui maggioranza e opposizione inserirono il
tema nel quadro politico ed economico generale: dalle valutazioni del
provvedimento fatte da De Gasperi, dalle relazioni degli onn. Jervolino
e Scoca, dall'intervento dell'on. Lucifredi (inquadramento della legge
sulla Cassa nel tema mondiale delle aree depresse), alle riserve dell'on.
De Martino, intese a sottolineare l'esigenza del cambiamento della struttura
dell'economia e dei rapporti sociali delle classi, all'opposizione degli
onn. Mario Alicata e Giorgio Amendola, l'intervento del quale collegò
il problema della politica delle aree depresse con quello dell'espansione
del capitalismo (12).
La visione politica del tema superò l'impostazione economica,
per lo meno sotto un duplice aspetto: quello della visione istituzionale
dello strumento fondamentale di attuazione della politica meridionalistica,
capace di concepire in termini razionali la spesa pubblica e di attuarla
rapidamente; quello della concezione più equilibrata e più
completa dell'intervento con riguardo alle infrastrutture e all'agricoltura,
in una visione che trova li suo punto di forza nei "complessi organici".
Vero è che, spesso, nella pratica applicazione dei piani di intervento,
così lucidamente visti, la direttiva non è stata sempre
coerente: è certo però che essa assorbì, in lineea
di massima nella fase della prima attuazione della legge, l'indicazione
migliore delle proposizioni del meridionalismo attivo e vi dette un
largo respiro.
NOTE
1) Questa sintesi della situazione pre-e-post-unitaria del Mezzogiorno
è tratta dalla fondamentale voce di M. Rossi Doria, La questione
meridionale, in "Enc. Agr. lt.", vol. IX.
2) Cfr. M. Rossi Doria, voce Mezzogiorno (Questione del), in "Enc.
lt.", Appendice III, 1949-1960, pagg. 99-100. Per una disamina
storica della "questione", cfr. Salvadori, Il mito del buongoverno,
Torino, 1960, e le raccolte antologiche di Caizzi, Antologia della questione
meridionale, Milano, 1955, e di Villari, Il Sud nella storia d'Italia,
Bari, 1978.
3) Rossi Doria, op. ult. cit., pag. 101.
4) Saraceno, La mancata unificazione economica italiana a cento anni
dall'unificazione politica, (Biblioteca di Economia e Storia, VI, 1961,
pagg. 692 e segg.). Per i riflessi europeistici del dualismo, all'attuale
situazione della CEE allargata, cfr. le riflessioni del Ministro per
il Mezzogiorno, Capria, Relazione alla "Giornata del Mezzogiorno",
Bari, 20 settembre 1980, in "Informazioni Svimez", 1980.
5) Saraceno, op. cit., pag. 696, con riferimento alla legislazione speciale
regionale per la Sardegna, la Sicilia e la Calabria.
6) Rossi Doria, op. cit.
7) Per ampie, approfondite valutazioni di questi orientamenti, cfr.
ancora Rossi Doria, op. cit. Rilevante la posizione di Galasso, Vecchi
e nuovi orientamenti del pensiero meridionalistico, in "Nord e
Sud nella società e nell'economia italiana d'oggi", Torino,
1968, pag. 85.
8) Saraceno, op. cit.
9) Cfr. ampie indicazioni in Pescatore, Mezzogiorno (Provvedimenti per),
in Noviss. Dig. lt., vol. X, Torino, 1964, pagg. 653, 657 e segg.
10) Cfr. Di Nardi, I provvedimenti per il Mezzogiorno 1950-1960, in
" Economia e Storia", 1960, pagg. 489 e segg.; Carabba, Introduzione
a "Mezzogiorno e programmazione", nella collana Morandi-Svimez,
Milano, 1980, pagg. 2 e segg.
11) Sull'origine della Cassa per il Mezzogiorno e sul contributo di
pensiero e di attuazione dati da Campilli, Giordano, Menichella e Saraceno,
cfr. Barucci, Introduzione a Il meridionalismo dopo la ricostruzione
di Saraceno, Milano, 1974; Cafiero, La nascita della "Cassa",
in "Studi in onore di Saraceno", Milano, 1975, pagg. 177 e
segg.; Carabba, op. cit.
12) Il contenuto del dibattito parlamentare può leggersi in Il
Mezzogiorno nel Parlamento repubblicano (1948-1972), collana Rodolfo
Morandi-Svimez, a cura di P. Bini, I, Milano, 1976, pagg. 329 e segg.
Per una valutazione delle posizioni parlamentari, cfr. Annesi, Mezzogiorno
(legislazione per il), in Enc. Dir., vol. XXVI, Milano, 1976, pagg.
221 e 222.
|