Dalla prima presenza
nelle province dei Regno (intorno al 1461) alla fusione con i gruppi locali
- Il ricordo sopravvive nella lingua, in alcune tradizioni, in superstiti
linee di architettura agricola: parole disperse di un racconto quasi smarrito
e tuttavia presente nel profondo della nostra identità culturale.
A rileggere la storia
delle imprese di Giorgio Castriota, l'eroe albanese, in una antica narrazione
pubblicata a Venezia nel 1619, si respira aria di avventura, di eroismo,
di cavalleria; un poema in prosa, in cui vive una pagina di storia che
lega due sponde che si fronteggiano, affacciate sul braccio di mare
dove il Canale d'Otranto mescola le onde dell'Adriatico e dello Jonio:
le montagne d'Albania e le coste piane, accoglienti, luminose del Salento.
E nell'antica Istoria, Scanderberg ci appare nel momento in cui, al
comando di una potente flotta, forte delle vittorie per la libertà
della sua terra dal dominio turco, giunge in vista del porto di Barletta
per sostenere la guerra di re Ferrante contro l'esercito francese, che
non solo aveva occupato parte del Regno, ma aveva trascinato contro
il Sovrano moltissimi baroni. La Istoria ci parla della vittoria, del
"trionfo", per il quale il Sovrano si sentì debitore
verso l'eroe albanese, e quindi dell'investitura a lui concessa del
Ducato di Ferrandina, del Marchesato di Tripalda: era la prima presenza
albanese nelle provincie del Regno; siamo intorno al 1461. Nello stesso
tempo è da datare la concessione del dominio di S. Pietro Galatina,
e tra il 1464 e il 1478, quando i turchi divennero signori dell'Epiro,
della Macedonia e dell'Albania, sono da collocare con tutta verisimiglianza
gli insediamenti di altri Albanesi nella provincia di Terra d'Otranto.
I primi immigrati della nazione albanese furono certo soldati, pastori
e agricoltori coloro che li seguirono; certamente invitante era stata
la concessione non solo di terre e casali, ma di privilegi ed esenzioni
fiscali come quella dal Fuoco, variamente documentata. E non è
dubbio che tali insediamenti albanesi furono per il re di Napoli un
elemento di equilibrio e di forza politica nella lotta feudale contro
i baroni, quando il potere centrale incoraggiava le amministrazioni
autonome delle Università, in quel difficile, sottile gioco di
concessioni, privilegi, vincoli, manovre fiscali, attraverso il quale
si costituiva la fisionomia delle provincie Napoletane in rapporto al
potere centrale. Per il Sovrano di Napoli gli Albanesi di Terra d'Otranto
rappresentarono uno di questi elementi; ma più profondamente
umano, più sottile e complesso è il rapporto tra gli insediamenti
albanesi e le popolazioni di questa terra di Puglia. E' un rapporto
che giungerà a fondere i gruppi etnici, lasciando il ricordo
nella lingua, in alcune tradizioni, in alcune linee di architettura
agricola, in qualche particolare di gusto decorativo in cui si avverte
la presenza di maestranze orientali sulle quali aveva influito comunque
il gusto arabo. Sono parole disperse di un discorso, di un racconto
quasi smarrito e tuttavia presente nel profondo della nostra identità
culturale. Talvolta si tratta di sillabe soltanto, e diventano preziose,
acquistano suggestione, e le inseguiamo, le interpretiamo come gli Oranti
le foglie della Sibilla, disperse dal vento, misteriose ma vere dentro
di noi.
Vero è che questa provincia di Terra d'Otranto, distesa tra Lecce
e Taranto, ha conosciuto nella storia una sua splendida unità
al di sopra delle vicende e nonostante la varietà, la molteplicità
degli aspetti; una unità amministrativa che ritroviamo costantemente
nei documenti, dai Normanni in poi; una unità geografica che
sussiste al di là della differenziazione delle provincie attuali.
E noi preferiamo questa antica e precisa denominazione della provincia
"hidruntina" a quella di Salento, forse più dolce all'uso,
originata probabilmente da quel casale "Saletum" che figura
tra i casali della Terra di Taranto, quali vengono elencati nell'Istrumento,
datato al 1452, che descrive i confini del Territorio tarentino stesso,
inventario conservato dalla Camera della Sommaria, a Napoli. Il Casale,
che apparteneva alla mensa Arcivescovile di Taranto, non ebbe vita lunga:
i suoi abitanti ottennero da Roberto di trasferirsi a vivere in Grottaglie,
per il continuo affanno originato dalle guerre, ma esso era destinato
a dare il nome all'intera provincia salentina. E la Terra d'Otranto
conobbe, con i casali abitati da Albanesi, una pagina di storia in cui
emerge, preciso e duraturo, il problema fondamentale posto dalla nuova
presenza: il problema di minoranze linguistiche e soprattutto religiose.
E se l'aspetto linguistico si risolse in una più spontanea Koinè
attraverso la vita di ogni giorno che vide matrimoni, e lavoro, e problemi
comuni, dobbiamo invece riconoscere che più lunga fu la differenziazione
religiosa. Ne sono testimonianza i documenti custoditi negli archivi
delle Curie di Taranto e Nardò, nonché nell'Archivio segreto
Vaticano. Questi documenti assumono rilievo particolarissimo dopo il
Concilio di Trento, quando la Chiesa affrontò tutto un processo
di riorganizzazione interna e riaffermò ovunque la certezza della
dottrina, precisandola non solo nei principi, ma anche nel rispetto
dei riti, dei culti, dei simboli, delle immagini, che costituiscono
gli aspetti formali di valori sostanziali in inscindibile, necessaria
unità di significato. Ecco, perciò, le visite pastorali
generali dei Vescovi assumere il ruolo di documento primario, non solo
per il problema che consideriamo ma per la storia del diritto, dell'archeologia,
dell'economia di queste terre, che, già nell'origine più
arcaica e poi sempre nel loro divenire, si erano trovate a vivere e
sintetizzare il destino di più civiltà, di più
genti, di più culture, emergendone con una unità e un
volto nuovo.
La prima visita che consideriamo è quella di Mons. Lelio Brancaccio,
che nel 1578 visita i casali albanesi, dopo aver compiuta la visita
pastorale a Taranto. Le visite sono in realtà compiute presso
le Cappelle, Chiese, Parrocchie dei Casali stessi, ma ne emergono le
condizioni economiche degli abitanti, il numero di "fuochi",
il nome dei "papa" delle singole chiese, notazioni di costume,
rapporti con l'autorità civile, dal momento che spesso compare
a deporre il feudatario o il signore del luogo o il magistrato della
comunità. Emerge nettamente così la composizione etnica
di questi casali, che è albanese, anche se talvolta - come a
Civitella, a Montemesola, a Carosino, ecc. - essi vivono insieme ad
abitanti latini, mentre la religione che professano è di rito
greco. L'Albania, infatti, era regione orientale, per questo aspetto
aveva fatto suo, nei riti e nelle forme, il cristianesimo dei fratelli
separati dal rito latino.
Ancora una volta, latini e greci costituiscono - uniti e diversi - un
tessuto culturale estremamente vario, in cui le intuizioni mistiche
incontrano precise esigenze di oggettività istituzionale, e i
modi espressivi si intrecciano nello stesso simbolismo che è
il contrappunto fedele e sommesso della classicità. Non sono
certo solo le forme a caratterizzare queste minoranze religiose: le
loro cappelle sono quasi tutte affrescate con Santi familiari nel culto
greco, in qualcuna appariva una elementare iconostasi, i paramenti sono
nettamente di tipo greco; ne è prova la presenza quasi generalizzata
dell'andrimisio, panno di lino consacrato, decorato con lettere greche
simboliche, sul quale veniva consacrato il pane fermentato che veniva
segnato con un marchio o sigillo. I simboli più comuni nell'iconografia
evocano lontane suggestioni: la torre di Davide e il giglio del campo,
la rosa di Gerico e il cipresso, la palma di Cades e la stella di Giacobbe,
e non è solo suggestione di nomi o di immagini mistiche, è
fascino profondo di cose, luoghi nitidi nella mente, testi umani su
cui alito il divino.
I libri per il culto, presenti in ogni Casale, sono scritti in greco,
e ovunque si presenta ,a rendere la propria deposizione un "papa"
che ha lettere di ordinazione in greco, riconosce l'autorità
del Metropolita, amministra i sacramenti e osserva le ore canoniche
quotidiane conformemente all'istituto greco, estende la sua giurisdizione
sino alla scomunica.
Vogliamo ricordare due rituali tipici: l'uso della corona per gli sposi
nel rito matrimoniale e la festa del carnevale o arcipurcium. L'uso
della corona era già testimoniato in Tertulliano che in esso
simboleggiava la Grazia; ed era così essenziale nella celebrazione
solenne del matrimonio che, anche quando nei secoli l'uso si diradò,
il nome "corona" continua ad indicare il sacramento stesso
del matrimonio. Il vocabolo arcipurcium indicava in genere festini,
banchetti, ma era soprattutto riferito alla festa del carnevale; le
famiglie si riunivano e durante i preparativi più persone intonavano
una cantilena in lingua albanese, cantilena che nella lingua originaria
si chiamava "vala", e che aveva accenti lieti ma anche dolorosi,
nostalgici, talvolta lugubri. Poi, il più vecchio beveva alla
comune salvezza. La festa interrompeva l'astinenza dalle carni e dai
latticini che gli albanesi osservavano nei periodi di avvento e poi
di quaresima. Festa analoga, con canti diversi, accompagnava le feste
nuziali.
Ma le visite pastorali non ci testimoniano solo la realtà viva
di un'umanità non più eroica che affronta le opere e i
giorni nel segno di una fede antica; esse ci dicono anche lo sforzo
della Chiesa latina di attrarre nella propria comunità queste
minoranze. Lo sforzo è teso infatti a limitare il potere del
prete greco a cui si ingiunge di riconoscere solo l'autorità
del Pontefice romano, e ogni visita si conclude con l'invito a tutti
i fedeli di accogliere il rito latino, il cui nuovo catechismo post-tridentino
viene diffuso tra il popolo.
Il Brancaccio arriverà ad offrire gratuita ospitalità
nel seminario tarentino a chi vorrà istruirsi nella religione
cattolica romana. Non conosciamo molto delle risposte a tali sollecitazioni;
lentamente i casali albanesi scompaiono come unità a se stanti,
e solo indirettamente cogliamo qua e là notizie che ci riconducono
al loro depauperarsi sino a svanire. Nei registri delle parrocchie latine
del 1622 e del 1650 sono segnati matrimoni in cui uno dei coniugi proviene
da qualcuno dei casali albanesi; ancora nel 1600 Antonio di Castro,
nella relazione dopo la sacra visita "ad limina", ci dice
che le popolazioni albanesi "adhuc graeco ritu utuntur", però
si affretta ad aggiungere che in questi riti "nihil est quod orientale
schisma redoleat".
Una progressiva assimilazione? Già in alcuni Casali venivano
onorati Santi latini. Un permanere di costumi senza più un substrato
teologico o dogmatico? E' probabile, dal momento che non abbiamo notizie
di nuove presenze albanesi significative sotto tale profilo, che neppure
la Chiesa d'oriente è in un momento di espansione. Ma nel 1718,
Mons. G. B. Stella attesta che nella chiesa Maggiore di Taranto "ab
immemorabili" perdura l'uso di leggere le Epistole e i Vangeli
in utroque idiomate latino, scilicet et graeco"; e del resto, ancora
nel 1680 Roccaforzata "gubernatur per Archipresbiterum Albanensem".
Infatti "ista terra est albanensium, etiam si vulgari lingua loquantur".
Ancora, un manoscritto del Calvelli attesta la sopravvivenza di piccoli
gruppi albanesi nel 1787. Intanto, erano anche mutate le condizioni
politiche nel Regno, e molti casali perdevano per desuetudine i diritti
personali e reali che avevano per privilegio goduto, ritornando alla
condizione di masserie o riconducendosi a quote dei più vasti
antichi feudi alla cui giurisdizione erano stati sottratti. Non è
da trascurare la crisi agricola e demografica che investe le provincie
meridionali del Regno alla fine del XVI sec. dopo un periodo di espansione
economica: adesso saranno le Università a recitare un nuovo ruolo
e una diversa battaglia con i loro parlamenti per l'acquisizione in
proprio di nuovi diritti. E l'Albania di terra d'Otranto?
Ci aggiriamo in un cortile abbandonato, nei pressi di un muro diruto,
un nome desta echi e risonanze nella mente attenta, ecco: il passato
è in noi, basta averne consapevolezza e guardare alla nostra
storia con "intelletto d'amore".
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